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Fascismo e Massoneria, storia di rapporti complessi – 3^ parte – Luigi Morrone

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 La nascita del Regime e la Massoneria

Le temperie seguenti sono note: alle elezioni del 1924 il PNF conquista una maggioranza schiacciante, il deputato socialista Giacomo Matteotti viene assassinato dopo un durissimo discorso alla Camera, l’opposizione si ritira in un immaginario “Aventino”, non partecipando ai lavori parlamentari. Viene ventilato da più parti l’ipotesi di un “complotto massonico” che fomenta l’avversione al fascismo. I fascisti più intransigenti tuonano contro i camerati provenienti dalla massoneria, applicando ai massoni la regola ecclesiastica del semel abas, semperabas, per cui “il massone” non cessa mai di essere tale (1). Il risentimento antimassonico monta all’interno del mondo fascista, ed il 15 agosto 1924, il Gran Consiglio approva un deliberato durissimo. I massoni sono nemici del fascismo e vanno combattuti senza pietà. Il Ministro dell’Interno, il nazionalista Luigi Federzoni, noto antimassone, lascia che gli squadristi devastino le logge in tutta Italia senza far intervenire le forze dell’Ordine. È la premessa alla “stretta di freni” definitiva, che avverrà dopo qualche mese. Il 12 gennaio 1925, il Governo presenta alla Camera il disegno di legge sulla «Regolarizzazione dell’attività delle Associazioni, Enti ed Istituti e dell’appartenenza ai medesimi del personale dipendente dallo Stato, dalle provincie, dai comuni e da istituti sottoposti per legge alla tutela dello Stato, delle provincie e dei comuni».

Tale legge contiene due pilastri fondamentali:
1. l’obbligo, per qualunque associazione, di comunicare all’Autorità di Pubblica Sicurezza tutte le notizie inerenti all’attività dell’associazione, ivi compresi gli elenchi degli associati;
2. il divieto dei pubblici dipendenti di appartenere ad associazioni comunque legate al vincolo del segreto, sotto pena della destituzione.

La Massoneria non viene menzionata, ma è chiaro a tutti che costituisce il bersaglio principale della legge. Il 14 aprile 1925, nelle more della discussione parlamentare, l’Ufficio Massoneria del Partito nazionale fascista dirama a tutte le Federazioni la Circolare n. 4 (2), in cui si dice: «Le Federazioni tengano presente che la Massoneria costituisce in Italia l’unica organizzazione concreta di quella mentalità democratica che è al nostro partito e alla nostra idea della Nazione nefasta ed irriducibilmente ostile, che essa, ed essa soltanto, permette ai vari partiti, borghesi e socialisti, dell’opposizione parlamentare ed aventiniana, la resistenza, la consistenza e l’unità di azione». La discussione alla Camera è fissata per il 16 maggio (slitterà al 19). Relatore è il nazionalista Emilio Bodrero, uno dei protagonisti della “guerra alla massoneria” condotta dal suo partito nel 1912, conclusa con la sanzione dell’incompatibilità. Nella relazione, si legge: «Qualsiasi specie di società occulta, anche se, per ipotesi, il suo fine sia eticamente e giuridicamente lecito, è da ritenersi, pel fatto stesso della segretezza, incompatibile con la sovranità dello Stato», ed è chiarissimo il riferimento alla Massoneria, anche per il successivo “passaggio” sull’obbligo del segreto. Il primo a prendere la parola nel dibattito del 16 maggio è Gioacchino Volpe (3), il quale toglie ogni dubbio sul riferimento alla Massoneria: «… quando si dice società segrete, si dice massoneria» e sulla Massoneria ed il suo ruolo storico incentra tutto l’intervento: ne sminuisce il ruolo nel processo risorgimentale, ricorda la posizione antimassonica di varie organizzazioni e partiti che nella Massoneria vedevano «… l’equivoco politico, la degenerazione della vita pubblica, il confusionismo delle idee, la sopravvivenza di illuminismo e di ideologie settecentesche, il pacifismo spappolato, l’internazionalismo, la disorganizzazione dello Stato, lo strumento di stranieri interessi a danno del Paese, il vecchio e vacuo anticlericalesimo, specialmente l’intrigo e la camorra» (4).

La stragrande maggioranza annuncia il voto favorevole. Il “fascista anarchico” Massimo Rocca (5), dal canto suo, annuncia il voto contrario, assumendo l’attuale “irrilevanza” della Massoneria, che egli rivendica di aver combattuto «allorché la massoneria era veramente una casta dirigente, tanto che soltanto i massoni potevano riuscire nella vita pubblica, aprirsi una carriera intellettuale, e trovare degli editori per stampare i loro libri e divulgare le loro idee». Egli teme che la legge sia una sorta di “grimaldello” per la «fascistizzazione che si vuol fare della nostra burocrazia». Violenta la posizione, contraria all’approvazione della legge, di Antonio Gramsci, che tuona: «Che cosa è la Massoneria? Voi avete fatto molte parole sul suo significato spirituale, sulle correnti ideologiche che essa rappresenta, ecc.; ma tutte queste sono forme di espressione di cui voi vi servite solo per ingannarvi reciprocamente, sapendo di farlo. La Massoneria, dato il modo con cui si è costituita l’Italia in unità, data la debolezza iniziale della borghesia capitalistica italiana, la Massoneria è stata l’unico partito reale ed efficiente che la classe borghese ha avuto per lungo tempo. Non bisogna dimenticare che poco meno che venti anni dopo l’entrata a Roma dei piemontesi, il Parlamento è stato sciolto e il corpo elettorale da circa 3 milioni di elettori è stato ridotto ad 800 mila. È stata questa la confessione esplicita da parte della borghesia di essere un’infima minoranza della popolazione, se dopo venti anni di unità, essa è stata costretta a ricorrere ai mezzi più estremi di dittatura per mantenersi al potere, per schiacciare i suoi nemici di classe, che erano i nemici dello Stato unitario». Come nota Aldo A. Mola (6), Gramsci «votò contro la legge, non per difendere la Libera Muratoria ma perché essa faceva presagire lo scioglimento coatto dei partiti di opposizione … ma il suo voto non può essere frainteso sino a farne un difensore della Libera Muratoria».

Viceversa, è in atto un’operazione di mistificazione storica, che viene condotta isolando dal contesto la frase “la Massoneria è stata l’unico partito reale ed efficiente che la classe borghese ha avuto per lungo tempo” (7) per presentarla a sostegno della tesi per la quale Gramsci avrebbe difeso la Massoneria affermando che essa «Rappresentava la parte illuminata della tradizione politica risorgimentale e si era scontrata con le correnti reazionarie e clericali che si erano impossessate del regime usando la forza del fascismo agrario» (8). Gramsci non sostiene questo, né lo lascia intendere. Anzi, sostiene che il vero bersaglio della legge non è la Massoneria, ma il movimento operaio, che l’eventuale sostituzione dell’egemonia massonica con l’egemonia fascista sarà solo un’operazione di facciata (9) «In realtà il Fascismo lotta contro la sola forza organizzata efficacemente che la borghesia capitalistica avesse in Italia, per soppiantarla nella occupazione dei posti che lo Stato dà ai suoi funzionari. La rivoluzione fascista è solo la sostituzione di un personale amministrativo ad un altro personale … La realtà dunque è che la legge contro la massoneria non è prevalentemente contro la massoneria: coi massoni il fascismo arriverà facilmente ad un compromesso». Chiusa la discussione del 16 maggio, al momento della votazione manca il numero legale, la seduta viene aggiornata e la proposta di legge viene approvata il 19 maggio con 289 voti contro 4. La legge diviene definitiva dopo l’approvazione da parte del Senato nella seduta del 22 novembre 1925. Lo stesso giorno, una balaustra di Torrigiani scioglie tutte le logge aderenti al GOI, ma non scioglie il GOI, che continua la sua opera. Certamente quella della ricerca esoterica. E, forse, anche quella “esterna”, soprattutto di collegamento tra “fratelli”. Raoul Palermi, nel frattempo, scioglie l’obbedienza di piazza del Gesù e comincia una peregrinazione “elemosinando” benemerenze al Regime, dopo di che, sparisce nel nulla, vivacchiando con un vitalizio assegnatogli da Costanzo Ciano, vecchio massone “in sonno” fin dalla sancita incompatibilità tra iscrizione al PNF ed affiliazione alla Massoneria (10). La Massoneria di piazza del Gesù è scomparsa.

 

La Massoneria durante il Regime

Nell’affrontare la disamina dell’azione massonica durante il regime, bisogna rifuggire dall’errore di confondere “il massone” con “la massoneria”. Che – ad esempio – il grande matematico Arturo Reghini rimanga massone pur collaborando con il regime (11), non significa certo che “la massoneria” abbia in qualche modo parte nelle vicende del Ventennio. Che – al contrario – siano massoni molti fuoriusciti, non significa di per sé che “la Massoneria” tessa le sue “trame” contro in Regime, come spesso si enfatizza, sia da parte fascista e neofascista, sia da parte massonica. Che non si debba incorrere nell’errore di interpretare l’azione del massone con l’appartenenza alla massoneria, è sufficiente un esempio: durante la guerra d'indipendenza americana, quasi tutti i comandanti in entrambi i campi erano massoni (12). Di conseguenza, ci sia o no Luigi Capello (alto dignitario del GOI) dietro la preparazione dell’attentato di Tito Zaniboni (altro affiliato al GOI – l’attentato è sventato in via preventiva da un’operazione di polizia), ci sia o no Colonna di Cesarò (teosofo, massone dell’obbedienza di piazza del Gesù) dietro l’attentato di Violet Gibson, non significa che “la massoneria” abbia organizzato gli attentati al Duce (13). Con la recrudescenza delle manifestazioni ostili della polizia nei confronti dei Massoni, molti “fratelli” riparano all’estero, soprattutto in Francia, dove è ancora vivo il ricordo dell’opera del GOI in favore dell’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa. Sospettato di aver contatti con i fuoriusciti, a loro volta sospettati di “tramare” contro il Regime, Torrigiani viene inviato al confino a Lipari, e lascia la reggenza della Gran Maestranza al Gran Maestro Aggiunto Giuseppe Meoni. Ma all’estero è già riparato Giuseppe Leti, gran segretario cancelliere del Supremo consiglio del Rito Scozzese Antico e Accettato all’interno del GOI. A Parigi, dove morirà nel 1939, riorganizza le fila del GOI tramite i massoni fuoriusciti e tende all’ingresso della Massoneria come Istituzione nella “Concentrazione di azione antifascista” promossa dal “Fratello” Alceste De Ambris (14).

Le funzioni del GOI in quel periodo sono svolte, però, dalle logge argentine (la balaustra del 1925 aveva sciolto solo le logge italiane, non le logge del GOI operanti all’estero), coordinate da Alessandro Tedeschi. La riorganizzazione “ufficiale” del GOI in esilio avviene a Londra nel 1930, eleggendo secondo Gran Maestro Aggiunto Eugenio Chiesa ed affidandogli la “reggenza” dell’Ordine (il Gran Maestro restava ancora Torrigiani). Alla morte di Chiesa, la “reggenza” è affidata al socialista napoletano Arturo Labriola. Non c’è dubbio che il GOI in esilio si attivi nel tentativo velleitario di rovesciare il regime, con la suddetta “Concentrazione”, e con “Giustizia e Libertà”, formazione fondata da Carlo Rosselli nel 1929 (15), nella quale si scioglierà nel 1934 la “Concentrazione” (16), ma all’interno di tali formazioni, deve scontrarsi con la diffidenza degli altri fuorusciti, che temono una sorta di opera “anestetizzante” dei massoni nei confronti della lotta antifascista (17). Quel che più conta, è che tale azione si perde già nel fallimento di tutto il fuoriuscitismo, tanto è vero che nel 1936 i comunisti, che vedono al suo apice il successo popolare del Fascismo, lanciano un appello alla conciliazione ai “Fratelli in camicia nera” (18), dicendo: «Solo la unione fraterna del popolo italiano, raggiunta attraverso alla riconciliazione tra fascisti e non fascisti, potrà abbattere la potenza dei pescicani nel nostro paese e potrà strappare le promesse che per molti anni sono state fatte alle masse popolari e che non sono state mantenute … I comunisti fanno proprio il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori … Noi proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi.». Non solo, ma le logge europee, durante il convegno internazionale del rito scozzese del 1937, riconoscono che Mussolini in Italia e Hitler in Germania hanno il consenso della popolazione, onde si esclude che la Massoneria come istituzione possa impegnarsi in una lotta contro i suddetti totalitarismi (19).

Ma il GOI deve scontrarsi con un’altra difficoltà, tutta interna all’Istituzione. Le fratellanze non riconoscono l’attività massonica del GOI all’estero. Accolti individualmente come “fratelli”, non lo sono come “organizzazione”: la loro attività all’estero in quanto logge italiane contrasta con il principio della Massoneria Universale sulla territorialità dell’organizzazione, principio per il quale un Ordine non può operare nel territorio in cui è presente un’altra fratellanza (20). Nel solstizio d’Estate del 1937, il GOI cerca di trovare un rimedio a questa situazione, onde Alessandro Tedeschi, divenuto Gran Maestro del GOI nel 1931, convoca presso il suo domicilio le fratellanze di Portogallo e Germania in esilio (21) al fine di unire «… le massonerie perseguitate che non hanno trovato in quelle non perseguitate una solidarietà efficace» (22), onde viene fondata quella che viene definita una “intesa cordiale”, a cui viene dato il nome di “Alliance des Francs-maçonneries persecutées” (23). Letteralmente nulla l’attività “esterna” di questa “Alleanza”. Last, butnotleast, il silenzio totale della Massoneria sull’introduzione, nel 1938, delle leggi razziali da parte del regime fascista, silenzio che, in realtà, è di tutto l’universo antifascista in Patria, e che vede poche voci di protesta tra i fuorusciti (24). Tirando le fila del discorso, e considerando:
1. la irrilevante o nulla incidenza dei fuorusciti sulla stabilità del Regime;
2. la irrilevanza della presenza del GOI nelle organizzazioni antifasciste all’estero;
3. la irrilevanza del GOI in esilio nell’ambito della Massoneria internazionale, appaiono del tutto sproporzionate sia le ossessioni fasciste per le “logge” viste perennemente sul piede di una guerra aperta all’Italia fascista (25), sia le rivendicazioni massoniche di grandi meriti nella lotta antifascista tra il 1927 ed il 1939 (26).

Note:
1 - Mola 2018, p. 643;
2 - Pubblicata in «Rivista massonica», I (nuova serie), 11-12, 1966, pp. 225-28;
3 - L’illustre storico è il redattore della relazione finale dei lavori della Commissione dei quindici (presieduta da Giovanni Gentile) su “Le origini e l’opera della Massoneria”, che accompagna la presentazione del disegno di legge;
4 - Questo e gli altri interventi citati, sono tratti dagli atti Parlamentari della Camera dei Deputati – XXVII legislatura del Regno - 1asessione - discussioni - tornata del 16 maggio 1925;
5 - Tra i primi a seguire Mussolini dopo l’uscita dal Partito Socialista, ed eletto nelle file fasciste alle elezioni, ed espulso subito dopodal PNF, dichiara di parlare da “oppositore” (sarà dichiarato decaduto dalla carica parlamentare nel 1926);
6 - op. cit., pos. Kindle 8364-8365;
7 - L’operazione è ancor più evidente nella trasmissione televisiva “La storia siamo noi”, andata in onda su Rai3 il 13 luglio 2018, in cui la frase suddetta viene isolata dal contesto inquadrando gli atti parlamentari, ma mettendo in luce solo quella, “oscurando” il resto;
8 - Isastia, “Massoneria e fascismo: la grande repressione”, cit., pos. Kindle 3267-3269
9 - È da notare che tutti gli interventi, anche quelli contrari alla legge, danno per scontata l’occupazione della burocrazia da parte della massoneria, cfr. supra;
10 - Mola 2018, pp. 649 ss. Logicamente, non seguiamo i “pettegolezzi” sparsi qua e là su questa figura, di cui – semplicemente – si perdono le tracce nel 1929. Riapparirà dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, come vedremo. Sull’appartenenza di Costanzo Ciano alla Massoneria e sulla sua obbedienza alla sanzione di incompatibilità, cfr. Eugenio Di Rienzo, “Ciano”, Salerno Editrice, Roma 2018, pos. Kindle 535;
11 - Arturo Reghini fu un grande esoterista, oltre che illustre matematico, fondatore del gruppo esoterico “I Pitagorici”, comunque attivo durante il Regime. Collaboratore nella rivista Ur con Julius Evola, dopo i dissidi con quest’ultimo, rifondò con Giulio Parise l’altra rivista esoterica “Ignis” (già pubblicata da Reghini un decennio prima). Sospettato di aver mantenuto i rapporti con la massoneria, apparentemente cessò ogni attività esoterica, dedicandosi all’insegnamento ed alla pubblicistica, ottenendo anche riconoscimenti ufficiali dal Regime. Ma dalla prefazione del suddetto Parise al libro di Reghini “Considerazioni sul rituale dell'apprendista libero muratore”, si apprende che egli non cessò mai gli studi esoterici. Sul presunto progetto di Reghini di una massoneria “parallela”, che condizioni il Fascismo dall’interno, al fine di intraprendere una strada “pagana”, sulle segnalazioni poliziesche ed il conseguente accantonamento del progetto, cfr. Fedele, “La massoneria sotto il fascismo tra esilio e clandestinità: la questione Torrigiani” in AA.VV., “La massoneria italiana da Giolitti a Mussolini: Il gran maestro Domizio Torrigiani”, cit., pos. Kindle 1852
12 - Baigent, Leigh, op. cit., p. 194;
13 - La formazione ideale di chi scrive porterebbe ad interpretare il rapporto fascismo – massoneria sotto un’altra luce, metastorica, ma si è deciso di dare al presente lavoro un “taglio” rigorosamente storicistico, per cui si rimanda, per altri piani, alla pregevole raccolta “Esoterismo e fascismo: storia, interpretazioni, documenti”, a cura di Gianfranco De Turris – Edizioni Mediterranee, Roma 2006;
14 - Mola 2018, pp. 836 ss;
15 - ci sono circoli massonici lombardi dietro il tentativo insurrezionale sventato dalla polizia nell’ottobre 1930 con l’arresto dei “cospiratori”;
16 - Mario Giovana, “Giustizia e libertà in Italia: storia di una cospirazione antifascista, 1929-1937”, Bollati Boringhieri, Torino 2005;
17 - ibidem, p. 128;
18 - Leonardo Pompeo D’Alessandro, “‘Per la salvezza dell'Italia’. I comunisti italiani, il problema del Fronte popolare e l’appello ai ‘Fratelli in camicia nera’”, in Studi storici, a. LIV, n. 4, ottobre-dicembre 2013, pp. 951-987;
19 - Pierre Chevallier, Histoire de la Franc-Maçonnerie française, La Maçonnerie, Eglise de la République (1877-1944), Librairie Athène Fayard, Paris 1975, p. 123 ;
20 - Mola 2018, pp. 580 ss;
21 - La massoneria è fuori legge in Germania ed in Portogallo dal 1935;
22 - Mola 2018, ibidem;
23 - Fedele, “La massoneria italiana nell'esilio e nella clandestinità 1927-1939”, Franco Angeli, Milano 2005, pp. 168 ss.; id.: “La massoneria sotto il fascismo tra esilio e clandestinità: la questione Torrigiani”, cit.;
24 - Vittorio Foa, “Questo Novecento”, Einaudi, Torino 1996, p. 151;
25 - Per tutti, il discorso di Torino del 23 ottobre 1932: «Eppure, oltre le frontiere, ci sono dei farneticanti, i quali non perdonano all'Italia fascista di essere in piedi. Per questi residui e residuati di tutte le logge, è veramente uno scandalo inaudito che ci sia l'Italia fascista, perché essa rappresenta una irrisione documentata ai loro principii, che il tempo ha superato. Essi hanno inventato il popolo, non già per andargli incontro alla nostra franca maniera; ma lo hanno inventato per mistificarlo, per dargli dei bisogni immaginari e dei diritti illusorii. Costoro non sarebbero alieni dal considerare quella che si potrebbe chiamare una guerra di dottrina tra principii opposti, poiché nessuno è nemico peggiore della pace di colui che fa di professione il panciafichista o il pacifondaio. Ebbene, se questa ipotesi dovesse verificarsi, la partita è decisa sin dall'inizio, poiché, tra i principii che sorgono e si affermano e i principii che declinano, la vittoria è per i primi, è per noi!». Le parole di Mussolini sono influenzate dai rapporti dell’OVRA (il servizio segreto), che attribuiscono a “trame massoniche” qualunque operazione antiregime che venga scoperta in Italia – cfr. Mario Giovana, op. cit., p. 124;
26 - cfr. Fedeli, op. cit.

(continua…)

Luigi Morrone per la Redazione di Ereticamente

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Fascismo e Massoneria, storia di rapporti complessi – 4^ parte – Luigi Morrone

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La Massoneria e la Seconda guerra mondiale

La Società delle Nazioni, creatura che la Massoneria Universale aveva fortemente voluto (1), aveva approvato le sanzioni contro l’Italia quale rappresaglia per la Campagna di Etiopia, con l’effetto di consolidare il consenso verso il regime ed acuire i sentimenti antimassonici in Italia (2). L’obiettivo dell’isolamento internazionale dell’Italia, perseguito dalla Società delle Nazioni, non aveva avuto l’esito sperato. Anzi, aveva avuto l’effetto di avvicinare l’Italia alla Germania che, dal 1933, vedeva al potere il Partito nazionalsocialista (NDSAP), di ispirazione fascista, avente come leader l’austriaco Adolf Hitler. La Germania, in nome del pangermanesimo, aveva tentato un’espansione verso Est fin dall’ascesa al potere di Hitler. Un’accelerazione era conseguita all’assassinio del Cancelliere Austriaco EngelbertDollfuß ad opera di simpatizzanti NDSAP, il 25 luglio 1934. Mussolini aveva bloccato il tentativo di Anschluß (annessione) dell’Austria alla Germania schierando le truppe sul Brennero ed impedendo all’esercito tedesco di invadere l’Austria. Nel 1935, a Stresa, Francia, Italia e Regno Unito avevano sottoscritto un protocollo d’intesa che saldava i rapporti fra le tre nazioni, vincitrici della Prima guerra mondiale, quale contrappeso alla decisione tedesca di denunciare i trattati di Versailles e procedere al riarmo (3). Dopo le sanzioni, la situazione cambia radicalmente. L’Italia si salda alla Germania (4) e, quando nel febbraio 1938 Hitler ripete l’esperimento dell’Anschluß, non trova opposizione da parte dell’Italia.

La Massoneria italiana, alle prese con i problemi di cui abbiamo parlato, non ha una posizione ufficiale sul precipitare della situazione internazionale. La Massoneria Universale, a cominciare da quella francese, reagisce, stigmatizzando con forza quella che percepisce come deriva ipernazionalista e ribadendo la tendenza internazionalista della fratellanza (5). Il pangermanesimo hitleriano apre un nuovo capitolo. La Cecoslovacchia, una creatura di Versailles, ricomprende territori abitati da una popolazione di etnia tedesca, i Sudeti. E Hitler rivendica il diritto di queste popolazioni a ricongiungersi alla madrepatria. Venti di guerra sembrano agitarsi per l’Europa. E si sveglia il GOI, con una balaustra del Gran Maestro Tedeschi che, il 26 settembre 1938, scrive ai (pochi) venerabili delle logge aderenti all’Obbedienza: «… noi deprechiamo la guerra che tentano di scatenare i nazisti ed i fascisti. Non confondete e non identificate la Germania col nazismo e l'Italia col fascismo … Non partecipare alla guerra fascista non è una diserzione ma un'affermazione di principi, un atto antifascista ed un aiuto indiretto alla lotta nella quale noi siamo impegnati per il trionfo dei nostri ideali di libertà e di giustizia» (6).

Ma è, soprattutto, la fratellanza internazionale che si mobilita in ausilio del “fratello” Edvard Beneš, Presidente cecoslovacco che, andando oltre lo stesso Trattato di Versailles, ha compresso fortemente le identità delle minoranze presenti nello Stato “artificiale”, ivi compresi i Sudeti. Nel Congresso massonico di Lucerna, la Massoneria Internazionale lancia un appello alla pace, ricordando come la Cecoslovacchia del “fratello” Beneš costituisca un “avamposto” delle Democrazie Occidentali, schiacciato tra stati “fascisti” e l’URSS bolscevica (7). Gli accordi di Monaco del novembre 1938, però, spiazzano la Massoneria. Francia e Regno Unito lasciano mano libera a Hitler nei Sudeti. Non solo la massoneria, ma tutti i ceti intellettuali internazionalisti vengono colti in contropiede. Simone Weil, nonostante la sua avversione a Hitler, benedice l’esito della Conferenza di Monaco come unico viatico per la pace. Si ricrederà a tamburo battente (8). Quando Hitler, andando oltre gli accordi di Monaco, approfitta dell’esplosione dei nazionalismi all’interno della Cecoslovacchia, ed occupa la parte occidentale del Paese, salta il fragile sistema uscito dagli accordi di Monaco. Francia e Regno Unito, però, non disperano di ricucire i rapporti con la Germania. Fondamentale è quanto detto da Lord Halifax, ministro degli esteri britannico, in un discorso alla Camera dei Lords il 20 marzo 1939 (9). Egli sostiene: «… il popolo Britannico ha fermamente desiderato di instaurare dei rapporti amichevoli con quello Tedesco. Esso non ha esitato a riconoscere che alcuni degli errori del Trattato di Versailles dovessero essere emendati … Questa iniziativa però è stata frustrata dall’azione intrapresa la settimana scorsa dal Governo Tedesco e diventa quindi difficile prevedere se e quando potrà essere ripresa. In seguito a questi eventi sono stati sollevati diversi interrogativi che impongono sia al Governo di Sua Maestà che a quelli di altri popoli liberi, di rivedere il proprio atteggiamento nei confronti della Germania ... Se la storia rappresenta un punto di riferimento, allora il popolo Tedesco deve rammaricarsi dell’azione compiuta in suo nome contro il popolo della Cecoslovacchia». Solidarietà alla Cecoslovacchia, dunque, ma ancora si spera in una soluzione diplomatica.

Nel frattempo, l’URSS dichiara che non interverrà in aiuto del governo capitalista della Cecoslovacchia (10). Effettivamente, già da più di un anno Germania e URSS stanno conducendo trattative segretissime per l’assetto dell’Est Europa (11) e – dunque – Hitler sa di poter contare sul non liquetsovietico per attuare i suoi disegni (12). L’occupazione di Praga da parte delle truppe tedesche ha quale immediata conseguenza il “sonno” dell’intera massoneria cecoslovacca (13). Benès si rifugia a Londra e trova ospitalità presso i “fratelli” inglesi, organizzando, anche con il loro ausilio, un governo cecoslovacco in esilio di cui fa parte anche il “fratello” JanMasaryk, figlio di Thomas, primo presidente cecoslovacco dopo Versailles, che sarà protagonista delle vicende cecoslovacche postbelliche, dalla ritrovata indipendenza al colpo di stato comunista del 1948 (14). La situazione cecoslovacca innesca una polemica interna ai Conservatori britannici. Primo Ministro è Lord Neville Chamberlain, fautore della politica dell’appeasement con la Germania, politica già sfociata negli accordi di Monaco. Dall’altra parte, Winston Churchill, che – invece – preme per un’alleanza con l’URSS e la Francia, tentando di ripetere l’esperienza del 1907, mediante una nuova “Triplice Intesa”, che isoli Italia, Germania ed Ungheria (15). Chamberlain aveva continuato nella sua politica attendista anche quando la Germania aveva rivendicato dalla Polonia il territorio di Danzica, occupato da popolazioni di etnia tedesca (16). Resta attendista anche dopo che l’Italia occupa l’Albania il 7 aprile 1939 (Venerdì Santo) e dopo la stipula del “patto d’acciaio” tra Roma e Berlino il 22 maggio 1939 (17). Il 23 agosto 1939, i ministri degli Esteri della Germania, von Ribbentrop, e dell’URSS, Molotov, stipulano un patto di non aggressione a conclusione di trattative portate avanti per oltre un anno in gran segreto. Il patto coglie di sorpresa Francia e Regno Unito (18), e spiazza la Massoneria francese, che aveva tentato di porre la fratellanza al centro della diplomazia mondiale: il 1° febbraio 1939, il Gran Maestro del Grande Oriente di Francia, Arthur Groussier, ed il Gran Maestro della Gran Loggia di Francia, Michel Dumesnil de Gramont, avevano invitato il “fratello” Franklin Delano Roosevelt (19), presidente degli S.U.A., ad indire una conferenza internazionale «… per studiare le soluzioni a tutti i problemi territoriali, etnici ed economici che oggi dividono le nazioni» (20).

Le conseguenze del patto, per le potenze occidentali, appaiono disastrose: «… il patto Hitler-Stalin dell’agosto 1939, “Waterloo” della diplomazia franco-britannica, aveva avuto solo l’effetto secondario di riconciliare fra loro quei francesi che, sull’orlo della guerra civile dopo il 1934 e il Fronte popolare, avevano ora il pretesto di combattere insieme il comunismo e il nazismo. Tuttavia … il sentimento anti-inglese gareggiava con il timore del bolscevismo e con l’odio contro ebrei e massoni. In Inghilterra esisteva una forte tradizione antibolscevica … ma questo antibolscevismo non era controbilanciato, come in Francia, da un antifascismo militante, cosicché nel Paese non regnava un’atmosfera da guerra civile. L’Inghilterra benestante era per la pace ed uomini come Lloyd George, uno dei vincitori del 1914-18, erano pronti, al pari di Chamberlain e di lord Halifax, ad accettare compromessi con Hitler» (21). Tra l’altro, il patto si stipula nel momento in cui il parlamento inglese è chiuso dal 5 agosto. Chamberlain è pressato da una campagna dei mezzi di comunicazione di massa che vede soprattutto la BBC dare ampio spazio a Churchill ed al governo cecoslovacco in esilio, che premono perché cessi la politica di appeasement e si argini la politica di espansione verso Est di Germania e Italia. Campanello d’allarme, le elezioni suppletive di luglio in Cornovaglia, con la sconfitta del candidato conservatore in favore del candidato liberale, che aveva condotto la campagna elettorale con lo slogan “Torni Churchill” (22). Pertanto, il Premier corre ai ripari, abbandonando la strategia attendista. Convoca d’urgenza la Camera dei Comuni all’indomani del patto tra tedeschi e sovietici, stipula un patto di alleanza con la Polonia, che prevede l’intervento britannico in caso di aggressione esterna, richiama la flotta, chiama Churchill a far parte di un gabinetto di guerra. Chiaramente, ha vinto la linea di Churchill (23).

La propaganda fascista tende ad avvalorare l’ipotesi di un “complotto massonico” che manipola l’opinione pubblica del Regno Unito per rovesciare il governo Chamberlain ed imporre la linea di Churchill. Ma, a sostegno di tale ipotesi, le argomentazioni addotte appaiono piuttosto deboli. Certo, è massone Winston Churchill, è massone il re Giorgio VI, sono massoni alcuni proprietari di emittenti radio americane che danno ampio spazio a Churchill, come James Harbord, Presidente della Radio Corporation of America (24). Ma – come si è detto – l’azione dei singoli massoni non impegna certo la Massoneria come associazione. A ciò va aggiunto che il re d’Inghilterra, poi di Gran Bretagna, poi dei Regno Unito, fin dal XVII secolo “regna ma non governa”, essendo una mera figura rappresentativa dell’Unione, né, prima dell’entrata in guerra del Regno Unito, vi è traccia di intervento regio per mutare la politica estera del governo (25). Inoltre, Churchill è quel che si dice un “massone tiepido” (26), nel senso che, iniziato nel 1901, non risulta attivo frequentatore dell’attività di loggia. Inoltre, non è massone Lloyd George, a fianco di Churchill nella linea interventista, non lo è Sir Frederick Wolff Ogilvie, il direttore generale della BBC che tanto spazio da a Churchill ed al governo cecoslovacco in esilio. Quindi, l’appartenenza di Churchill alla massoneria non può essere l’unico elemento a sostegno dell’ipotesi di un “complotto massonico” che abbia determinato il mutamento della politica estera del Regno Unito tra il 1938 ed il 1939.

Va, comunque, esaminato il perché Winston Churchill, non certo ostile all’Italia fascista, quel Winston Churchill che era Cancelliere dello Scacchiere al momento delle “Leggi fascistissime”, ma era stato comunque tra i fautori dell’alleanza italo – inglese al momento della crisi sulla Bessarabia (27), quello stesso che nel 1927, pur dopo l’esilio delle logge, scriveva a Mussolini «Il vostro movimento ha reso un servigio al mondo intero» (28), perché proprio quello stesso Winston Churchill decide di spaccare il partito conservatore, di cercare l’intesa con il “nemico bolscevico”, verso cui riteneva che l’Italia fascista fosse adeguato argine? (29) Perché l’imperialista Winston Churchill, reduce della guerra anglo – boera, feroce repressore delle rivolte nelle colonie, fautore del “pugno di ferro” verso i popoli dominati (30) , inizia un’avventura che egli, fin dall’inizio, sa che importerà la perdita dell’impero? (31) La sua appartenenza alla Massoneria, gioca un ruolo in questa sua azione? Indubbiamente, la Massoneria ha assunto un atteggiamento ostile verso tutti i regimi “fascisti”, in parallelo agli scioglimenti delle logge in Italia, Germania, Ungheria, Spagna, Portogallo; indubbiamente le varie obbedienze nazionali hanno accordato supporto logistico ed economico agli anti franchisti nella guerra di Spagna; indubbiamente in Italia ed in Germania si va diffondendo la psicosi della cospirazione delle “logge giudaico-massoniche”, in un mélange di ostilità a massoni ed ebrei, che portava a scandire slogan come “Tutti i massoni sono ebrei – tutti gli ebrei sono massoni” (32).

Il convegno internazionale del rito scozzese del 1937, e quello dell’AMI (Associazione Massonica Internazionale) del 1938, di cui si è detto, però, avevano chiaramente indicato il pacifismo come imperativo primario della Fratellanza. Quindi, riesce davvero difficile pensare che ci sia stata la Massoneria dietro l’azione di Churchill intesa a determinare il mutamento di politica estera del Regno Unito. Neanche il voltafaccia della Francia rispetto a Monaco può avere come mentore la Fratellanza. In disparte la scelta pacifista del 1937, la Massoneria francese in quegli anni è scossa dall’onda d’urto dell’affaire Stavinsky. Alla fine del 1933, un funzionario del Crédit municipal di Bayonne, Gustave Tissier, viene tratto in arresto per avere sottratto dalle casse della banca, mediante un ingegnoso sistema di frodi, 261 milioni di franchi. Una cifra enorme. Ma da subito emerge il ruolo di mero esecutore di Tissier: la frode è opera del fondatore della banca, il finanziere di origine russa Serge Alexandre Stavisky. L’inchiesta mette in luce una fitta rete di complicità, tra politici, funzionari di polizia, prefetti, su su fino a sfiorare il Presidente del Consiglio Camille Chautemps, che sarà costretto a dimettersi. L’8 gennaio 1934 Stavinsky viene trovato morto al momento dell’arresto, con due pallottole in testa. La morte viene frettolosamente archiviata come suicidio, ma l’affaire innesca una serie di reazioni a catena sul piano politico (33). L’intera classe politica viene bollata come corrotta dall’opposizione. E monta il risentimento antimassonico. Quasi tutti i coinvolti nell’inchiesta sono massoni, da Stavinsky a Chautemps. La massoneria viene accusata di aver ucciso Stavisky per evitare la violazione del segreto massonico. La Massoneria francese, dopo una riunione tra le due maggiori obbedienze dell’11 febbraio 1934, decide di “chiudersi” a qualunque attività esterna. I Maestri venerabili sono invitati a fare “pulizia” nelle logge, in modo da sbarazzarsi degli adepti che hanno aderito alla Massoneria solo per tornaconto personale (34).

Il prestigio della Fratellanza è scosso. Il tentativo di porsi al centro della diplomazia con l’appello al “fratello” Roosevelt naufraga per gli accordi di Monaco. Ed il Presidente del Consiglio Édouard Daladier non solo non è massone, ma proprio per le conseguenze dell’affaire Stavinskysi guarda bene dall’avere qualunque rapporto con la Fratellanza. Sia per questa sua debolezza intrinseca, sia per l’insistenza sul pacifismo, confermato dall’ultimo congresso dell’AMI prima della guerra, nel gennaio 1940 (35), la Massoneria francese resterà incerta al momento dell’entrata in guerra della Francia, quando gli eventi precipiteranno. Anzi, il segretario generale del GODF, Jean Baylot, redigerà un pamphlet pacifista: “Le Grand-Orient de France et la Paix” (36). Esclusa, dunque, la decisività di un’eventuale azione massonica nel révirement della politica estera britannica, resta da capirne il motivo. Perché Churchill prepara minuziosamente la guerra, prefigurando la Germania come nemico e la Francia come alleato, trovando riscontro sulla sponda opposta della Manica (37). Pur essendo estraneo al tema di questo lavoro, riteniamo di dire la nostra opinione in merito. A nostro avviso, se Chamberlain aveva firmato con piena convinzione l’accordo di Monaco, Daladier lo aveva fatto con una sorta di “riserva mentale”, spinto solo dal convincimento di non possedere più gli strumenti politici, economici e militari per continuare ad esercitare la funzione di “gendarme di Versailles”, come dichiara candidamente il Ministro degli Esteri Étienne Flandin davanti alla Commissione Affari Esteri dell’Assemblea nel febbraio 1938 (38). Ed in questo quadro, Daladier aderisce all’accordo di Monaco a traino di Chamberlain, non potendo fare a meno della stretta alleanza con il Regno Unito, onde il frenetico attivismo di Churchill gli consente di rimettere in gioco la sua tendenza antitedesca (39). In realtà, sia Churchill, sia Daladier vogliono la guerra con la Germania perché, in un gioco geopolitico che coinvolge Europa, Asia ed Africa, temono più l’espansionismo verso Est della Germania e la contemporanea presenza dell’Italia in Africa che non l’espansionismo sovietico verso Ovest: anzi, in questo gioco “globale”, l’URSS viene vista come un argine all’imperialismo nipponico (40).

Il 1° settembre 1939, la Germania invade la Polonia. È la scintilla che farà scoppiare quella che sarà denominata “Seconda Guerra Mondiale”, che vedrà schierate le democrazie “occidentali” a fianco dell’URSS contro gli stati fascisti e l’Impero del Giappone. Se è da escludere qualunque influenza massonica nella decisione di Francia e Regno Unito di abbandonare l’appeasement e preparare la guerra, è viceversa massiccia la partecipazione massonica alla guerra, in supporto alla coalizione antifascista. La guerra – infatti – inizia per motivazioni squisitamente geopolitiche, ma presto assume le caratteristiche di uno scontro tra Weltanshauung, riassunte dallo slogan fascista della “lotta del sangue contro l’oro” (41) e dal discorso di Churchill ai Comuni il 3 settembre 1939: «Combattiamo per salvare il mondo dalla pestilenza della tirannide nazista e in difesa di quanto vi è di più sacro per l'uomo ... È una guerra, considerata nella sua qualità intrinseca, per edificare su fondamenta incrollabili i diritti dell'individuo, una guerra per affermare e ripristinare la statura dell'uomo» (42). Soprattutto dopo l’entrata in guerra degli USA, le logge statunitensi si mobilitano con un grande sforzo finanziario e logistico. La Fratellanza istituisce i “Masonic Service Centers” per il coordinamento delle attività massoniche in supporto agli Alleati. Si apre una sottoscrizione di massa tra i fratelli, che alla fine della guerra raggiungerà una cifra superiore a 5 milioni di dollari (43); si istituiscono centri logistici in vicinanza delle basi militari dove si provvede a reclutare ed addestrare i militi da inviare al fronte. Non solo, ma il supporto logistico viene fornito dalle logge statunitensi anche alle truppe impegnate oltremare, fornendo pasti caldi e attrezzature ricreative attraverso l’allestimento di strutture gestite con i fondi della Fratellanza (44). Già, comunque, la Massoneria francese, nel momento dell’invasione tedesca, superando il precedente tentennamento di cui si è detto, si mobilita e chiama i fratelli alla lotta. Con una lettera del 21 maggio 1940, il GODF assicura al Presidente del Consiglio che la Fratellanza porta il suo contributo al governo per la lotta all’invasore (45).

Dopo la capitolazione, il maresciallo Pétain, vincitore di Verdun (battaglia decisiva della Prima Guerra Mondiale), forma il governo che riceverà i pieni poteri il 10 luglio 1940. Del governo fa parte uno dei dignitari del GODF, l’ex Presidente del Consiglio Camille Chautemps, il quale viene avvisato da Pétain circa l’intento repressivo del governo nei confronti della fratellanza. Nonostante ciò, 68 deputati massoni votano favorevolmente all’attribuzione dei pieni poteri a Pétain. A fronte della repressione del governo, l’intero GODF è posto in sonno, come il 7 agosto 1940 comunica a Pétain il Gran segretario dell’Ordine, Louis Villard (46). Inizia la resistenza all’occupazione tedesca ed al governo di Pétain. Alcuni dei capi del movimento (Pierre Mendès France, Marius Dubois, Jean Zay), appartengono alla fratellanza; tra i caduti della resistenza, figura Constant Chevillon, Gran Maestro dell’Ordine Martinista (47). Ma, soprattutto, nuclei armati si organizzano attorno alle logge, che vengono create nella clandestinità, a volte da “fratelli” appartenenti ad ambo le maggiori obbedienze; le varie logge si riuniscono per dare vita ad un organismo resistenziale aperto anche ai profani, “Le Cercle”, un continuo supporto viene offerto ai resistenti francesi dalle logge inglesi, con l’opera di collegamento curata incessantemente da Henri Manhès, onde, a giusta ragione si può parlare di una “resistenza massonica” nella Francia di Vichy (48), come sarà rivendicato alla convenzione massonica del 1945 dal Gran Maestro della GLDF Michel Dumesnil de Gramont (49).

Il 10 giugno 1940, alla vigilia della capitolazione della Francia, l’Italia dichiara guerra alla stessa Francia ed al Regno Unito. Nel discorso di annuncio, rivendica a sé tutti i tentativi compiuti per la causa della pace, e addossa ai nemici la responsabilità dello scoppio della guerra, di cui individua le cause nelle sanzioni del 1935, concetto che ripeterà più volte nel corso della guerra (50). Nel frattempo, i massoni italiani, pur continuando la loro azione nella clandestinità, non riescono a trovare riscontro né in Italia (dove, comunque, l’attività è ridotta al minimo, stante la stretta sorveglianza della polizia), né all’estero, dove continua l’ostracismo delle logge nei confronti dell’Istituzione, pur nella cordiale ospitalità accordata ai “Fratelli” (51). Tedeschi tenta di tenere comunque in piedi l’organizzazione. In una lettera dell’11 maggio 1939 (52), Tedeschi ribadisce i concetti già espressi qualche mese prima, portandosi ben oltre il semplice invito alla diserzione e “chiamando alle armi” i Fratelli: «Se vi sarà la guerra ... non sarà una guerra fra la Francia e l’Italia ma fra la democrazia e la dittatura e gli italiani che si batteranno nelle fila francesi avranno di fronte no gli italiani ma gli attuali dominatori del nostro paese i nazional-socialisti ed i fascisti». Morto Giuseppe Leti il 1° giugno 1939, Tedeschi perde quello che era stato il perno dell’attività della Fratellanza in esilio. Al momento dell’invasione della Francia da parte della Germania, Tedeschi, ebreo e massone, teme per la sua libertà e per la sua stessa incolumità, onde prepara la successione ed alla sua morte, il 19 agosto 1940, ne prende il posto Davide Augusto Albarin, Ma l’attività dei massoni italiani è nulla. Le ossessioni fasciste per le “trame delle logge”, che montano sempre più, soprattutto quando le sorti della guerra volgono in favore degli Alleati, attribuendo ad ebrei e massoni il “sabotaggio” antitaliano (53), hanno un fondo di attendibilità se si riferiscono all’attività della Massoneria Universale, in particolare attraverso le logge statunitensi, inglesi e francesi (54), ma non certo al GOI (l’obbedienza di Piazza del Gesù, come detto, è sparita dal 1926).

Note:
1 – Eugen Lennhoff, “Il libero muratore”, pref. di Lino Salvini, appendice di Giordano Gamberini, Bastogi, Livorno 1972, pp. 317-23 (Internazionalismo massonico) e pp. 365-68 (Massoneria e Società delle Nazioni).
2 - Gentile “Fascismo, storia e interpretazione”, cit., pp. 31 ss.; De Felice, Mussolini: Il duce: 1. Gli anni del consenso, 1929-1936. Einaudi, Torino 1974, pp. 331 ss.
3 - Di Rienzo - «Una Grande Potenza a solo titolo di cortesia» - Appunti sulla continuità tra tradizione diplomatica dell’Italia liberale e politica estera fascista 1922-1935, in NRS, 2017, p. 451.
4 - Di Rienzo, op. e loc. ult. cit.; Ernst Nolte, voce “Razzismo” in “Alfabeto Treccani”, pos. Kindle 532; De Felice – “Mussolini il duce: Lo Statototalitario 1936-1940”, Einaudi, Torino 1981, pp. 88 ss.; Gentile, “Fascismo e interpretazioni”, cit., p. 33; Patrick Buchanan, “Churchill, Hitler and the Unnecessary War: How Britain Lost Its Empire and the West Lost the World”, New York, Crown, 2008, pp. 157-161.
5 - Pierre Chevallier,op. cit., p. 162
6 - ASGOI, b. 6
7 - André Combes, 1914-1968 La franc-maçonnerie, coeur battant de la République, Éditions Dervy, Paris 2018, p. 61
8 - Sul punto, cfr. David Bidussa, “Gli intellettuali e la questione della pace (1938-1941)”, in Annali della Fondazione Feltrinelli, 1985, pp. 69 ss.
9 - Il discorso è in “The British War Bluebook”, pubblicato nel 1997
10 - Antonio Spinosa, “Hitler”, Mondadori, Milano 1991, p. 409
11 - Eugenio Di Rienzo – Emilio Gin, “Le Potenze dell’Asse e l’Unione Sovietica, 1939-1945”, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, p. 45
12 - L’espansione a Est era un’aspirazione di Hitler fin dagli inizi della sua attività politica (tra l’altro, era figlio di una boema): il penultimo capitolo del suo manifesto politico “MeinKampf” è – appunto – intitolato “Ostpolitik” (politica verso Est)
13 - André Combes, op. cit., p. 61; Daniel Beresniak, “La franc-maçonnerie en Europe de l'Est”, Editions du Rocher, Monaco 1992, pp. 73 ss.
14 - ibidem
15 - Martin Gilbert, “Churchill, vita pubblica e privata”, trad. it. Davide Panzieri, Mondadori, Milano 2017, cap. 23, “Da Monaco alla guerra”
16 - La Polonia, risorta dalle sue ceneri dopo la Prima Guerra Mondiale, era stata (ri)creata dal nulla con il Trattato di Versailles, che aveva annesso alla neonata entità statale territori di etnia diversa. Il territorio di Danzica era stato eretto a “Città libera”, che – però – era legata alla Polonia da un’unione doganale. La Germania rivendicava non solo il territorio libero, ma anche un “corridoio”, che lo unisse alla Germania.
17 - Gilbert, op. e loc. ult. cit.
18 - Di Rienzo –Gin, op. e loc. ult. cit.
19 - All’epoca Gran Maestro Onorario dell’Ordine di Demolay, l’organizzazione giovanile massonica – cfr. William Denslow, “10,000 FamousFreemasons” - Cornerstone Book Publishers – New Orleans, 2007, pos. Kindle 37145
20 - Chevallier, op. cit., p. 163 – il virgolettato è in francese nell’originale - traduzione a cura di chi scrive
21 - Marc Ferro, “La Seconda Guerra Mondiale. Problemi aperti”, trad. Giovanni Campari - Giunti, Firenze 1993, p. 13
22 - Gilbert, op. e loc. ult. cit.
23 - Norman Davies, “Storia d’Europa”, Bruno Mondadori, Milano, 2001, pp. 1115 ss.
24 - Denslow, op. cit.
25 - In effetti, il «Times» del 20 agosto 1939 riporta che il Gran Maestro delle UnitedGrand Lodge of England avrebbe promesso l’appoggio della Massoneria in caso di guerra, ma ad avviso di chi scrive l’episodio è stato fin troppo enfatizzato. Il Gran Maestro era il duca di Kent, figlio del Re, appena assurto alla carica. L’ipotesi più probabile, visto che ormai era chiaro che la guerra sarebbe stata inevitabile, è che si sia trattato di un colloquio privato nel corso del quale il padre avrebbe chiesto al figlio quale sarebbe stato l’atteggiamento della Massoneria a guerra scoppiata.
26 - Mark Stanford, “Masons and War: Freemasonry during World War Two”, in Historica, 2013, p. 142
27 - James Burgwyn, “Italian Foreign Policy in the Interwar Period”, 1918-1940, Greenwood Publishing Group, 1997 - p. 38
28 - Churchill by Himself: The Definitive Collection of Quotations (2011) by Richard Langworth, p. 169 – in inglese nell’originale, traduzione a cura di chi scrive
29 - Tariq Alì, Introduction on Ralph Miliband, “Class War Conservatism and Other Essays Paperback”, 2015
30 - Gilbert, op. cit., cap. 8, “Al Parlamento”; cfr. l’autobiografico Winston Churchill, “Riconquistare Karthoum”, Piemme, Milano 1999. Il comportamento di Churchill nelle colonie ha portato Ludo Mertens a giudicare il premier britannico come «criminale … paragonabile a Hitler» – “Stalin: un altro punto di vista”, Zambon, Venezia 2017, p. 56
31 - Buchanan, op. cit., p. 17; Giorgio Galli, “La Magia e il potere”, Lindau, Torino 2012, p. 330
32 - Ad accomunare ebrei e massoni come nemici della Germania era stato l’eroe della Prima guerra mondiale Erich Ludendorff, in diversi pamphlets in cui addossa agli uni ed agli altri la responsabilità dell’umiliazione della Germania con il trattato di Versailles ed auspica una Germania liberata da ebrei e massoni. Ad indicare ebrei e massoni quali cospiratori contro la Germania è anche il teorico del razzismo biologico Alfred Rosenberg con il libro “DasVerbrechenderFreimaurerei. Judentum, Jesuitismus, DeutschesChristentum”, pubblicato nel 1921, ma soprattutto con il suo più famoso “DerMythusdes 20.steJahrhunderts”, del 1929, che, insieme con il MeinKampf, costituirà il vademecum dell’ideologia nazionalsocialista.
33 – Per approfondimenti, si rimanda a Paul Jankowski, «Cette vilaine affaire Stavisky, Histoire d'un scandale politique», Paris, Fayard, 2000
34 - Combes, op. cit., pp. 37 ss.; Pierre Chevallier, op. cit., pp. 126 ss.
35 - Combes, op. cit., p. 62
36 - Chevallier, op. cit., pp. 166 ss.
37 - Gilbert, op. cit., cap. 23, “Da Monaco alla guerra”
38 - Jean Quellien, Histoire de la Seconde Guerre mondiale, Éditions Ouest-France, Rennes 1995, p. 28
39 - Daladier, di ritorno da Monaco, teme di essere linciato dalla folla per il patto stretto con chi considera nemico della Francia. Resta sorpreso dall’accoglienza festante che trova a Le Bourget – cfr. Patrick Buchanan, op. cit., p. 232. Questo episodio ci consente di dissentire da Eric Hobsbawm che, in “The Age of Extremes” – “Il secolo breve”, Rizzoli, Milano 1994, sostiene che fu la piazza a spingere Daladier alla guerra.
40 - Churchill, pur da personaggio formalmente marginale del governo Baldwin, era stato tra i principali fautori delle sanzioni economiche all’Italia per la guerra d’Abissinia – cfr. Martin Gilbert, op. cit., cap. 21 – “Il momento della verità”. Sulle motivazioni geopolitiche delle preoccupazioni inglesi per l’espansione italiana in Africa, cfr. Eugenio Di Rienzo, “Il «Gioco degli Imperi», la Guerra d’Etiopia e le origini del secondo conflitto mondiale” - Biblioteca di Nuova Rivista Storica” – Società Editrice Dante Alighieri, 2016.
41 - «contro Giuda, contro l'oro sarà il sangue a far la storia», cantavano i Battaglioni M
42 - Gilpert, op.cit., cap. 24, “Ritorno all’Ammiragliato”
43 - “Freemasonry in Europe. Report of the Committee sent abroad in August,1945, by the Masonic Service Association to ascertain the conditionsand needs of the Grand Lodges and Brethrern in the OccupiedCountries” - The Masonic Service Association, Washington,1945
44 - Stanford, op. cit., p. 143
45 - Chevallier, op. cit., pp. 168 ss.
46 - Combes, op. cit., p. 62
47 - Chevallier, op. cit., p. 219
48 - Combes, op. cit., pp. 65 ss.
49 - Chevallier, op. cit., pp. 204 ss
50 - tra l’altro, nel discorso all’Adriano di Roma il 1° febbraio 1941
51 - Tipico il caso del massone calabrese Francesco Galasso, che opera all’interno della Gran Loggia di Londra – Fedeli, “La Massoneria nell’esilio e nella clandestinità”, cit., pp. 55 ss.; id., “La diaspora massonica e l’antifascismo”, in AA.VV.. “La Massoneria: La storia, gli uomini, le idee”, cit., pos. Kindle 4291 ss.
52 - ASGOI, Lettera di Tedeschi dell’11 maggio 1939.
53 - È del 1941 il violentissimo pamphlet di Giovanni Preziosi “Giudaismo Bolscevismo Plutocrazia Massoneria”
54 - Difatti Preziosi si riferisce alle logge inglesi e francesi, anche se parla di un piano di “infiltrazione massonica” nelle Forze Armate Italiane e nel PNF.

(continua…)

Luigi Morrone per la Redazione di Ereticamente

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Fascismo e Massoneria, storia di rapporti complessi – 5^ parte – Luigi Morrone

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La Massoneria e la caduta del Fascismo

Il Gran Consiglio del Fascismo era diventato organo di rilevanza costituzionale nel 1928, quale coordinamento delle attività di regime. Come è stato chiarito da Costantino Mortati (1), infatti, il PNF era diventato organo costituzionale “in senso materiale” onde il suo organo di coordinamento aveva rilevanza costituzionale indipendentemente dalla collocazione sistematica della sua disciplina normativa. La sempre maggiore preminenza della figura del Duce ne aveva nella prassi esautorato le funzioni (2). Tuttavia, fino alla vigilia della guerra, l’organo si era riunito con una certa regolarità. Dopo quasi quattro anni d’inattività (l’ultima riunione si era tenuta il 7 dicembre 1939), il Gran Consiglio si riunisce alle ore 17 del 24 luglio Al termine di una seduta – fiume, alle ore 2,30 circa del 25 luglio, 19 gerarchi su 27 votano un ordine del giorno presentato da Dino Grandi, che sul presupposto che «è necessario l'immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali», invita il Governo a ripristinare anche di fatto i poteri statutari del re. Mussolini si reca in udienza dal re a Villa Savoia e, all’esito dell’udienza, viene arrestato dai carabinieri. È la fine del regime fascista (3). Quale ruolo gioca la massoneria in questo epilogo del Fascismo regime?

I sostenitori del “complotto massonico”, riprendendo la tesi del Fascismo come creatura della massoneria, non hanno dubbi: come il creatore del Golem la Massoneria, che aveva creato il Fascismo, ora lo distrugge. Ma nel caso del 25 luglio 1943, i “complottisti” sono in buona compagnia. Sia da parte fascista, sia da parte massonica, il tentativo di accreditare il “colpo di mano” del 25 luglio come epilogo di un “complotto massonico” trova ampio consenso. Alcune delle argomentazioni sono davvero deboli: rilevando che dei 19 gerarchi che votano l’o.d.g. Grandi 13 sono massoni (4), il “colpo di mano” della Massoneria sarebbe facile da dimostrare. Dei 13 indicati come massoni, però, solo di alcuni (Bottai, De Marsico, Acerbo, lo stesso Grandi) si ha notizia certa di una pregressa iniziazione, ma non di una loro continuazione dell’azione massonica dopo lo scioglimento delle logge. Evidentemente, da parte fascista (5) si ripesca il vecchio semel abbassemperabbasche aveva caratterizzato il sospetto continuo dei fascisti intransigenti verso i camerati provenienti dalle fila della Massoneria, compresi – a quanto pare – quelli del Duce sul suo avversario interno di sempre, Italo Balbo, che sarebbe stato definito da Mussolini «il porco democratico che fu oratore della Loggia Girolamo Savonarola di Ferrara» (6). Ma, che sia un’operazione semplicistica, è dimostrata dal fatto che vota contro l’ordine del giorno Grandi un altro avversario irriducibile del Duce entro il PNF, l’ex massone Roberto Farinacci (7) che morirà in camicia nera, fucilato dai partigiani, dopo aver aderito alla RSI, così sarà fucilatodai partigiani un altro ex massone, Achille Starace, fedelissimo del Duce dalla prima all’ultima ora e accanto al Duce appeso nella macelleria messicana di piazzale Loreto.

Tuttavia, a sostegno della tesi della congiura massonica alla base del voto del Gran Consiglio del 25 luglio 1943 esistono altri elementi, di maggior consistenza. Giovanni Preziosi, ossessionato dalla sua tesi del complotto internazionale plutocratico, giudaico e massonico, il 18 luglio 1943 scrive al Duce: «La seduta del Gran Consiglio porterà il suicidio del fascismo» (8). Dopo l’arresto del Duce, vola in Germania, dove alla radio nazionale, in una trasmissione in italiano, accusa la massoneria di essere all’origine della caduta del Fascismo (9). Sono note le convulse vicende successive al voto del Gran Consiglio: Badoglio viene nominato Capo del Governo, il Duce, internato prima a Ponza, poi alla Maddalena, viene infine tenuto prigioniero a Campo Imperatore. Badoglio prepara la resa, nonostante in un proclama letto alla radio alle 22,45 del 25 luglio 1943 dichiari “La guerra continua” (10). L’armistizio, stipulato il 3 settembre a Cassibile, viene reso noto l’8 successivo. Il 13 ottobre il Regno d’Italia dichiara guerra alla Germania. Il Duce, liberato dai tedeschi il 12 settembre 1943, riappare sulla scena politica quando si credeva definitivamente “defunto” (11). annuncia la fondazione di un nuovo stato repubblicano. La prima riunione del consiglio dei ministri della neonata repubblica si tiene il 23 settembre a Roma, ma viene deciso lo spostamento della capitale in Alta Italia (12).

Ma torniamo alla tesi della “congiura massonica”. Il 15 settembre 1943, su “Vita Italiana”, Preziosi rincara la dose: riprende il Times del 20 agosto 1939 (13), sul colloquio tra il Gran Maestro delle United Grand Lodge of England,“infiora” il racconto con particolari del tutto inventati (14). E fa scaturire da questo racconto la prova inconfutabile che la Massoneria da sempre trama contro l’Italia fascista. In Germania, Preziosi continua nella sua fervida pubblicistica, a cui aggiunge memoriali consegnati ai gerarchi nazionalsocialisti. Utilizza radio Monaco (propagata anche in Italia) per denunziare quelle che egli ritiene infiltrazioni massoniche presenti nella RSI (15). Tornato in Italia, Preziosi redige un Memoriale che invia a Mussolini a fine gennaio 1944 (16). Il Memoriale è incentrato, soprattutto, sulla figura di Badoglio, «il centro della massoneria nell’esercito» (17), che avrebbe costruito la sua carriera militare utilizzando l’appartenenza alla massoneria (18), che avrebbe la responsabilità della sconfitta di Caporetto (19), rovesciando, grazie all’appoggio della Massoneria, la responsabilità sul generale Capello; che avrebbe manovrato per l’insuccesso della manovra dell’Asse in Grecia (20). L’azione massonica avrebbe cagionato la caduta del Fascismo, all’azione sabotatrice della Massoneria sarebbero dovute le sconfitte militari dell’Asse. E nella RSI sono facilmente individuabili le infiltrazioni massoniche, a cominciare dal Segretario del PFR Alessandro Pavolini (21). Nonostante qualche storico affermi «Nessuno prende sul serio un paranoico» (22), Preziosi viene preso in seria considerazione dai tedeschi, tanto che Göbbels, a cui Preziosi consegna un memoriale già nel novembre 1943 commenta amaramente: «… mi sono stati consegnati memoriali intorno al Duce ed al suo entourage scritti dal prof. Preziosi. Sono molto scoraggianti. A dispetto dei disastri subiti, il Duce non ha appreso nulla Si circonda ancora di traditori, antichi massoni e filogiudei» (23). Ma la tesi della “congiura massonica” all’origine del colpo di Stato del 25 luglio serpeggia anche nella RSI. Assodato, dunque, che sia i fascisti, sia i massoni, attribuiscono la caduta del Fascismo ad un complotto di massoni, cerchiamo di capire la fondatezza di questa tesi. Il voto del Gran Consiglio non giunge certo come un fulmine a ciel sereno.

Durante le operazioni belliche, non era mai cessata l’attività diplomatica delle Cancellerie, non solo delle potenze belligeranti, ma anche di Paesi terzi. Particolarmente attiva la diplomazia vaticana (24). Dopo la morte di Pio XI, il papa del Concordato, mentre già si agitano i venti di guerra, ascende al soglio di Pietro il cardinale Eugenio Maria Giuseppe Pacelli, che assume il nome di Pio XII. È subito chiaro che la politica estera del Vaticano sarebbe stata nelle mani di Luigi Maglione, già Prefetto della Congregazione per il concilio, Domenico Tardini e Giovanni Battista Montini, questi ultimi già collaboratori di Pacelli quando era Segretario di Stato (25). Ma è subito chiaro che a tenere veramente le redini della diplomazia della Chiesa è Montini (26). Montini ritiene sbagliata la scelta di Benedetto XV nel 1917, della “Lettera del Santo Padre Benedetto XV ai capi dei popoli belligeranti” della I guerra mondiale (27), che aveva sortito l’effetto propagandistico opposto a quello propostosi dal Papa, in quanto ogni paese belligerante aveva interpretato la lettera come adesione alle tesi dello schieramento avverso (28). Sceglie, invece, un’altra strada: quella delle trattative segrete con tutte le parti belligeranti (29). Ad avviso della storiografia “orientata” di parte cattolica (30) la scelta diplomatica fu indirizzata prima ad evitare che la guerra scoppiasse e poi a renderla il più possibile “umana”, rifuggendo dalle offerte degli Alleati in senso antifascista e dell’Asse in senso anticomunista. In più, la qualcuno trova un presupposto “ideologico” a tale indirizzo della diplomazia vaticana: l’opera di uno dei fondatori di “Civiltà Cattolica”, il gesuita Prospero (in religione Luigi) Taparellidi Montanera e d’Azeglio (31), considerato uno dei principali teorici di un’organizzazione internazionale per la composizione dei conflitti tra Stati. Riteniamo di non aderire a tale tesi.

Montini aveva già al suo attivo delle operazioni contro il regime fascista. Fu incaricato nel 1931 di portare in gran segreto alle nunziature di Monaco e Berna l’Enciclica di Pio XI “Non abbiamo bisogno”, emanata dopo lo scioglimento delle Associazioni Cattoliche da parte del Regime Fascista. L’operazione era finalizzata a disseminare per tutta Europa l’enciclica, in attuazione di quello che Achille Ratti sosteneva in essa: «Noi e questa Santa Sede, per mezzo dei Nostri rappresentanti, dei Nostri Fratelli di Episcopato, veniamo dicendo e rimostrando dovunque gli interessi della Religione lo richiedono, e nella misura che giudichiamo richiedersi, massime dove la Chiesa è realmente perseguitata» (32). D’altronde, la formazione culturale di Montini è chiaramente antifascista. Lo scioglimento delle Associazioni cattoliche da parte del regime era stato determinato soprattutto dall’indirizzo impresso da Montini alla FUCI, l’associazione degli studenti universitari cattolici, e già il 4 novembre 1926 aveva scritto ai familiari: «I governi precedenti avevano la paura del coraggio; questo ha il coraggio di mostrarsi pauroso; è la propaganda del sospetto; è la smania d'individuare avversari; è la logica della rivoluzione. Il fascismo morirà d'indigestione, se così continuerà, e sarà vinto dalla propria prepotenza. Quello che è doloroso è che il popolo italiano venga così a ricevere la esiziale educazione della volubilità e dell'avventura e che sia continuamente eccitato non a contenersi nell'ambito del diritto ma a sfrenarsi nella brutalità improvvisa degli odi di parte» (33). Lo stesso Pacelli, germanofilo e fine conoscitore della lingua e cultura germanica, aveva assunto posizioni acerrimamente antinaziste (34), nonostante fosse il firmatario del Concordato tra Germania e Chiesa Cattolica del 20 luglio 1933 ed è considerato l’ispiratore della durissima enciclica di Pio XI contro il governo nazionalsocialista, redatta in tedesco il 14 marzo 1937: “Mitbrennender Sorge” (“Con bruciante inquietudine”) (35), ritenuta dal responsabile tedesco per gli Affari Religiosi, l’Obersturmbannführer Albert Hartl, una sorta di incitamento alla rivolta mondiale contro il Terzo Reich (36). Il filogermanesimo culturale di Pacelli trae in inganno Hitler e Mussolini al momento della morte di Pio XI. Essi, infatti, desiderano l’elezione al soglio di Pietro di un elemento filotedesco, attese le posizioni anti hitleriane del papa defunto. Le Cancellerie di Francia e Gran Bretagna tessono la loro tela in favore di Pacelli, mentre il controspionaggio Vaticano riesce a neutralizzare il tentativo di Hartl di condizionare il conclave verso Maurilio Fossati, di Torino, ed Elia dalla Costa, di Firenze, a quanto pare anche ricorrendo alla corruzione (37). Pacelli, alla fine, viene eletto perché gradito alle Cancellerie “democratiche” e non sgradito al Terzo Reich. Scoppiata la guerra, dunque, Pacelli e Montini sanno da che parte stare (38).

Figura chiave dell’azione spionistica vaticana verso il Terzo Reich è un avvocato monacense, Joseph Müller, detto «Ochsensepp» (“Peppe il bue”). Di stazza fisica notevole (donde il soprannome), è un leader politico cattolico che sbaraglia le sinistre in Baviera. Alla nomina di Hitler come Cancelliere, organizza un’opposizione al nazionalsocialismo. Nel 1934 è sottoposto da Himmler in persona a pressante interrogatorio, all’esito del quale è invitato ad arruolarsi nelle SS. Al suo netto rifiuto, Himmler, ammirato da tanto coraggio, lo lascia libero. Il suo collegamento con i servizi segreti vaticani è pressoché immediato. Riceve delle confidenze dal capo del Reichssicherheitsdienst (il servizio di sicurezza dei gerarchi della NSDAP), Johann “Hans” Rattenhuber, circa le intenzioni del Regime riguardo alla Chiesa, si mette in contatto con l’arcivescovo di Monaco, MichaelFaulhaber, e con lui organizza una rete vaticana di spionaggio, le cui fila sono rette, da Roma, dallo stesso Pacelli, all’epoca Segretario di Stato (39). Quando scoppia la guerra, Ochsenseppè nel pieno della sua attività spionistica. Viene convocato dall’Ammiraglio Wilhelm Franz Canaris, comandante dell’Abwehr, il servizio segreto del Reich. Lì viene interrogato dal capo della Sezione Z dell’Abwehr, il colonnello Hans Oster,che gli propone di utilizzare i suoi buoni uffici con Pacelli al fine di una captatio benevolentiæ nei confronti del Vaticano. Al suo netto rifiuto, capisce di aver davanti un uomo risoluto e fiero nemico del Führer, e lo mette a parte dell’esistenza di un complotto dell’esercito per rovesciare Hitler, fino all’omicidio. Müller si precipita a Roma, dove si decide la politica estera del Vaticano circa la guerra appena scoppiata. Il piccolo stato – enclave in uno Stato fascista, sarà il terreno neutro dove tessere le fila per preparare la sconfitta del Reich (40).

La Spagna, uscita da una devastante guerra civile, si trova in un crocevia. Da un lato, le potenze dell’Asse sono state alleate dei falangisti, vincitori della guerra civile. Dall’altra, si avverte la necessità di un periodo duraturo di pace perché si sanino le ferite di una lotta fratricida che ha lasciato il Paese in ginocchio. La Falange è per l’entrata in guerra a fianco dell’Asse, l’Esercito per la neutralità. Franco si schiera con l’esercito, decisione a cui non è certamente estranea la pressione esercitata dalle alte gerarchie vaticane sul clero spagnolo (41). Tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943, le sorti della guerra subiscono quella che Liddell Hart definisce «the turn of the tide» («giravolta della marea») (42) e sembrano ormai irreversibilmente pendere in favore degli Alleati in tutti i teatri di guerra: Midway, Guadalcanal, El Alamein, Stalingrado segnano tappe decisive per l’esito finale, donde il timore di Franco di essere considerato vicino all'Asse e – dunque – esposto ad azioni militari ostili da parte degli Alleati (43). Le Diplomazie dei Paesi Alleati esercitano pressioni asfissianti sui Paesi neutrali, al fine di convincerli a scendere in campo a fianco delle “Nazioni Unite” (44). In conseguenza di ciò, Franco, che già a settembre aveva rimosso dalla carica di Ministro degli Esteri il cognato Ramon Serrano Súñer, fautore dell’invio della Division Azul inquadrate nella Wehrmacht sul fronte russo (45), chiede assicurazioni a Roosevelt circa il rispetto della integrità territoriale spagnola da parte degli Alleati (46), forma con il dittatore portoghese Salazar il “Bloque Ibérico”, «per rafforzare la neutralità delle due nazioni latine e iniziava una cauta ma irreversibile manovra di sganciamento dall'orbita nazista» (47). La neutralità dei due Paesi iberici è un punto di approdo di un’intensa attività diplomatica dei servizi britannici ed americani, condotta fin dal 1939 (anche nei confronti di Irlanda, Svezia e Turchia), per portare nell’orbita delle “Nazioni Unite” o, quanto meno, evitare che possano allearsi con le forze dell’Asse dei Paesi di capitale importanza strategica per il controllo delle rotte (48). Inoltre, lo sganciamento dall’Asse dei paesi iberici, nazioni cattoliche a stragrande maggioranza, libera definitivamente le mani alla diplomazia vaticana, che si orienta in modo definitivo verso gli Alleati (49).

Nel frattempo, è iniziata, da parte del Vaticano e delle Cancellerie dei paesi belligeranti, un’opera di persuasione nei confronti di politici e militari italiani affinché si pervenga ad uno sganciamento dell’Italia dall’Asse e ad una pace separata tra l’Italia e le Nazioni Unite. Si muove anche la Massoneria. «Il 16 marzo del 1943 la real ambasciata d’Italia a Madrid avvertì il Ministero degli Interni e il Comando Supremo che, da informazioni del Ministro degli Esteri Jordana, risultava che l’AMI avesse dato alle varie organizzazioni massoniche l’ordine d’infiltrarsi, sia in Italia che negli altri paesi europei, nei Ministeri degli Esteri, Interni, Giustizia e Lavoro allo scopo d’incrementare il movimento anglo-americano controllandolo fino a quando non fosse convenuto alla Massoneria che scoppiassero le rivolte degli operai nelle piazze» (50). In realtà, più che di “infiltrazioni”, si tratta di recupero discreto dei vecchi massoni che, dopo lo scioglimento delle logge, avevano continuato l’attività esoterica nella clandestinità, sia pure sospendendo qualunque attività massonica “esterna”, a volte anche collaborando con il regime. È il caso dei Marescialli d’Italia Ugo Cavallero e Giovanni Messe, dell’ambasciatore a Madrid Giacomo Paolucci de’ Calboli, è il caso di Arturo Reghini, di figure cariche di gloria, ma anche di anni, come il Grande Ammiraglio Paolo Thaon de Revel “Duca del Mare” ed il marchese Guglielmo Imperiali di Francavilla,diplomatico di lungo corso, è il caso, soprattutto, di Domenico Maiocco, sul quale torneremo (51).

L’offensiva diplomatica delle Cancellerie e del Vaticano, l’opera di “convincimento” della Massoneria, trovano terreno fertile nelle Forze Armate ormai demoralizzate dall’andamento delle operazioni belliche. Badoglio, esautorato dalla carica di capo di stato maggiore generale dopo la disastrosa campagna di Grecia (52), cova da allora uno spirito di rivincita nei confronti del Duce (53). Viene informato, alla fine del 1942, che il Vaticano ed il Podestà di Milano, a sua volta pressato dagli industriali lombardi, farebbero pressioni sul re affinché, appropriandosi dei poteri statutari, cambi il governo, nominando lo stesso Badoglio a sostituire il Duce, ed immediatamente chiede lumi a Maglione, con una lettera del 21 dicembre 1942. Maglione, a stretto giro, smentisce (54). Badoglio non si arrende: un rapporto dello Special Operations Executive britannico (55) informa dell’esistenza di una cospirazione militare contro il Duce preparata all’inizio del 1943 con a capo Badoglio ed il generale Gustavo Pesenti, quest’ultimo pronto a prendere le armi a fianco degli Alleati già nel 1941 (56). Nel maggio 1943, Badoglio capeggia un gruppo di collari dell’Annunziata (gli altri sono il Maresciallo Caviglia, il Grande Ammiraglio Thaon di Revel, ed il Marchese Imperiali di Francavilla) che chiede udienza al Quirinale assieme a Vittorio Emanuele Orlando ed Ivanoe Bonomi per sollecitare un cambio di governo. Bonomi, Capo del Governo in pectore in caso di disponibilità del sovrano. Fallito il tentativo, per dissidi interni al gruppo (57) Bonomi, che sostiene di essere a capo di una coalizione di oppositori del regime, dichiara di rinunciare a qualunque tentativo di associare i monarchici al suo progetto (58). Per raggiungere il fine della pace separata, i servizi britannici ed il Vaticano puntano soprattutto su Galeazzo Ciano, genero del Duce (ne ha sposato la figlia prediletta Edda) e Ministro degli Esteri. Già nel 1939/40, il Vaticano punta su Ciano, dapprima perché l’Italia eserciti un’azione moderatrice sulla Germania per la questione di Danzica (59), e poi per creare una corrente contraria all’intervento in guerra dell’Italia (60).

Ora, dopo il “cambio della marea” e la conseguente fronda che emerge sempre più, si punta di nuovo sul genero del Duce (61). Mussolini, il 5 febbraio 1943, rimuove Ciano da Ministro degli Esteri, assumendone la carica in prima persona. I servizi segreti alleati interpretano tale mossa per quella che è: rimuovere la punta di diamante del partito della pace separata (62). Ipotesi confermata da una fonte anonima che, da Ankara, informa il Foreing Office sull’esistenza di un complotto di Grandi e Ciano per deporre il Duce, complotto di cui è a conoscenza il Principe di Piemonte (63). Su richiesta dello stesso Ciano (64), il Duce lo nomina Ambasciatore presso la Santa Sede. Il Re, tramite Acquarone, comunica a Ciano di essere felice della sua nuova destinazione (65). Il 24 febbraio 1943, il maestro di Camera di Pio XII, mons. Arborio Mella di S. Elia, informa di un incontro confidenziale avuto il 19 precedente con il Colonnello Bertone, segretario di Ettore Bastico, governatore della Libia. In tale colloquio, egli chiede udienza al Papa, per esporgli la necessità di accentuare le pressioni Vaticane sul Re perché si giunga ad una pace separata dell’Italia con gli Alleati, ritenendo ormai l’Italia al collasso militare (66). Il 12 maggio 1943, è Pio XII in persona a scrivere a Mussolini perché cessino le ostilità. La lettera viene mostrata a Ciano, che l’approva totalmente, anche se sostiene che il Duce non sia nelle condizioni psicologiche per comprenderla. Il Duce risponde il giorno successivo con un garbato rifiuto, ricordando le diverse funzioni dello Stato e della Chiesa, chiaramente trattando la lettera di Pacelli come intervento pastorale e non di diplomazia internazionale In realtà, confida Ciano a Maglione, Mussolini è piuttosto contrariato da quella che ritiene un’interferenza negli affari italiani di una potenza straniera formalmente neutrale (67). Con la presa di Pantelleria e delle Pelagie da parte degli alleati, la situazione subisce una brusca accelerazione. Si arriva, quindi, alla vigilia degli eventi, con il partito della “pace separata” che conta sempre più adepti, soprattutto nell’esercito e dilaga dopo lo sbarco in Sicilia degli Alleati agli inizi di luglio 1943. In realtà, sul piano delle iniziative diplomatiche, vi è un incessante tentativo, da parte giapponese, con forte appoggio da parte italiana, di giungere ad una pace separata con l’URSS, in modo da liberare le forze del Tripartito dall’impegno nei confronti dell’Armata Rossa, e concentrare gli sforzi bellici nell’Europa Occidentale, in Nordafrica e nel Sud Pacifico. I tentativi sono ben documentati, anche se «Gran parte della storiografia nel nostro paese, nonostante l’importante, seppur non conclusivo, contributo offerto da William Deakin e Renzo De Felice, ha però sostanzialmente sminuito l’importanza di questa iniziativa politica, dimostrando un’irriducibile tendenza a concentrarsi, unicamente, sui peace feelers italiani con Londra e Washington» (68).

Nella citata monografia sulla seduta del Gran Consiglio, Emilio Gentile motivatamente esclude che al voto si giunga per l’emergere del “dissenso interno” maturato in precedenza, come soprattutto Grandi vorrebbe far credere (69). Analizzando il comportamento dei gerarchi nel tempo, dimostra che essi non manifestarono mai alcun dissenso prima del “cambio della marea” nelle vicende belliche. Motivatamente esclude un ruolo attivo della Monarchia, né nella persona del Re, né in quella del Principe del Piemonte. Quest’ultima ipotesi negativa di Emilio Gentile va – però –corretta alla luce di ricerche pubblicate successivamente, che fanno vedere sotto altra luce alcune trame della Principessa di Piemonte Maria José (70). Vittorio Emanuele resta attendista, non si fida di Badoglio ed esita ad entrare in azione. Ma altri membri della famiglia reale, a cominciare da Amedeo d’Aosta, intessono le loro trame con la complicità dei vertici militari, la stessa Maria José «con Badoglio, Maglione, Montini, la vecchia guardia liberale e gli esponenti dell’antifascismo militante (comunisti compresi), riuscì anch’essa, senza però raggiungere nessun risultato, a persuadere Salazar a intraprendere, a suo nome, sondaggi di pace verso il Regno Unito» (71). Dunque, in questo vortice di trame comprendenti ambienti militari, Vaticano, Servizi Stranieri, i gerarchi sono mossi da loro motivazioni, che sono diverse le une dalle altre, tanto è vero che ognuno di loro darà una versione diversa perfino sullo svolgimento della seduta (72). Si è visto, comunque, che vi sono fin dall’inizio della guerra manovre per arrivare ad un cambio di regime, accentuatesi dall’autunno 1942, facendo leva sul timore di una disfatta in seguito al “cambio della marea” vedono protagonisti i servizi delle Cancellerie delle Nazioni Unite e dei Paesi neutrali, soprattutto il Vaticano. Quale il ruolo della Massoneria, dopo l’ordine dell’AMI?

Sul punto, la documentazione è piuttosto scarsa. Abbiamo una lettera di Badoglio datata 8 settembre 1943, in cui si direbbe: «In ogni modo, nel caso che i tedeschi estendano la loro occupazione militare, resta fissata la realizzazione delle ultime direttive del grande Oriente di Londra» (73). La lettera viene mostrata a Mussolini a riprova del “complotto massonico”. Riteniamo di seguire Mola (74): la lettera è un falso smaccato. Per il semplice motivo che non esiste un “Grande Oriente di Londra”. La principale obbedienza della Massoneria inglese non ha mai assunto questa denominazione. Dal 1813, ha assunto l’attuale denominazione di United Grand Lodge of England. Il dato più serio è un appunto sul diario di Ivanoe Bonomi, datato 24 luglio 1943: «Oggi alle 17 viene da me un noto antifascista, il dottor Domenico Maiocco piemontese, che è in molta intimità con il quadrumviro De Vecchi. Egli mi conferma che il Gran Consiglio del Fascismo si convoca proprio nell’ora in cui egli mi parla, e che le deliberazioni dell’assemblea saranno di eccezionale importanza. Il De Vecchi gli avrebbe detto che nella mattinata Grandi e Federzoni lo avevano persuaso a firmare un ordine del giorno inteso a restituire al Re tutte le sue prerogative, invitandolo nel preconizzato, come conseguenza del voto, il ritiro di Mussolini e l’incarico ai presentatori dell’ordine del giorno di costituire un Governo nuovo. Naturalmente – così egli avrebbe detto al mio informatore – il nuovo Governo avrebbe fatto appello alla concordia nazionale, invitando i maggiori uomini della opposizione a dare la loro collaborazione. Il De Vecchi non si sarebbe fatta alcuna illusione sulla mia risposta, pure desiderava di farmi sapere preventivamente che mi si sarebbe rivolto un invito amichevole» (75).

Domenico Maiocco è un vecchio massone che dopo lo scioglimento delle logge ha continuato l’attività massonica, soprattutto tenendo i contatti con i fratelli, sia quelli rimasti in Italia nella clandestinità, sia con i fuorusciti, sia – soprattutto con l’AMI e con le Fratellanze degli altri Paesi, soprattutto oltreoceano (76). Nella preparazione del voto al Gran Consiglio del 25 luglio, si avvale della sua antica amicizia con Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, onde svolge opera di collegamento tra i gerarchi e tra questi e la corona (77). Abbiamo più volte detto che l’opera “del” massone non può di per sé riferirsi alla “Massoneria” come istituzione. Ma, nel caso di specie, riteniamo che l’opera di Maiocco sia riferibile alla Istituzione. Subito dopo l’arresto di Mussolini, il 26 luglio 1943, viene convocata una riunione del “Governo dell’ordine massonico italiano” con l’obiettivo di riattivare le logge sciolte da Torreggiani con la balaustra del 22 novembre 1925 e con un programma politico preciso, di perseguire «il principio democraticonell’ordine sociale e politico», e di lottare «senza tregua controtutti i dispotismi politici, le intolleranze religiose e i privilegidi qualunque genere» (78), segno che la “rinascita” delle logge è un piano preparato da tempo, che ha come presupposto indefettibile la caduta del Regime, a cui – dunque – Maiocco collabora perché venga rimosso l’ostacolo alla ricostruzione del Tempio. Pur non essendo – dunque – decisiva, l’opera della Massoneria nella caduta del Regime ha in ogni caso la sua incidenza. Paradossalmente, però, è molto più incisiva in questo intento, condiviso con la Fratellanza, l’azione continua della sua secolare nemica: la Chiesa Cattolica.

Note:

1 - “La costituzione in senso materiale” Giuffrè, Milano 1940.
2 - cfr. Gentile, “25 luglio 1943”, Laterza, Bari-Roma 2018, pp. 59 ss.; sullo stesso argomento, De Felice, “Mussolini, il Duce. 2. Lo stato totalitario”, Einaudi, Torino 1981; Alberto Acquarone, “L’organizzazione dello stato totalitario”, Einaudi, Tonino 1965.
3 - Gentile, op. ult. cit., p. 7.
4 - Luigi Pareti, “Passato e presente d’Italia”, Casa editrice delle edizioni popolari, Venezia 1944, p. 329; il dato in sé è ritenuto attendibile senza verifica elle fonti da Francesco Leoni, “Storia dei partiti politici italiani”, Alfredo Guida Editore, Napoli 2001, p. 466.
5 - Pareti è uno storico dell’antichità che aveva aderito con entusiasmo alla RSI, ed aveva sposato le tesi di Preziosi sul “complotto massonico”. È curioso constatare come la tesi della congiura massonica che avrebbe determinato la caduta del Fascismo trovi i suoi fautori soprattutto tra i fascisti ed i massoni, come si vedrà infra.
6 - Diario di Galeazzo Ciano, nota del 21 marzo 1939, Milano, Rizzoli, 1950.
7 - Anche contro Farinacci non mancarono gli strali degli irriducibili, sulla base della sua pregressa iniziazione. Addirittura, all’epoca della Segreteria Farinacci del PNF (15 febbraio 1925 – 30 marzo 1926), sorse l’Ordine dei soldati per la buona guerra, con l’intento di contrastare la minaccia di “infiltrazione massonica” che sarebbe stata capeggiata dal ras cremonese.
8 - Stefano Fiorucci, “Giovanni Preziosi (1881-1945). L’antisemitismo nei suoi articoli su «La Vita Italiana» 1919-1943” – tesi di laurea – 2005 con appendice 2007; Clemente Galligani, L'Europa e il mondo nella tormenta, guerra, nazifascismo, collaborazionismo, Resistenza, Armando Editore, Roma 202,p. 202, che data erroneamente la lettera al 1° luglio.
9 - La prolusione di Preziosi viene assunta a prova della congiura massonica dalla anonima voce “Massoneria” nella prima appendice postbellica all’Enciclopedia Italiana pubblicata nel 1948. L’articolo sulla “Treccani” viene poi ripreso dal GOI a riprova delle sue benemerenze antifasciste nel 1960, in un opuscolo intitolato “L’Azione della Massoneria italiana (palazzo Giustiniani) in difesa della libertà e delle libere istituzioni contro il fascismo e le sue reviviscenze”, a cura del Gran Maestro dell’epoca, Umberto Cipollone – pp. 17-18.
10 - Gentile, op. ult. cit., p. 30.
11 - De Felice, “Mussolini, l’alleato – 2. la guerra civile”, Einaudi, Torino 1997, ristampa a cura della biblioteca storica “Il Giornale”, Milano 2015, pp. 55 ss.
12 - Il verbale è pubblicato, tra l’altro, in appendice a Renzo De Felice, op. ult. cit., pp. 604 s.
13 - v. supra, nota 146.
14 - Sostiene, tra l’altro, che il Gran Maestro uscente sarebbe stato il Re. Il precedente Gran Maestro era – invece - il principe Arthur di Connaught and Strathearn, che era succeduto nella carica a Edoardo VII, Gran Maestro quando era principe di Galles, ma dimessosi dalla carica dopo l’ascesa al trono. Preziosi nell’articolo sostiene che i Re d’Inghilterra avrebbero ininterrottamente ricoperto la carica di Gran Maestro fino al 1939. In realtà,nessun sovrano ha mai ricoperto tale carica.
15 - De Felice, op. ult. cit., pp. 513 ss.
16 - Michele Sarfatti (a cura di), “La Repubblica sociale italiana a Desenzano, Giovanni Preziosi e l'Ispettorato generale per la razza”, Giuntina, Firenze 2008, p. 85.
17 - Sarfatti (a cura di), op. cit., p. 88.
18 - Questa tesi ritorna periodicamente, ma senza citare alcuna fonte attendibile. Aldo A. Mola, 2018 p. 646; “Storia della Massoneria Italiana dalle origini ai giorni nostri”, Bompiani, Milano 1992 (d’ora in avanti, Mola 1992), p. 650, la liquida come “chiacchiera”, ma circola da sempre. Lo stesso Maresciallo Graziani, nelle immediatezze dell’armistizio, attribuisce la decisione di Badoglio alle pressioni massoniche in un colloquio con mons. Marchioni, Segretario della Nunziatura apostolica in Italia - “Actes et Documentsdu Saint Siègerelatifs à la seconde Guerre Mondiale. Le Saint Siège et la Guerre mondiale, novembre 1942 – décembre 1943” Libreria Editrice Vaticana, 1973 (in seguito, Actes 7.). L’affiliazione massonica di Badoglio è data come certa da Rivista Massonica (rivista del GOI) – numero di aprile 1976, p. 247.
19 - Questa tesi è abbastanza condivisa nella storiografia. Da ultimo, cfr. Di Rienzo, “Caporetto, la «strana disfatta», in Nuova Rivista Storica, 91, 2007, 3, pp. 661-672”; id. “Caporetto come «problema storiografico»”, Saggio introduttivo alla ristampa di Gioacchino Volpe, “Da Caporetto a Vittorio Veneto”, Rubettino, Soveria Mannelli 2018.
20 - Questa tesi ha un suo fondamento. Badoglio, contrario all’intervento in Grecia, si adopera perché non vengano inviati a Visconti Prasca i rinforzi da lui richiesti. Sul punto, tra gli altri, cfr. De Felice, “Mussolini, l’Alleato. 1. L’Italia in guerra”, Einaudi, Torino 1990, pp. 197 ss.
21 - Sarfatti (a cura di), op. cit., p. 85.
22 - Galligani, op. cit., p. 203.
23 - Joseph Paul Göbbels, “Diario intimo”, Mondadori, Milano 1948, p. 688.
24 - Paul Duclos, “Le Vatican et la Seconde Guerre Mondiale: action doctrinale et diplomatique en faveur de la paix”, Pédone, Paris 1955; Giorgio Andreozzi Gariboldi, “Pio XII, Hitler e Mussolini”, Mursia, Milano 1988; id., “Il Vaticano durante la Seconda Guerra Mondiale”, Mursia, Milano 1992; Owen Chadwick, “Britain and the Vatican during the Second World War”, Cambridge University Press, 1986 – questo lavoro è basato sulla traduzione italiana di Gloria Romagnoli, “Gran Bretagna e Vaticano durante la Seconda Guerra Mondiale”, San Paolo, Torino 2007; Matteo Luigi Napolitano, “Pio XII tra guerra e pace: profezia e diplomazia di un papa (1939-1945)”; Mark Riebling, “Church of Spies. The Pope’s Secret War Against Hitler”, Basic Book, New York 2015 – questo lavoro si basa sulla traduzione in francese di Johan-FrédérikHelGuedj– “Le Vatican desespions: La guerresecrète de Pie XII contre Hitler”ÉditionsTallandier, Paris 2016.
25 - Juan María Laboa, “La chiesa e la modernità, Volume 2, I papi del Novecento” – Jaka Book, Milano 2001, p. 157.
26 - Napolitano, op. cit., p. 252; Mark Riebling, op. cit., cap. 8, “Sécretabsolu”.
27 - AAS IX (1917) pp.421-423.Il testo integrale in italiano è consultabile sulla rete all’indirizzo http://w2.vatican.va/content/benedict-xv/it/letters/1917/documents/hf_ben-xv_let_19170801_popoli-belligeranti.html
28 - John Francis Pollard, “Una «inutile strage». Benedetto XV e la Prima guerra mondiale”, in Concilium 3/2014, p. 170; id., “Il papa sconosciuto”, San Paolo, Torino 2001, pp. 109 ss.
29 - In realtà, il Vaticano non avrebbe potuto, per espressa previsione dell’art. 24 dei Patti Lateranensi, prendere posizione sulle vexatæ quæstiones sottese alla guerra, quindi la scelta di non “manifestarsi” era dovuta. Pio XII violerà permanentemente la norma concordataria durante tutto il conflitto.
30 - Soprattutto Duclos e Napolitano, op. cit.
31 - Duclos, op. cit.,pp. 204 ss.
32 - Il testo italiano dell’enciclica è consultabile sulla rete all’indirizzo http://w2.vatican.va/content/pius-xi/it/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_19310629_non-abbiamo-bisogno.html
33 - Giovanni Maria Vian, voce “Paolo VI”, in Enciclopedia del Papi, a cura dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana.
34 - Riebling, op. cit., cap. 1., “Ténèbres sur la Terre ».
35 - testo italiano reperibile sulla rete all’indirizzo http://w2.vatican.va/content/pius-xi/it/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_14031937_mit-brennender-sorge.html
36 - Mark Riebling, op. e loc. ult. cit.; sull’enciclica, cfr.HubertWolf, “Il papa e il diavolo: il Vaticano e il Terzo Reich”, tad. Paolo Scotini, Donzelli 2008, p. 217.
37 - David Álvarez – Robert A. Graham, “Nothing Sacred: Nazi Espionage Against the Vatican, 1939-1945”, New York, Irish Academic Press, 1998
38 - Napolitano, op. cit., pp. 134 ss.
39 - Riebling, op. cit., cap. 3., “Jo le bœuf.
40 - In “Actes et Documents duSaint Siège relatifs à la seconde Guerre Mondiale. Le Saint Siège et la Guerre mondiale, mars 1939 – août 1940”, Libreria Editrice Vaticana, 1970 (in seguito, Actes 1.), p. 436 n,, Müller è definito “l'agent ordinaireentre le Vatican et lesgénérauxhostilesaurégime naziste” (l’agente ordinario tra il Vaticano ed i generali ostili al regime nazista) – cfr. Napolitano, op. cit., p. 100.
41 - Duclos, op. cit., p. 117 – l’A. propone una mera ipotesi, non essendo ancora noti i documenti custoditi nell’Archivo Vaticano, ma verrà successivamente confermata dai documenti: cfr. la nota del nunzio apostolico in Spagna, mons. Cicognani, al Segretario di Stato mons. Maglione il 13 maggio 1940, in “Actes 1. ”, cit., p. 452.
42 - Liddell Hart, History of the Second World War, New York, Exeter Books 1980, pp. 353 ss.
43 - Enrique Moradiellos, “La España de Franco (1939-1975). Política y sociedad”,Madrid:Síntesis 2000, p. 67.
44 - Di Rienzo – Gin, op. e loc. ult. cit.; Wayne H. Bowles, op. cit., p. 88.
45 - Lúis Suárez Fernández, “Franco. Los añosdecisivos. 1931-1945”. Barcelona: Ariel 2011, pp. 201 ss.
46 - ibidem, p. 227.
47 - Di Rienzo – Gin, op. cit., p. 35;
48 - Álvarez – Graham, op. cit.; Di Rienzo – Gin, op. cit., p. 37.
49 - Wayne H. Bowles. “Spain during Worls War II”, University of Missouri, 2006, p. 50; siveda la nota a mons. Maglione di mons. Cicognani, Nunzio Apostolico a Madrid, del 17 dicembre 1942 (Actes 1., p. 142), in cui si parla di un’iniziativa iberico-Vaticana per la cessazione delle ostilità.
50 – Vantina Marica Melfa, “Massoneria e Fascismo: Dall'interventismo alla lotta partigiana” Mondi Velati Editore, Chivasso 2013, pos. Kindle 1797 ss.
51 - Mola 2018, pp. 583 ss.
52 - Sul piano formale si era dimesso, ma erano state dimissioni forzate, dopo le dure critiche allo Stato maggiore, soprattutto da parte di Farinacci, ed il rifiuto del Duce di far cessare tali attacchi: cfr. Galeazzo Ciano, “Diario”, cit., nota 25 novembre 1940; De Felice, “Mussolini, l’Alleato, l’Italia in guerra”, vol. I, parte 1., Einaudi tascabili, Torino 1990, pp. 343 ss.; Gian Carlo Fusco, “Guerra d'Albania”, Sellerio, Palermo 2001, p. 91; Matteo Di Figlia, “Farinacci: il radicalismo fascista al potere”, Donzelli, Milano 2007, p. 241.
53 - Marco Patricelli, “Settembre 1943: i giorni della vergogna”, Laterza, Bari/Roma 2010, p. 21. Secondo HelGuedj, op. cit., cap. 19. “Prisonnierdu Vatican”, le manovre di Badoglio erano accelerate da una voce, diffusa in ambienti Vaticani, secondo cui il Duce avrebbe avuto l’intenzione di deferirlo ad una “Corte marziale” (recte, ad un Tribunale militare di guerra).
54 - “Actes 7.”, cit., pp 155 s.
55 - Dipartimento speciale dei Servizi britannici alle dirette dipendenze di Churchill dal 1940.
56 - Di Rienzo – Gin, op. cit., p. 38.
57 - Si veda la nota del Conte Della Torre (Direttore dell’Osservatore Romano) al cardinale Maglione del 12 maggio 1943, in Actes 7., pp. 333 ss.
58 - cfr. la lettera del Conte della Torre a mons. Maglione del 20 maggio 1943, in “Actes 7.”, p. 354.
59 - Si vedano la lettera dell’Ambasciatore di Polonia al cardinale Maglione del 9 maggio 1939, in “Actes 1.”, pp. 135 ss., la nota dello stesso Maglione della stessa data ibidem, p. 138, ma, soprattutto il resoconto del Nunzio d’Italia Borgongini Duca al cardinal Maglione in data 14 giugno 1939, circa un colloquio con Ciano del giorno prima – ibidem, pp. 177 ss. – Ciano rassicura il Nunzio: la Germania non ha intenzione di invadere la Polonia. Questa “rassicurazione”, tramite il Vaticano, fa il giro delle Ambasciate d’Europa. Ciano si reca a Salisburgo per dissuadere i tedeschi da intenzioni bellicose verso la Polonia. Regno Unito e Vaticano sono immediatamente informati dell’insuccesso della missione – ibidem, pp. 221 ss.; illuminante la nota di mons. Tardini del 26 agosto 1939. « … il Ministro degli Esteri fa del tutto per influire su Mussolini affinché faccia capire a Hitler le difficoltà di seguirlo in una guerra» - ibidem, p. 247. Ciano fa di tutto per dissuadere la Germania dalle sue pretese per Danzica, cerca di coinvolgere in questo tentativo il governo e ne informa passo passo i britannici ed il Vaticano. Annota nel suo Diario il 30 agosto 1939: «Continuo e moltiplico i miei contatti con gli inglesi: Percy Loraine è venuto questa notte a casa e durante il giorno telefona continuamente».
60 - Nella nota 5-6 settembre 1939, Montiniscrive: «La notizia dei primi successi della Germania contro la Polonia ha ridestato gli spiriti bellicosi del Duce, che a stento è trattenuto dal Ministro Ciano»; in seguito a tale nota, Pio XII invia Padre Tacchi Venturi a Palazzo Venezia per fare pressioni su Mussolini affinché conservi la neutralità (Actes 1., p. 294) – il gesuita Pietro Tacchi Venturi, grande negoziatore tra Vaticano e regime fin dall’ascesa al potere, era stato messo da parte subito dopo l’elezione di Pio XII, che – evidentemente – lo rispolvera sperando nelle sue doti di mediatore e nei suoi rapporti con il Duce; dal diario di Ciano sappiamo che il colloquio si svolge il 6 settembre; Tacchi Venturi, con nota del 7 settembre (ibidem), comunica che ci sono buone speranze perché l’Italia rimanga neutrale fino alla fine del conflitto e che il partito della neutralità ha in Ciano il suo perno. Continuando le operazioni belliche, svariate note vaticane esprimono “gratitudine” a Ciano per i suoi “sforzi per la pace”; il 21 dicembre 1939, Ciano, durante un’udienza di Pio XII con il Re, dice a mons. Tardini: «… ho potuto salvare la pace d'Italia ma non ho potuto salvare la pace dell'Europa» (ibidem, p. 347); nella nota del 17 febbraio 1940 (ibidem, pp. 373 ss.), il cardinale Maglione riferisce un colloquio privato con Ciano, il quale lo avrebbe rassicurato circa il perdurare nella neutralità italiana, illustrando i motivi per i quali non sarebbe entrata in guerra. Il colloquio avviene dopo un incontro di Ciano con Percy, annotato nel suo Diario del 17 febbraio 1940. I rapporti di Ciano con la diplomazia vaticana sono intensissimi, e sono diligentemente riportati nei documenti di fonte pietrina, spesso secretati. Da questi, si evince con la massima chiarezza che Ciano intende accreditarsi con il Vaticano quale perno della fazione fascista favorevole alla continuazione della neutralità. E, diligentemente, tiene informati i diplomatici del Papa circa l’evoluzione della situazione. Quando, il 18 marzo 1940, Mussolini si incontra al Brennero con Hitler, Ciano sul suo diario annota: «Per quanto ci riguarda, l'incontro non ha sostanzialmente alterato la nostra posizione», e lo comunica al Vaticano, agli SUA ed al Regno Unito (Diario del 19 marzo 1940) ma, successivamente (una parte del colloquio non aveva avuto testimoni), ha l’impressione che il suocero si sia ormai “compromesso” con l’alleato tedesco, e si precipita ad informarne il Nunzio apostolico in Italia, Borgognoni Duca, come apprendiamo dalla nota 27 marzo 1940 di quest’ultimo al cardinale Maglione (ibidem p. 412). L’11 maggio 1940, Ciano informa il Nunzio di aver ormai perso le speranze di mantenere la neutralità, come apprendiamo dalla missiva di Borgognoni Duca a mons. Maglione (ibidem, p. 450). La realtà è che, nel periodo immediatamente antecedente all’entrata in guerra dell’Italia, tra Mussolini e Ciano s’instaura un vero e proprio “gioco delle parti”. Il Duce è ben consapevole della impreparazione dell’Italia alla guerra, ma, dovendo fronteggiare gli impazienti (Starace, Farinacci, Alfieri), lascia a Ciano la recita della parte del “moderato”. Ciano ne approfitta per accreditarsi come tale agli occhi delle diplomazie degli Alleati e del Vaticano. Ciò fin dall’immediatezza delle operazioni belliche, che vedono Daladier e Chamberlain premere sull’Italia perché resti neutrale. Che Ciano menta al Vaticano riguardo ai suoi presunti conflitti con il suocero, si evince da una nota di Bocchini (capo della Polizia) del 30 agosto 1939, in cui confida a Padre Tacchi Venturi (su cui, v. infra), che il Duce non ha alcuna intenzione di entrare in guerra a fianco della Germania. L’intento di Ciano di accreditarsi come “moderatore” rispetto al suocero, lo porterà a “falsificare” i suoi Diari, inserendo note a suffragare tale immagine (cfr., sul punto, Di Rienzo, “Ciano”, cit.).
61 - Si veda la lettera datata 13 febbraio 1943 di Harold Tittmann (ambasciatore S.U.A. in Vaticano) al Segretario di Stato Cordell Hull: «Ciano a causa della sua nota propensione pro alleati, era adatto ad agire attraverso il Vaticano, nella sua nuova funzione di ambasciatore italiano, sui rappresentanti delle Nazioni Unite nella Città del Vaticano favore di una pace di compromesso sostenendo con loro il pericolo russo» - la lettera è pubblicata in Ennio Di Nolfo “Vaticano e Stati Uniti. Dalle carte di Myron C. Taylor”, Franco Angeli, Milano 1978, p. 234.
62 - Di Rienzo – Gin, op. cit., p. 41.
63 - Di Rienzo, “Ciano”, cit., pos. Kindle 9053 ss.
64 - Diario, 5 e 6 febbraio 1943.
65 - ibidem
66 - Actes 7., pp. 240 s.
67 - Il succedersi degli eventi è riportato in Actes 7., pp. 330 ss. L’irritazione del Duce per le interferenze vaticane comincia già con le pressioni del Papato per impedire l’entrata in guerra dell’Italia, e prosegue per tutto il corso della guerra: sul punto, v. Napolitano, op. cit.
68 - Di Rienzo – Gin, “Quella Mattina del 25 luglio 1943. Mussolini, ShinrokuroHidaka e il progetto di pace separata con l’URSS”, in NRS, XCV, 1, 2011, p. 31; id., op. cit., p. 198. Gi AA. fanno riferimento a Renzo De Felice, “Mussolini, l’alleato. I. L’Italia in guerra, 1940-1943”, cit., pp. 1278 ss. e Frederick WilliamDeakin, “Storia della Repubblica di Salò”, Einaudi, Torino 1962, pp. 88 ss.
69 - Dino Grandi, “Il mio paese: ricordi autobiografici”, a cura di Renzo De Felice, Il Mulino, Bologna 1985.
70 - Dai diari di Joseph Müller, apprendiamo che la principessa del Piemonte, pur non rivestendo un ruolo attivo nella vicenda, il 24 novembre 1942, su incarico di Badoglio, incontra Montini per discutere delle conseguenze di un eventuale mutamento di regime – cfr. HelGuedj, op. e loc. ult. cit.
71 - Di Rienzo, “Ciano”, cit., pos. Kindle 9024.
72 - In modo immaginifico, Emilio Gentile titola il prologo della monografia “Rashōmon a Palazzo Venezia”, con riferimento al film di Kurosawa in cui ognuno dei testimoni oculari di un delitto dà una versione diversa dello svolgimento dei fatti.
73 - Melfa, op. cit., pos. Kindle 1803.
74 - Mola 1992, p. 650.
75 - Ivanoe Bonomi, “Diario di un anno”, prima edizione 1946 - edizione digitale, con introduzione di Umberto Gentiloni Silveri, Castelvecchi, Roma 2017, p. 56.
76 - Alberto Cesare Ambesi, “Storia della massoneria”, De Vecchi, Milano 1971, p. 209; Massimo Della Campa - Giorgio Galli, “La massoneria italiana”, Franco Angeli, 1998, p. 77; Mola, 1992, p. 622.
77 - Per una completa ricostruzione della figura di Maiocco, cfr. Zarcone, op. cit.; Mola 2018, pp. 586 ss., riprende adesivamente gli studi di Zarcone, mentre nelle precedenti edizioni dell’opera non rileva questo ruolo svolto dal Maiocco nella preparazione della “notte del Gran Consiglio”, definendo il personaggio «ex socialista, ex antifascista, poi nuovamente antifascista». riportando il parere diffidente di Giuseppe Romita e mostrando di condividerlo (Mola 1992, p. 622). Evidentemente, il révirement di Mola è determinato dagli studi di Zarcone
78 - Conti, “Massoneria, politica e questione cattolica in Italia tra fascismo e Repubblica”, in “Religione e politica in Italia - Dal Risorgimento al Concilio Vaticano II” - Nino Aragno Editore, Torino 2013, p. 313.

(continua…)

Luigi Morrone per la Redazione di Ereticamente

L'articolo Fascismo e Massoneria, storia di rapporti complessi – 5^ parte – Luigi Morrone proviene da EreticaMente.

Fascismo e Massoneria, storia di rapporti complessi – 6^ parte – Luigi Morrone

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La Massoneria e la Guerra Civile

Dopo l’armistizio, i partiti antifascisti si mobilitano. Già il 9 settembre, all’indomani dell’annuncio, a Roma, in una casa di via Adda, si riunisce il “Comitato Centrale” del concentramento antifascista, presieduto da Bonomi. Sono presenti: Scoccimarro, e Amendola, per i comunisti; Nenni e Romita per i socialisti; La Malfa e Fenoalteaper il Partito d’Azione (1); Ruini per i democratici del lavoro (2): De Gasperi per i democristiani (3); Casati per i liberali. Nella riunione, si discutono le mosse da compiere dopo l’armistizio. Si decide di costituire un Comitato di Liberazione Nazionale, di cui viene steso anche il proclama (4). Il Re ed il governo fuggono da Roma; l’11 settembre a Roma fanno ingresso le truppe tedesche, mentre le FFAA italiane sono allo sbando; il governo non ha diramato alcuna istruzione. Non si sa dove sia il Re, non si sa dove sia Badoglio. La confusione regna sovrana (5). Anche prima della dichiarazione di guerra alla Germania, i tedeschi da alleati diventano nemici, e l’occupazione, sul piano giuridico, dovrebbe essere considerata un’occupazione straniera. Il CLN, nella seduta del 30 settembre 1943, dibatte su due punti:
1. Quale atteggiamento avere nei confronti del governo Badoglio;
2. Quale posizione assumere riguardo alla questione istituzionale.

Sul primo punto, si raggiunge immediatamente l’accordo: nessuna collaborazione con Badoglio. Sul secondo, viene incaricato Bonomi di stendere un ordine del giorno, in quanto le posizioni divergono. Bonomi media, e raggiunge l’accordo: finita la guerra, sarà il popolo a scegliere la forma istituzionale, mentre medio tempore la monarchia resterà “commissariata” dai partito del CLN (6). Dopo la dichiarazione di guerra alla Germania, il Regio esercito combatte a fianco dei vecchi nemici contro i vecchi alleati, i fascisti repubblicani riprendono a combattere contro i nemici di prima, restando a fianco degli alleati di prima. Il CLN ne prende atto, ribadisce sia il rifiuto di collaborare con Badoglio, sia la sospensione della questione istituzionale. Nella seduta del 16 ottobre 1943, il CLN approva un ordine del giorno predisposto dal democristiano Gronchi, che auspica la formazione di un governo politico superando il momento Badoglio, e chiama il popolo italiano alla “guerra di liberazione a fianco delle nazioni unite” (7). È chiaro, dalle riunioni del CLN, che per il Comitato, la “lotta di liberazione” contro «l’estremo tentativo mussoliniano di suscitare, dietro la maschera di un sedicente Stato repubblicano, gli orrori della guerra civile» dovrà essere condotta a fianco delle nazioni unite «soltanto come cobelligerante e non come alleata».

Indipendentemente dalle posizioni del CLN, però, formazioni irregolari prendono le armi e combattono con la tattica della guerriglia contro fascisti e tedeschi. Sostiene De Felice: «Il fascismo repubblicano e il movimento partigiano nacquero autonomamente l’uno dall’altro ad opera di piccoli gruppi» (8) Come ricorda Carlo Pavoni (9), le motivazioni individuali che spingono i partigiani ad imbracciare le armi sono molteplici e non riconducibili ad unità. La guerra continua, dunque, anche nella forma di guerra civile tra italiani (10). I resistenti, infatti, rifiutano di combattere a fianco del Regio Esercito, nutrendo un profondo disprezzo verso di esso «inteso sia come istituzione e classe dirigente militare, sia come stile di vita» (11). Tale autonomia si esplica subito dopo l’occupazione tedesca di Roma. Il CLN comincia la lotta clandestina nella Capitale senza alcun contatto con i comandi militari. Nel frattempo, all’indomani dell’8 settembre, si costituisce a Milano un altro CLN, nello studio dell’avvocato liberale Giustino Arpesani (12). L’inizio della guerriglia nel Nord Italia sfocia nella costituzione di un “governo provvisorio”, guidato dal CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia), costituito il 31 gennaio 1944 su diretta “delega” del CLN romano (13). Del Comitato fanno parte Azionisti, liberali, democristiani, comunisti e socialisti. Il CLNAI non ha una struttura burocratica ben definita, e la lotta partigiana si espleta per lo più in assenza di direttive precise dal centro (14).

Dopo l’occupazione della parte peninsulare dell’Italia da parte delle Nazioni Unite, viene costituito un governo “civile”, presieduto da Bonomi che, il 26 dicembre 1944, a conclusione della missione a Sud dei comandanti partigiani Parri, Sogno e Pajetta, firma un protocollo con il CLNAI conferendo ad esso la delega di tutti i poteri per il governo del Nord Italia (15). Nel frattempo, la Massoneria, dopo la prima riunione del 26 luglio 1943, comincia a riorganizzarsi. Palermi riappare e “giustifica” con i fratelli la sua collaborazione con il Fascismo sostenendo di essersi infiltrato d’accordo con le logge statunitensi, e cerca di ricostruire la Gran Loggia d’Italia (16). Il 4 dicembre 1943 viene ricostituita un’altra Gran Commenda del Rito Scozzese Antico e Accettato, eleggendo quale Sovrano Gran Commendatore Carlo De Cantellis, il quale esordisce attaccando violentemente Palermi per le sue intese con il Fascismo (17). Dal canto suo, Maiocco ottiene dalle logge statunitensi un riconoscimento della Massoneria Unificata, da lui fondata, ma viene “scomunicato” sia dal GOI, sia dalla rinata Gran Commenda della Gran Loggia d’Italia (18). La Massoneria, quindi, si riorganizza a fatica e ritrovando le antiche divisioni, l’antica rissosità: a guerra finita, ci saranno il GOI, quella della Reggenza, nonché numerose Massonerie di rito scozzese che reclamavano in l’eredità della Gran Loggia d’Italia: quella di “via della Mercede”, facente capo a Palermi, quella “Unificata” di Maiocco, quella di “via Avezzana”, quella di De Cantellis, quella di Bencivegna-Battaglia, quella di Gustavo Scervini, il Gruppo San Giovanni di Scozia ed il Gruppo Nalbone (19).

Quale il suo ruolo nella guerra civile?

Come abbiamo visto, all’atto di fondazione del CLN è presente Meuccio Ruini, massone di lungo corso. Alla guerra civile partecipano, indubbiamente, dei massoni. Ma Ruini partecipa alla fondazione del CLN quale esponente della Democrazia del lavoro, non in quanto massone, ed i partigiani massoni vi partecipano a titolo personale o quali esponenti dei partiti aderenti al CLNAI. Va considerato, infatti, che alla guerra civile partecipano anche formazioni non inquadrate nei partiti del CLNAI. È il caso – ad esempio – delle formazioni monarchiche: ricordiamo la Brigata “Amendola” del Col. Gancia, la Brigata “Piave”, che opera nel trevigiano, la Brigata “Scordia” di Cavarzerani in Cansiglio, le formazioni dei comandanti Longhi, Genovesi, De Prada e Lombardini, operanti in Val d’Ossola e in Val di Toce, il Reggimento “Italia libera”, che agisce in Carnia (20). Non vi è traccia di formazioni partigiane di estrazione massonica, come – invece – avviene in Francia. Non solo non vi è traccia della partecipazione della massoneria in quanto istituzione a qualunque evento organizzativo nella preparazione e nella gestione della guerra civile, per quanto, non vi è traccia di sostegno massonico alla guerra partigiana sul piano logistico o finanziario, e manca, nei documenti massonici tra il 1943 ed il 1945, qualunque riferimento alla guerra civile in atto. Tali rarissimi documenti si occupano esclusivamente di problematiche interne, essendo obiettivo primario la “ricostruzione del Tempio”. Si veda, come esempio, il “manifesto del 10 giugno 1944 diffuso a Roma, firmato da Umberto Cipollone, Giuseppe Guastalla ed Ermanno Solimene, che annuncia la rinascita del Grande Oriente d’Italia, l’adesione al Rito Simbolico, la composizione della Giunta, facente cenno alla situazione politica solo per innalzare peana alla “rinascita” dell’Italia, ma senza alcun “richiamo alle armi” (21).

Si tenta, da parte massonica, di enfatizzare il ruolo dell’Unione Nazionale Democratica Italiana nella resistenza romana. L’UNDI viene definita associazione a forte connotazione massonica, perché fondata da aderenti alla Loggia Carlo Pisacane, fondata clandestinamente da Torregiani durante il confino a Ponza (22). Ma, a parte i dubbi collegamenti di questa formazione con la Massoneria che si va ricostituendo, non è dato rilevare alcuna incisività al suo ruolo nell’organizzazione delle azioni di guerriglia. Al di là – dunque – della propaganda fascista ossessionata dalle “logge”, al di là della propaganda massonica sul “tributo di sangue dei fratelli alla lotta di liberazione”, possiamo concordare con Carlo Francovich: (23) «non vorrei minimamente negare il coraggio, il sacrificio, talvolta fino alle estreme conseguenze, di singoli “fratelli” militanti in questo o in quel partito, durante gli anni della Resistenza. Ma la massoneria come organizzazione, in Italia, fu assente».

 

Note:

1 - Il partito d’Azione nasce nel 1943, vagheggiando idee mazziniane, quale trasformazione del Movimento di rinnovamento politico e sociale italiano, movimento fondato nella clandestinità durante la guerra, con idee “liberalsocialiste” – Francesco Leoni, op. cit., pp. 481 ss. cfr. Antonio Alosco, Il partito d'azione nel regno del Sud, Guida Editori, 2002; Giovanni De Luna, Storia del Partito d'Azione, UTET, Torino, 2006.
2 - Il movimento “democrazia del Lavoro” è costituito per iniziativa di Bonomi e Meuccio Ruini dopo il “cambio della marea”. Vi confluiscono personaggi della politica prefascista di ispirazione radicale e socialriformista. Nel 1944 assumerà il nome di partito democratico del Lavoro. Cfr. Antonio Alosco, “La Democrazia del Lavoro nel Regno del Sud”, inStoria Meridionale Contemporanea, 1983-1984; Id., “Il Partito democratico del lavoro”, in Aa.Vv., Il Parlamento italiano. 1861-1988, vol. XIII, “1943-1945. Dalla Resistenza alla democrazia. Da Badoglio a De Gasperi”, Nuova Cei, Milano 1989.
3 - La Democrazia Cristiana, partito di ispirazione cattolica, nasce dalle ceneri del vecchio partito popolare nella primavera del 1943.
4 - Bonomi, “Diario di un anno”, cit., pp. 98 ss.
5 - Ibidem; Carlo Pavoni, “Una guerra civile”, Bollati Boringhieri, Torino 1994, pos. Kindle 335; Marco Patricelli, op. cit., pp. 34 ss.; Anna Bravo e Daniele Jalla, Introduzione a “La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti”, Franco Angeli, Milano 2015, p. 23.
6 - Bonomi, ibidem, pp. 108 ss.
7 - ibidem
8 - De Felice, “Mussolini, l’Alleato, II – La Guerra Civile”, cit., p. 102.
9 - op. cit., pos. Kindle 828 ss.
10 - Riteniamo ideologicamente orientata la definizione “Guerra di Liberazione”. Fu una guerra civile, di italiani contro altri italiani. La definizione di “guerra civile” può ritenersi comunque ormai un approdo storiografico consolidato. Il primo ad usare il termine è, nel 1961, Rosario Romeo, in “Il Risorgimento: realtà storica e tradizione morale”, Einaudi, Torino 1961. Ma, fino al 1975, l’espressione è utilizzata solo da storici di estrazione fascista (Pino Rauti, Giorgio Pisanò). Nel 1975, De Felice rilascia a Michael Leeden una “Intervista sul Fascismo”, pubblicata da Laterza, in cui utilizza l’espressione. Da allora, nonostante il rifiuto psicologico di molti ad accettare l’idea, gli studiosi più neutrali non hanno dubbi sul fatto che, quella combattuta tra italiani dal 1943 al 1945 ha le caratteristiche di una “guerra civile”. Come nota Ernesto Galli della Loggia in “La Morte della Patria. La crisi dell'idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica”, Laterza, Roma-Bari 2015, p. 17: «L’ostracismo comminato per tanti anni dalla storiografia repubblicana alla definizione di «guerra civile», non è stato altro … che l’esito obbligato del rovesciamento meccanico, operato dalle forze della Resistenza, della mitologia fascista del «popolo di camicie nere» nella nuova mitologia di un popolo di antifascisti». L’ultimo volume della biografia del Duce scritta da Renzo De Felice, pubblicato postumo e già citato, ha come sottotitolo “La Guerra Civile”. L’inizio del terzo capitolo, “Il dramma del popolo italiano tra fascisti e partigiani”, è dedicato proprio alle motivazioni che spinsero i combattenti dall’una e dall’altra parte (non solo tra i partigiani, come analizzate da Pavoni). E tali motivazioni furono svariate, alcune delle quali inconfessabili, come in tutte le guerre civili.
11 - Pavone, op. cit., pos. Kindle 2083.
12 - Franco Catalano, “Storia del CLNAI”, Laterza, Bari 1956, p. 57.
13 - Ibidem, p. 116.
14 - Pavone, op. cit., pos. Kindle 2655 ss.
15 - Catalano, op. cit., pp. 341 ss.
16 - Pruneti “La tradizione massonica scozzese in Italia - storia del Supremo Consiglio e della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. obbedienza di piazza del Gesù dal 1805 ad oggi” Edimai, Roma 1994
17 - Mola 1992, pp. 659 ss.
18 - Mola 2018, p. 586; id., prefazione a Zarcone, op. cit., p. 27, assume che – però – nella temperie di quegli anni, quella di Maiocco è l’unica Massoneria accreditata a livello internazionale.
19 - AUSSME, fondo SIM, “Massoneria Italiana”, citato in Zarcone, op. cit., pp. 246 ss. - cfr. la cronologia di Mola 2018, pp. 13 ss., in cui parla di “vagiti” della Massoneria tra il 1943 e la fine della guerra – sulla rissosità tra le varie comunioni Massoniche, v. Terzaghi, op. cit., p. 143,
20 - I partigiani di tendenza monarchica vengono sbrigativamente etichettati dai vari CLN come “badogliani” – sulla “resistenza monarchica”, cfr. Antonio Ratti,“L'attività delle formazioni partigiane”, in Domenico De Napoli, Antonio Ratti, Silvio Bolognini, “La resistenza monarchica in Italia (1943-1945)”, Guida 1985, pp. 63 ss.
21 - Una copia del manifesto è conservata nel Museo della Liberazione di via Tasso a Roma – cfr. Isastia, “L’eredità di Nathan. Guido Laj (1880-1948) prosindaco di Roma e Gran Maestro”, Carocci, Roma 2006, p. 157.
22 - cfr. Mauro Valeri, “A testa alta verso l’Oriente eterno. Liberi muratori nella Resistenza romana”, Mimesis, Roma 2017
23 - op. cit., p. 91.

(continua…)

Luigi Morrone per la Redazione di Ereticamente

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Fascismo e Massoneria, storia di rapporti complessi – 7^ parte – Luigi Morrone

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La massoneria italiana ed il neofascismo

Su questo argomento, chi scrive deve rifarsi alla propria testimonianza, diretta o indiretta, mancando una pubblicistica sul tema, che meriterebbe una approfondita ricerca. Subito dopo la guerra, c’è un mondo che “non ci sta” alla constatazione attribuita a Churchill (che non l’ha mai pronunziata): «In Italia c’erano 45 milioni di fascisti, ora ci sono 45 milioni di antifascisti, ma questi 90 milioni non si trovano in nessuna statistica». Il mondo che convenzionalmente viene chiamato “neofascista” è variegato, ma si può dire che si coagula nel dicembre 1946 intorno ad un partito, il MSI, che nel nome richiama l’esperienza della Repubblica Sociale (1).

Fin da subito, il MSI sancisce l’incompatibilità tra l’iscrizione al partito e la massoneria: l’art. 5 del primo statuto, approvato nel congresso di Napoli del 1948, sancisce l’incompatibilità dell’iscrizione al Movimento per gli appartenenti ad “associazioni segrete” (lettera b) o ad associazioni i cui scopi siano incompatibili con quelli del Movimento (2). Del tutto ultroneo precisare che per la “reale volontà” dei congressisti la massoneria rientra nelle une e nelle altre (3). Del tutto ultroneo, altresì, precisare che questa incompatibilità rinviene dal risentimento diffuso tra i neofascisti: l’Italia ha perso la guerra per un complotto massonico (4). Nonostante l’incompatibilità, ribadita nelle successive modifiche dello statuto, non mancano massoni iscritti al MSI (5).

Nel 1972, dopo un successo del MSI nelle elezioni amministrative parziali dell’anno precedente, comprese quelle per il rinnovo dell’Assemblea Regionale della Sicilia, Giorgio Almirante, Segretario Nazionale dal 1969, porta a termine una convergenza con i monarchici (6), a sua volta riuniti sotto il simbolo del PDIUM (Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica) con una fusione che da vita al Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale. La fusione è solo elettorale, fino al congresso del 1973, che “istituzionalizza” alla nuova formazione. Dallo Statuto, viene espunta l’incompatibilità con l’appartenenza alla massoneria. Molti esponenti del partito monarchico sono notoriamente massoni, compreso il Segretario Nazionale, Alfredo Covelli, che dopo l’8 settembre aveva combattuto quale ufficiale dell’Aeronautica contro le forze dell’Asse, per cui il passaggio è una conseguenza necessitata della fusione.

Nel 1975 si forma la “Costituente di Destra per la Libertà”, che resta estranea al movimento, pur costituendo, nelle premesse, un’evoluzione della formula “Destra Nazionale”. Numerosi esponenti di questa formazione sono massoni. Nel 1976, il MSI-DN subisce una dura sconfitta elettorale, che porta gli oppositori interni ad Almirante ad uscire allo scoperto. La “carta” giocata dai dissidenti è quella di costringere Almirante a lasciare la Segreteria spontaneamente, “sposando” una linea politica di appeasement con le forze moderate, come sarà chiaro nel dibattito congressuale, dacché Almirante è “costretto” a convocare il Congresso che per statuto si sarebbe dovuto celebrare annualmente, ma non si tiene dal 1973. Il Congresso successivo si celebra il 1977, ma i dissidenti, rendendo chiaro il loro disegno, escono dal Movimento fondando il partito Democrazia Nazionale. Al nuovo partito aderisce la stragrande maggioranza dei parlamentari del MSI, che fondano gruppi autonomi nelle due camere, ottenendo che il finanziamento pubblico previsto per i partiti in parlamento venga destinato agli “scissionisti”, nonostante la legge li destini ai soli partiti che si sono presentati alle elezioni, con un’acrobazia interpretativa della legge, secondo cui MSI e Costituente di destra per la libertà costituivano due partito autonomi, alleati in sola funzione elettorale, onde Democrazia Nazionale riesce ad avere i contributi pubblici aggiungendo al nome del gruppo quello della Costituente.

Per i missini, la scissione è frutto di un “complotto massonico”. Lo dirà Almirante davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2 (7) nell’audizione del 26 gennaio 1984 (8). Il “sospetto” è suffragato dall’elevato numero di massoni tra gli scissionisti, anche se uno solo di loro ha scalato il cursus honorum nella Fratellanza: il n. 2 della CISNaL - sindacato vicino al MSI, Domenico Manno, appartenente al Supremo Collegio dei 33 della ALAM dal 1966 (9). Sta di fatto che non tutti gli scissionisti sono massoni, e che molti massoni restano nel MSI, tra cui due proprio nella Loggia P2: Giulio Caradonna e Luciano Laffranco, quest’ultimo Presidente del FUAN – Fronte Universitario di Azione Nazionale, “commissariato” nel 1972 da Almirante, nonostante non fosse un organo di partito, ma un’organizzazione indipendente, e successivamente posto da Laffranco sotto la “tutela” dell’organizzazione giovanile missina, dominata dal capo degli scissionisti, Ernesto De Marzio. Ci sono altri aspetti, sottolineati da Almirante a sostegno del “complotto”: nel “piano di rinascita democratica” di Licio Gelli, è previsto che alla realizzazione del progetto siano coinvolti determinati partiti, “con riserva” di esaminare “la Destra” (quindi, non il MSI in quanto partito politico rappresentato in Parlamento) “puntando” al coinvolgimento di determinati uomini all’interno di essi, ed indicando, per “la Destra” Alfredo Covelli, Presidente del MSI-DN in quanto Segretario del confluente PDIUM, massone di lungo corso e fra i leaders della nuova formazione scissionista. Inoltre, l’Ammiraglio Birindelli, iscritto alla P2, presidente del MSI dal 1972 al 1974 e coinvolto dagli scissionisti nella fondazione di Democrazia Nazionale, ammette di aver parlato numerose volte con Gelli della necessità di far nascere a destra della DC un partito scevro da qualunque coinvolgimento con il fascismo e, dunque, di creare una «contrapposizione alla linea politica della segreteria per poi arrivare alla scissione ed eventualmente alla promozione di un ampio gruppo nel quale avrebbero potuto convergere esponenti di altri partiti tra cui liberali e DC» (10).

Infine, nel “piano di rinascita democratica” si progetta di usare gli strumenti finanziari idonei per provocare la nascita di un “movimento democratico” a destra della DC (11). In ogni caso, la scissione nel MSI viene ritenuta quale risultante di un “complotto” della P2 sia nella relazione di maggioranza, firmata dalla Presidente Tina Anselmi (12), sia nella relazione di minoranza dell’on. Altero Matteoli, deputato missino (13). Neanche questi argomenti appaiono decisivi, sotto molti punti di vista:
1. La loggia P2 è una loggia che mira al coinvolgimento delle persone “che contano”, perché in fondo Licio Gelli mira soprattutto ai suoi affari ed il MSI all’epoca è fuori da tutti i giochi, per effetto della formula politica dell’ “Arco Costituzionale”, che lo esclude da qualunque centro decisionale, persino a livello istituzionale (14), quindi non deve meravigliare il fatto che Gelli non pensi al MSI quale elemento da utilizzare per i suoi scopi
2. L’indicazione di Covelli, partigiano e massone come Gelli, non ha alcun significato di promozione di eventuali “trame scissioniste”.
3. Alcuni iscritti alla P2 sono nel MSI, eppure Gelli non li menziona. E resteranno nel MSI anche dopo il compimento della manovra scissionista.
4. Non risultano utilizzati gli “strumenti finanziari” preconizzati da Gelli per giungere alla scissione. Anzi, come acutamente osserva Altero Matteoli nella sua citata relazione (15), gli “strumenti finanziari” sono stati forniti agli scissionisti dalle Presidenze delle Camere (Pietro Ingrao presidente della Camera ed Amintore Fanfani Presidente del Senato), destinando ai gruppi di Democrazia Nazionale i fondi pubblici destinati al MSI.
5. Ammesso che Gelli punti alla scissione nel MSI, non significa che sia “La Massoneria” a volerlo. Abbiamo più volte avvertito che bisogna distinguere tra “il massone” e “la massoneria”. Indubbiamente, la P2 ha un’organizzazione verticistica, onde l’azione di Gelli può essere riferita alla loggia in quanto Istituzione. Ma, appunto, alla loggia, non alla Massoneria. La P2 è affiliata al GOI, ma, salvo espressi divieti, alle singole logge non è vietato di svolgere azione autonoma rispetto all’obbedienza, onde l’agire della loggia non è automaticamente riferibile alla Massoneria in quanto Istituzione.

In ogni caso, anche ad ammettere che ci siano “trame” di Gelli per provocarla, la scissione è determinata, soprattutto, dal calo del consenso elettorale, costante dopo i successi del 1971/72. La risposta a questo calo di consenso, per gli scissionisti, dev’essere quella di un “dialogo” con le altre forze, in quanto lo ritengono soprattutto frutto dell’isolamento (16). Difatti, riesce la “trama” di Gelli mirata alla scissione all’interno del MSI, mentre non riesce quella intesa a “spaccare” la DC. Superata la scissione, il MSI-DN ritorna alla sanzione di incompatibilità che perdura dal 1948. Dopo lo scoppio dello scandalo della P2, la Commissione Centrale dei Probiviri punisce duramente i due missini piduisti, pur con sanzioni conservative che non li espellono dal partito, nel quale resteranno: Laffranco fino alla morte, nel 1992, e Caradonna fino alla scomparsa del partito al congresso di Fiuggi del 1995. Gianfranco Fini e Pino Rauti, che succedono ad Almirante alla Segreteria, mantengono la sanzione di incompatibilità. Il MSI scompare al congresso di Fiuggi del 1995, in cui viene fondata una nuova formazione denominata “Alleanza Nazionale”, che nello Statuto sancisce l’incompatibilità dell’iscrizione al partito con l’adesione alla massoneria. Ma nel congresso viene approvata una mozione di adesione ai “valori dell’antifascismo”, per cui la vita di questa nuova formazione è estranea all’argomento di questo lavoro. Dopo la palingenesi del MSI, chi non approva le tesi di Alleanza Nazionale si disperde in vari gruppi che, in un modo o nell’altro, si richiamano all’esperienza fascista, ma la loro irrilevanza elettorale li rende irrilevanti, ai fini del tema qui trattato, anche sul piano della ricostruzione storica (17).

Incompatibilità tra due mondi

Perché, dopo una iniziale intesa, nasce il conflitto tra fascismo e Massoneria? La storiografia di parte massonica tende a sostenere la tesi che il fascismo abbandona la conversione con elementi massonici e passa alla repressione in quanto “ha bisogno” della Chiesa e dei Nazionalisti, che sono avversi alla Massoneria (18). I sostenitori del fascismo come risultato di un “complotto massonico”, hanno posizioni variegate, comunque ricollegabile alla tesi di fondo che le diatribe tra massoni e fascisti hanno la caratteristica del “regolamento di conti interno” alla borghesia (19). Riteniamo che le tesi difettino tutte di una visione d’insieme, soprattutto obliterando il fatto che il Fascismo è fenomeno europeo, e la “persecuzione” dei massoni sarà una caratteristica comune di tutti i regimi fascisti (cfr. supra). Come sostiene il Gran Maestro della Gran Loggia Regolare d’Italia Fabio Venzi (20) «… tanto il Fascismo quanto la Massoneria furono impegnati nella costruzione e nella proposta alla società italiana del tempo di un modello di «uomo nuovo», frutto dei rispettivi princìpi e valori … Fascismo e Massoneria … accomunate inizialmente dal medesimo intento, cioè la costruzione di una «religione della Patria» (ovviamente da un punto di vista laico), in un secondo momento proposero però due opposte visioni della società e dell’uomo. Finirono così inevitabilmente per scontrarsi, e non soltanto sul terreno della politica. Il confronto-scontro tra la Massoneria e il Fascismo non si limitò infatti alla proposta di soluzioni politiche diverse, ma si accompagnò a concezioni antitetiche della vita e dell’individuo». Dunque, scontro tra Weltanshauung. Massoneria e Fascismo propongono visioni antitetiche sia nella prassi politica, sia nella concezione del destino dell’Uomo.

L’antitesi politica tra fascismo e massoneria non è, tanto, nella vis anti-democratica del fascismo contrapposta alla scelta democratica della Massoneria che, come abbiamo visto, ha molte sfaccettature. È la concezione stessa della politica che è antitetica. Il Fascismo recupera la dimensione “universale”, in un’accezione diametralmente opposta a quella della Massoneria. L’Universalismo Massonico è il dissolvimento di tutte le identità collettive nell’unico centro di riferimento delle identità individuali. L’Universalismo Imperiale è l’universalizzazione di un’Idea, all’interno della quale si conservano le identità collettive. L’Universalismo della Massoneria è figlio dell’Universalismo della Rivoluzione Francese e del Mito della Repubblica Universale. L’Universalismo Fascista è figlio dell’Idea Imperiale che trascendeva in un’Idea unificatrice, senza annullarle nell’indefinito, le identità etniche e culturali: «Il problema dell’impero, nella sua espressione più alta, è quello di una organizzazione supernazionale tale, che in essa l’unità non agisca in modo distruttivo e livellatore nel riguardo della molteplicità etnica e culturale da essa ricompresa» (21).

Anche sull’idea di Nazione Fascismo e Massoneria sono del tutto antitetici. Come detto, l’adesione della Massoneria ai movimenti nazionalistici a cavallo tra il XIX ed il XX secolo è determinato dalla coincidenza tra le aspirazioni patriottiche ed alcuni obiettivi massonici, l’abbattimento dell’ancien Regime nel XIX secolo e l’affermazione definitiva dell’agnosticismo statale nel XX. L’idea di Nazione ottocentesca, che si afferma grazie all’azione costante della Massoneria nella manipolazione dell’opinione pubblica, fa sì che «le nazioni organiche, comunità di terra, di stirpe e di cultura, [furono] espropriate non solo del territorio e dei popoli, ma anche del nome di nazione che lo Stato borghese si annesse per conquistare l’adesione popolare» (22). La mobilitazione massiccia della Massoneria a sostegno dell’interventismo nella I Guerra Mondiale è – come si è detto –determinato dalla necessità di “cavalcare l’onda” del patriottismo montante, e da quella di eliminare gli ultimi residui tradizionali rinvenibili negli Imperi Centrali (23). A proposito della mobilitazione contro gli austro-tedeschi, dice nel 1914 uno dei dignitari del GODF, André Lebey: «La lotta attuale è la continuazione di quella cominciata nel 1789» (24) E, il 13 maggio 1917, all’apertura della conferenza massonica di Lisbona, il Gran Maestro del Grande Oriente Lusitano Unido, Sebastião de Magalhaes de Lima, dichiara: «La vittoria degli Alleati segnerà il trionfo degli ideali massonici» (25).

Il nazionalismo massonico, insomma, è solo strumentale e viene cavalcato per altri fini. Non solo, ma la capacità massonica di orientare l’opinione pubblica e la cultura, “espropria” l’idea di nazione dei suoi elementi più pregnanti, di “comunità di popolo”, per stemperarla in un vuoto naturalismo utilizzato al solo fine di legittimare il potere borghese, di contro al legittimismo monarchico. Che una tale concezione della Nazione sia antitetica rispetto a quella perseguita dal Fascismo è chiaro nella sottovoce “Dottrina del Fascismo” della Voce “Fascismo” sull’Enciclopedia Italiana del 1932, in cui si legge: «[il Fascismo è] concezione spiritualistica, sorta anch'essa dalla generale reazione del secolo contro il fiacco e materialistico positivismo dell'Ottocento … il fascismo è contro tutte le astrazioni individualistiche, a base materialistica, tipo sec. XVIII; ed è contro tutte le utopie e le innovazioni giacobine … il fascismo è contro la democrazia che ragguaglia il popolo al maggior numero abbassandolo al livello dei più … Non è la nazione a generare lo stato, secondo il vieto concetto naturalistico che servì di base alla pubblicistica degli stati nazionali nel sec. XIX. Anzi la nazione è creata dallo stato, che dà al popolo, consapevole della propria unità morale, una volontà, e quindi un'effettiva esistenza. Il diritto di una nazione all'indipendenza deriva non da una letteraria e ideale coscienza del proprio essere, e tanto meno da una situazione di fatto più o meno inconsapevole e inerte, ma da una coscienza attiva, da una volontà politica in atto e disposta a dimostrare il proprio diritto: cioè, da una sorta di stato già in fieri. Lo stato infatti, come volontà etica universale, è creatore del diritto» (26).

Sul piano squisitamente politico, il discrimine tra Fascismo e Massoneria è costituito, senza dubbio, dalla Rivoluzione Francese, che, come abbiamo detto, costituisce l’ “asse portante” dell’azione politica massonica, mentre il Fascismo si pone in antitesi. Lo dice il Duce il 7 aprile 1926, nel discorso per l’insediamento del nuovo direttorio del PNF (è appena scampato all’attentato della Gibson): «Noi rappresentiamo un principio nuovo nel mondo, noi rappresentiamo l'antitesi netta, categorica, definitiva di tutto il mondo della democrazia, della plutocrazia, della massoneria, di tutto il mondo, per dire in una parola, degli immortali principi dell’ ‘89». Ma non lo “dice” soltanto. Tutta l’azione politica del Fascismo è in antitesi con gli “immortali principi”. Per i principi del 1789, lo “Stato di Diritto” significa che è il diritto a creare lo Stato, per il Fascismo, è lo Stato a creare il Diritto (27).

Ma è soprattutto sulla escatologia che fascismo e Massoneria sono antitetici. La Massoneria ha una concezione lineare della Storia, secondo una visione dell’andamento progressivo della “Civiltà”, il Fascismo ha una concezione circolare, fondato sul mito della Roma Eterna (28). Come detto, però, le antitesi tra Fascismo e Massoneria non sono soltanto sul piano più prettamente politico, ma nella concezione stessa dell’Uomo e del suo Destino. Al centro dell’azione massonica c’è l’individuo. Al centro della concezione fascista c’è lo Stato. Il Fascismo vuole costruire l’Uomo Nuovo, ma al di là del solipsismo del cammino iniziatico, che pure non è escluso dall’esperienza Fascista (29): l’individuo non è al centro della Weltanschauung fascista. Si legge, a tal proposito, nella citata voce sull’Enciclopedia italiana: « Il mondo per il fascismo non è questo mondo materiale che appare alla superficie, in cui l'uomo è un individuo separato da tutti gli altri e per sé stante, ed è governato da una legge naturale, che istintivamente lo trae a vivere una vita di piacere egoistico e momentaneo. L'uomo del fascismo è individuo che è nazione e patria, legge morale che stringe insieme individui e generazioni in una tradizione e in una missione, che sopprime l'istinto della vita chiusa nel breve giro del piacere per instaurare nel dovere una vita superiore libera da limiti di tempo e di spazio: una vita in cui l'individuo, attraverso l'abnegazione di sé, il sacrificio dei suoi interessi particolari la stessa morte, realizza quell'esistenza tutta spirituale in cui è il suo valore di uomo … Il fascismo è una concezione religiosa, in cui l'uomo è veduto nel suo immanente rapporto con una legge superiore, con una Volontà obiettiva che trascende l'individuo particolare e lo eleva a membro consapevole di una società spirituale … Il fascismo è una concezione storica, nella quale l'uomo non è quello che è se non in funzione del processo spirituale a cui concorre, nel gruppo familiare e sociale, nella nazione e nella storia, a cui tutte le nazioni collaborano».

Non è solo nell’enunciazione dei principi che il Fascismo vuole l’ “Uomo Nuovo” descritto in queste parole. Il Fascismo istituisce una vera “religione” (non “religione laica”, come pretenderebbero i Massoni: religione, nel senso più alto del termine 30), con i suoi miti, i suoi riti. Tutto deve muoversi secondo precisi rituali, nulla è lasciato all’iniziativa individuale perché «… se non organizzati alla perfezione, i rituali avrebbero potuto compromettere la serietà del simbolismo liturgico e mettere a rischio la funzione socializzante e pedagogica che il regime assegnava loro» (31) Ed è esatto ricondurre la lotta tra Fascismo e Massoneria, come delineata nei capitoli precedenti, ad una “guerra di religione” (32), tra due “religioni”, l’una (la Massoneria), laica e immanentista, l’altra (il Fascismo), sacrale, fondata sulla trascendenza dello Stato.

Note:
1 - Gruppi e gruppuscoli sono variegati, ma esamineremo il “caso MSI”, in quanto le altre esperienze, da un punto di vista storiografico, sono trascurabili, nonostante chi scrive abbia aderito a movimenti che nella semplificazione corrente vengono definiti “di estrema destra”.
2 - In assenza di un quotidiano “ufficiale” – “Il Secolo d’Italia” nascerà nel 1952, come quotidiano “d’area” e solo nel 1963 diventerà organo del Movimento - dobbiamo rifarci alla pubblicazione dello Statuto su “Rivolta Ideale”, periodico della “galassia” neofascista i cui redattori contribuirono ai primi passi del MSI – cfr. Giuliana de’ Medici – “Le origini del MSI – Dal clandestinismo al primo congresso”, ISC, Roma 1986, pp. 129 ss. – lo statuto del 1948 è pubblicato in appendice.
3 - Per De Felice – voce “Massoneria” su NDI, cit., anche l’art. 18 Cost. nelle “associazioni segrete” farebbe rientrare anche la Massoneria.
4 - Nei confronti degli ebrei, invece, il MSI è fin da subito su linea opposta a quella di Preziosi: in politica internazionale è favorevole a Israele fin dalla sua creazione – cfr., tra gli altri, Giuseppe Parlato, “La Destra e il razzismo - Neofascismo italiano e questione razziale”, in Passato e Presente, RomaTre press, 2016, pp. 155 ss.
5 - Sandro Saccucci, che nel 1956 era uscito dal MSI, lo dirà nel 1971 al Giudice Istruttore del “Golpe Borghese”.
6 - Fin dalla fondazione, il MSI dibatte sulla questione istituzionale. L’opzione repubblicana è prevalente, atteso il risentimento fascista nei confronti della Monarchia, ritenuta responsabile delle due “vergogne nazionali” (25 luglio e 8 settembre), ma non viene mai esplicitata nello statuto.
7 - Una loggia coperta fondata dall’ex partigiano Licio Gelli. Non è questa la sede per analizzare il fenomeno P2, su cui la pubblicistica è vastissima, e, onestamente, per la stragrande maggioranza, priva di scientificità, puntando più allo “scandalo” che alla rigorosa ricostruzione storica.
8 - Atti della Commissione: Allegati alla relazione di maggioranza, pp. 108 ss.
9 - cfr. il necrologio pubblicato il 15 febbraio 2016 su “Acacia Magazine”, organo della Gran Loggia Unita d’Italia.
10 - Testimonianza giudiziaria di Luigi Birindelli, trascritta nella relazione di maggioranza della Commissione, in Atti della Commissione: Relazione di maggioranza, pp. 144 ss.
11 - ibidem
12 - ibidem
13 - Atti della Commissione: Relazione di minoranza dell’on. Altero Matteoli, pp. 142 ss.
14 - Piero Ignazi, “Il Polo escluso”, Il Mulino, Bologna 1989 fornisce l’analisi più completa di tale situazione venutasi a creare alla metà degli anni 70.
15 - p. 144
16 - cfr. Piero Ignazi, op. cit. Con un’autocitazione, chi scrive, all’epoca fuori dal MSI, dice ai sostenitori del “complotto massonico”: «Ma quale complotto! Questi non vedono l’ora di sedersi a tavola!». L’esperienza successiva, dimostrerà che si tratta di una facile profezia. Spariti i demonazionali per il tonfo alle politiche del 1979, a molti di loro saranno conferiti incarichi di sottogoverno. 15 anni dopo, Alleanza Nazionale si dimostrerà capace solo di spartirsi il potere ed inetta ad esprimere una linea politica originale.
17 - Tra questi gruppi fortemente minoritari, l’unico ad eleggere rappresentati in parlamento è quello fondato dall’ex segretario del MSI Pino Rauti.
18 - sull’influsso del Vaticano, ex plurimis: Di Luca, op. cit., p. 128; Conti, “La Massoneria e la costruzione della nazione italiana dal Risorgimento al fascismo”, cit., pos. Kindle 959 ss.; sull’influsso dei nazionalisti e sulla iniziale “sottovalutazione” di tale influsso da parte dei massoni, Mola 1992, pp. 505 ss. Mola 2018, pp. 632 ss.; sull’influenza incrociata di entrambi, Melfa, op. cit., pos. Kindle 2007 ss.
19 - A partire dal citato intervento parlamentare di Gramsci.
20 - Venzi, op. cit., pos. Kindle 20-21.
21 - Julius Evola, “Saggi di dottrina politica – crestomazia di saggi politici” a cura di Renato Del Ponte, Edizioni Mizar, Sanremo-Imperia, 1979, p.162. D’altra parte, il Duce, nel discorso per la Fondazione dell’Impero del 9 maggio 1936 dice: «Impero di civiltà e di umanità per tutte le popolazioni dell'Etiopia. Questo è nella tradizione di Roma, che, dopo aver vinto, associava i popoli al suo destino».
22 - Claudio Risé, “Julius Evola, o la vittoria della Rivolta”, Saggio introduttivo alla quarta edizione di Julius Evola, “Rivolta contro il Mondo Moderno”, Mediterranee, Roma 2007, p. 21.
23 - Sulla contraddittorietà tra l’interventismo delle due maggiori obbedienze massoniche italiane e l’aspirazione della Fratellanza alla Repubblica Mondiale del Libero Muratore, cfr. Conti, “Da Ginevra al Piave. La massoneria italiana e il pacifismo democratico (1867 - 1915)”, in “Partiti e movimenti politici fra Otto e Novecento. Studi in onore di Luigi Lotti”, a cura di Sandro Rogari, Centro editoriale toscano, Firenze 2004, tomo primo; si ricorda che Gustavo Canti chiama la Prima Guerra Mondiale “Guerra di Redenzione”. Sulla “Repubblica Universale del Libero Muratore” vagheggiata dalla Massoneria nel guidare la Rivoluzione Francese, cfr. Conti, “Massoneria e religioni civili: cultura laica e liturgie politiche fra XVIII e XX secolo”, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 101 ss.
24 - “Révue Socialiste”, déc. 1914, in francese nell’originale, traduzione a cura di chi scrive, tra gli altri, da Philippe Ploncard d'Assac, “La Maçonnerie”, Société de Phlosophiepolitique, Lagarde 2012, p. 52 e da Vannoni, op. cit., p. 18.
25 - cfr. d’Assac, op. cit.
26 - La voce è anonima, ma la parte “Dottrina del Fascismo” si può attribuire con tranquillità al Duce in persona, stante l’inconfondibile stile con cui è redatta.
27 - Secondo gli esaltatori della Rivoluzione Francese, sarebbe stato l’Illuminismo a creare il concetto di “Stato di Diritto”, ma bisogna scrollarsi di dosso tale pregiudizio. Lo “Stato di Diritto” è lo Stato creato dai Romani, i cui principi basilari possono riassumersi nel passo ciceroniano (Pro Cluentio, 146): «Tu mihiconcedas necesse est multo esse indignius in ea civitatequaelegibuscontineaturdiscedi ab legibus. Hoc enim vinculum est huius-dignitatis qua fruimur in re publica, hoc fundamentumlibertatis, hic fons aequitatis; mens et animus et consilium et sententiacivitatisposita est in legibus. Ut corporanostra sine mente, sic civitas sine lege suis partibus ut nervis ac sanguine et membrisuti non potest. Legum ministri magistratus, leguminterpretesiudices, legumdeniqueidcircoomnes servi sumus ut liberi esse possimus» («Concedimi che è necessario che non ci sia nulla di più indegno in una comunità, regolata da leggi, che queste leggi siano violate. Infatti, questo vincolo è di quella dignità che noi utilizziamo nell’agire nell’ambito di uno Stato, questo è il fondamento della libertà, questa la fonte dell’equità; la mente e l’anima e la saggezza ed il corretto agire di una comunità ha sede nelle leggi. Così come il nostro corpo senza la mente non può usare i nervi il sangue e le sue membra, così una comunità senza leggi non può usare le sue parti. Coloro che ricoprono cariche pubbliche devono rispettare le leggi, i giudici devono interpretarle. Insomma, proprio per quanto detto, dobbiamo essere servi delle leggi affinché possiamo essere liberi»).Identico concetto espresso da Platone, soprattutto in Crit., 50a-51c; Rep., I, 338a – 345c.
28 - Nella citata voce “Dottrina del Fascismo”, si legge: «… il fascismo è contro tutte le astrazioni individualistiche, a base materialistica, tipo sec. XVIII; ed è contro tutte le utopie e le innovazioni giacobine. Esso non crede possibile la «felicità» sulla terra come fu nel desiderio della letteratura economicistica del '700, e quindi respinge tutte le concezioni teleologiche per cui a un certo periodo della storia ci sarebbe una sistemazione definitiva del genere umano».
29 - Sull’esoterismo fascista cfr. i già citati “Esoterismo e fascismo: storia, interpretazioni, documenti”, a cura di Gianfranco De Turris, e Galli, “Magia e potere”, pp. 208 ss.
30 - Cic., Nat. deo., II, 72
31 - Venzi, “Massoneria e fascismo …”, cit. ,pos.Kindle 522-523.
32 – ibidem.

(Fine)

Luigi Morrone per la Redazione di Ereticamente

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Il Galeazzo Ciano dello storico Eugenio Di Rienzo – Luigi Morrone

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La casa editrice Salerno, piccola, ma ricca di titoli prestigiosi, pubblica un af-fresco su trent’anni e più di storia d’Italia racchiusi in una poderosa biografia del “genero del regime”, Galeazzo Ciano, scritta da Eugenio Di Rienzo, già autore delle biografie di Gioacchino Volpe e Napoleone III, nonché di accurati studi sul fascismo, privi del furore ideologico che purtroppo spesso caratterizza gli storici italiani. Il libro è destinato senz’altro agli specialisti o ai veri appassionati di storia, ma per il suo stile narrativo serrato, che l’Autore ha già dimostrato altrove, può essere gradito anche al grande pubblico, potendosi tranquillamente leggere come un romanzo. La vita di Galeazzo Ciano viene studiata nel contesto in cui si sviluppa, dall’inizio del secolo scorso fino alla tragica fucilazione a Verona. Si ricorda rapidamente la figura del padre, l’eroe di guerra Costanzo Ciano, uno dei protagonisti di Buccari, prima nazionalista, poi gerarca fascista.

La parabola di Galeazzo comincia da lì: da una pesante eredità che lo obbliga o a sparire dell’oblio o a tentare di esserne degno, a dispetto dell’epiteto di “sciocco di genio” affibbiatogli dal “bel mondo” romano. Nella spola tra Cina ed Italia, che caratterizza gli anni della gioventù di Galeazzo, s’intravvede di già quello che diventerà il nodo centrale dell’azione di Galeazzo: conquistare la fiducia degli ambienti vaticani che, come si vedrà in seguito, gli consentirà di giocare alla meglio le sue virtù camaleontiche nelle calde giornate del 1943. Facendo leva sulla sua avvenenza, riesce a conquistare il cuore di Edda Mussolini, la figlia prediletta del Duce, divenendo così il “genero del regime”. In disparte il rapporto di “coppia aperta” tra Galeazzo ed Edda, con i reciproci adulteri consumati in modo aperto, il ruolo di genero del Duce comincia ad apparire a Ciano jr. come un trampolino di lancio verso la preparazione della successione al suocero nel ruolo di Duce del Fascismo, tanto da far coniare a qualcuno per lui l’epiteto di “quasi Duce”, determinato anche da atteggiamenti di ridicola scimmiottatura degli atteggiamenti mussoliniani. Il ruolo di ministro degli esteri ricoperto da Ciano dal 1936 al 1943 fa coincidere la sua biografia di quegli anni con l’esame della politica estera fascista, già oggetto di studi da parte dell’Autore in lavori precedenti (“Una Grande Potenza a solo titolo di cortesia”; “Il «Gioco degli Imperi», la Guerra d’Etiopia e le origini del secondo conflitto mondiale”; “Le Potenze dell’Asse e l’Unione Sovietica, 1939-1945”). Lo snodo fondamentale del libro è comunque racchiusonella accurata disamina del periodo a cavallo tra la fine degli anni 30 e l’inizio degli anni 40. Qui Di Rienzo, con acribia nella disamina delle fonti, scrive una pietra miliare nella storiografia, superando la ricostruzione di quei fatti da parte di studiosi di grande spessore come Renzo De Felice ed Emilio Gentile.

“Incrociando” le fonti, Di Rienzo riesce ad individuare il comportamento da doppiogiochista tenuto da Ciano fin dal 1938, comportamento che tende ad accreditarsi con gli ambienti vaticani (e, dopo, con gli ambienti alleati), quale contraltare al bellicismo del suocero. In realtà, è lo stesso Mussolini che, dopo l’inizio della guerra tra Germania da una parte, UK e Francia dall’altra, a tentare di evitare il coinvolgimento dell’Italia nel teatro di guerra, ma Ciano al di là del Tevere racconta un’altra storia: il suocero vuole la guerra a tutti i costi ed è lui a frenarlo. Ed è lo stesso Ciano a volere, in prima persona, l’operazione in Grecia, e nei suoi rapporti con gli ambienti vaticani la presenta come iniziativa fortemente voluta dal Duce. I gerarchi, però, conoscono bene la verità, dopo il fallimento militare dell’operazione reclamano la testa di Ciano con veemenza e solo l’influenza di Edda nei confronti del padre salva il marito dalla resa dei conti.

Come aveva fatto fin da giovane, Ciano è talmente abituato a mentire che mente a sé stesso, confezionando dei diari che, in termini giuridici, potrebbero essere qualificati come “falso ideologico”, scrivendo una versione dei fatti ad usum delphini, onde accreditarsi anche riguardo ai posteri come l’incarnazione dell’anima “ragionevole” del fascismo, in contrapposizione a quella dei Farinacci e degli Starace. La falsificazione consapevole è colta da Di Rienzo verificando la contraddizione tra le annotazioni di Ciano nel diario e quel che emerge da altre fonti non “inquinate” dall’animus mentiendi del “quasi Duce”. Nelle giornate concitate del 1943, viene fuori tutto lo spirito camaleontico di Ciano. Egli è convinto che, dopo il volversi delle operazioni belliche in favore degli alleati, è scontata la sconfitta dell’Italia, ed intensifica i suoi collega-menti con le diplomazie degli alleati e dei paesi neutrali, compresa la diplomazia vaticana, tanto da essere indicato dai servizi segreti alleati come l’uomo su cui puntare, attraverso il Vaticano, per giungere ad una “pace separata” tra Italia ed Alleati.

Ma nelle trame ordite per rovesciare il Duce, Ciano resta indeciso fino alla fi-ne, “giocando” su più tavoli, e pencolando tra Palazzo Venezia da una parte e servizi alleati, Vaticano, Casa Reale (pur nella titubanza del re), Stato Mag-giore e conventicole dei gerarchi ribelli dall’altra. Tutto ciò fino al 23 luglio, quando si decide a partecipare al “colpo di Stato” che sarà consumato nella notte tra il 24 ed il 25 luglio, avendo ormai la percezione che i “congiurati” a-vranno partita vinta. Le trame sono meticolosamente ricostruite da Di Rienzo, che supera così la storiografia sul 25 luglio, anche la più accreditata, come il penultimo volume della biografia mussoliniana di Renzo De Felice e la più recente monografia di Emilio Gentile sui percorsi che sfociano in quel “colpo di stato”. La vita del “genero di regime” si conclude tragicamente, in quell'11 gennaio 1944, al poligono di tiro di forte San Procolo, fucilato insieme agli altri “traditori del 25 luglio” che i militi della RSI erano riusciti a catturare.

Paradossali le vicende della cattura di Ciano, che Di Rienzo racconta con lo stile narrativo di cui si è detto. Un libro da leggere perché, come detto, è un libro per tutti: gli specialisti dovranno fare i conti con esso in quanto non potrà essere ignorato da nessuno che si occupi del ventennio, soprattutto per la politica estera fascista, per le vicende belliche, per il tragico epilogo del regime; gli appassionati di storia, troveranno tante risposte agli interrogativi che si pongono. Il grande pubblico leggerà la parabola di Ciano come paradigma di tutti gli ingannatori tanto adusi ad ingannare, da arrivare ad ingannare sé stessi.

Luigi Morrone

Fonte: Il Quotidiano (con l'autorizzazione dell'autore)

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Chi dimentica il passato… – Claudio Antonelli 

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Costantemente ci è proposto l’obbligo di ricordare certe tragedie storiche “affinché il passato non ritorni”.

“Chi dimentica il passato è condannato a ripeterlo.” Una sua variante: la storia ripete se stessa “la prima volta come tragedia, la seconda come farsa.” 

“Condannati a ripetere il passato”… Ma quale passato? “La storia si ripete…” Ma quale storia? Un avvenimento, un fatto, un episodio? O l’insieme degli avvenimenti storici di un dato periodo, di un’intera epoca? Dovremmo allora costantemente ricordare i bombardamenti atomici sul Giappone, il massacro degli indiani d’America, gli schiavi africani, il genocidio armeno, le guerre di religione, l’imperialismo sovietico, i continui interventi armati americani… Non basterebbero i giorni dell’anno per queste rievocazioni che non dovrebbero trascurare nessuna atrocità. Ma almeno cosi’ nulla piu’ d’orribile  si ripeterebbe… 

In realtà, la cosa non funziona. Un paio di esempi. Dopo il crollo del comunismo, la Jugoslavia si è disgregata nel sangue con tremendi scontri tra le sue componenti etniche.  E ricalcando direi fedelmente un suo copione antico, a me particolarmente familiare. L’Occidente si ostina a voler imporre agli altri  la sua religione dei diritti umani, e lo fa attraverso le canne dei fucili, gli aerei e i droni da bombardamento, vedi l’Iraq, l’Afghanistan, la Libia… Il catechismo dell’Islam promuove la guerra di religione, eppure noi accogliamo col cuore in mano l’Islam dei “disperati”. 

L’immunizzazione attraverso il parlare sarebbe forse possibile se ci fosse un rapporto fisso tra cause ed effetti. Ma è quasi impossibile risalire alle cause di certi “risultati”, di certi “effetti”, di certe “conseguenze”. Ogni evento storico provoca una serie di effetti che si mescolano agli effetti causati da altri eventi. Insomma è molto difficile stabilire il grado di similitudine tra due eventi distanziati nel tempo. Non vi sono formule matematiche applicabili alla storia, dove regna l’imprevedibilità.

La storia in realtà non si ripete. E oltre tutto se un evento funesto sembrasse ripetersi, esso sarebbe una tragedia anche la seconda volta, e non una “farsa” come suggerisce invece il detto di Marx.

L’individuo, certamente, dovrebbe cercare di conoscere la Storia, ma soprattutto dovrebbe applicarsi a non ripetere i tanti errori, non storici ma umani, che lui commette con assiduità. Ma c’è gente che continua a fumare pur conoscendo i guasti alla salute che il fumo procura. E cosi’ si dovrebbe smettere di mangiare troppo perché l’obesità ci danneggia. Ma vi alzate voi da tavola prima di sentirvi sazi? No? Neppure io, ma sarebbe utile farlo. Gli automobilisti italiani dovrebbero tutti guidare tenendo la cintura di sicurezza allacciata. Ma lo fanno? 

Ma quali sono gli antecedenti storici di certi avvenimenti odierni che noi temiamo stiano per avvenire con tragiche conseguenze sul presente e sul  futuro di tutti noi? Il furbo italiano (e non solo l’italiano…), pesantemente condizionato dall’ideologia, abile nel fiutare il vento e gran campione del “parlare per parlare”, non si sbizzarrisce nei suoi accostamenti storici; ma segue il copione stabilito dai padroni del discorso, i quali applicano una serie di rigorosi filtri al passato, e ci bombardano quotidianamente con continui allarmi su cose che da tempo non esistono piu’. 

Ma solo a voler sfumare certe verità rivelate con i suoi annessi dogmi si rischia l’accusa di “revisionismo”, e anche peggio.

Il “nostro”, sempre al passo coi tempi, avrebbe certamente fatto parte ieri del coro di quei cattivi  che lui oggi condanna. Oggi unisce invece la propria voce  al coro odierno, diretto ormai da altri maestri. Ed è il Bolero di Ravel…

“Chi dimentica il passato è condannato a ripeterlo.” La storia ripete se stessa “la prima volta come tragedia, la seconda come farsa.”

Oggi  è il pensiero unico – lo spirito dei tempi –  a stabilire cosa occorra ricordare in quel marasma di violenze, sopraffazioni, ingiustizie che ha accompagnato la storia dell’uomo dai tempi di Adamo ed Eva fino ai nostri giorni. E che non ha rispettato nessun continente, popolo, tribu’…

Attraverso le citate frasi fatte si vogliono  attribuire ai nostri avversari di oggi le storture compiute da altri in quel lontano passato che noi crediamo di ricordare cosi’ bene. Cosa volete, alla gente piace lanciare anatemi su avvenimenti trascorsi da decenni o da secoli e che non c’entrano assai poco con quanto sta avvenendo oggi, ma che sono molto utili per il discorso moralistico-ideologico che si vuole “portare avanti” a tutti i costi. Da qui anche il continuo antifascismo a tutto campo proclamato dai discendenti di un popolo di ex camicie nere.

Il Nostro è convinto di aver capito tutto dell’oggi e dell’ieri, e cio’ gli dà  la sensazione inebriante di avere il vento della storia nelle vele. Sensazione che ogni  buon intellettuale di sinistra aveva fino a ieri, quando prospettava i tribunali del popolo per il futuro degli italiani. Oggi si è riciclato in un mondialista antipopulista che ama l’umanità come piu’ non si puo’, ma che odia a morte gli “estremisti” che non condividono questa sua travolgente passione per il “Diverso”. 

La sacrosanta volontà di mai piu’ ripetere le leggi razziali e la Shoah non dovrebbe necessitare di cori infiniti. Ma continua ad essere affermata in uno straordinario crescendo alla Bolero di Ravel. Il sacrosanto “Never again”, cui tutti noi aderiamo con la mente e col cuore,  non ha impedito né il lancio delle bombe atomichesulla popolazione civile giapponese, né la lunga teoria d’interventi militari e di guerre condotte dal dopoguerra fino ad oggi, né che i gulag sovietici continuassero la loro attività anche dopo la fine della guerra, né che metà Europa cadesse sotto le grinfie sovietiche. Né ha impedito agli Hutu di massacrare i Tutsi, né a Pol Pot di eliminare una parte del suo popolo, né a Mao di devastare la Cina. Né alle nostre Brigate Rosse di processare e uccidere i nemici del popolo. Né tampoco ai nostri sinistri di applaudire questi loro eroi.

 Il dittatore comunista cambogiano ha operato senza suscitare eccessivi allarmi in Occidente, anzi trovando solidarietà e simpatie presso certi progressisti nostrani, intrisi di spirito rivoluzionario, ed ammalati di “uguaglianza” ad ogni costo. E incapaci di capire il presente, proprio perché rimasti immobili, in trance, a presidiare le barricate del passato contro i cattivi di un tempo, morti e sepolti, e di cui è stata stramaledetta la memoria. E ai quali si è automaticamente associati, venendo tacciati di pericoloso revisionismo, a voler modificare una sola virgola alla vulgata del lieto fine della seconda guerra mondiale. 

Ma si’ ricordiamoci del passato, e assieme al nazismo, e al Mein Kampf, condanniamo quel degenerato marxismo-leninismo – il socialismo reale – in virtu’ del quale sono stati imprigionati, terrorizzati, massacrati milioni di esseri umani. Né dimentichiamo gli stermini di gente inerme, di qualunque orientamento politico e di qualunque identità nazionale siano stati i loro perpetratori. 

Insomma, se dobbiamo basarci sul passato, prendiamo tutto il passato, senza fare piu’ distinzioni né tra i vari campi della morte né tra gli incolpevoli massacrati. E  non limitiamoci al tempo di guerra, perché quelli comunisti hanno prosperato anche in tempo di pace. E soprattutto cessiamo di considerare come nostro manuale di storia quella fabbrica di ruoli etnici e di verità assolute che è Hollywood, diretta da produttori e registi gran campioni d’incassi e insuperati maestri di  effetti speciali. I quali, si ignora perché, non si sono mai interessati né a Stalin né ai gulag.

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Come l’Italia si giocò il ruolo di grande potenza – Francesco Lamendola

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Il club della grandi potenze, nella prima metà del XX secolo, comprendeva l’Italia, specialmente dopo la scomparsa dell’Austria-Ungheria e la partecipazione italiana alla vittoria dell’Intesa nella Prima guerra mondiale. La decisione del nostro Comando Supremo di rinviare per più di quattro mesi l’offensiva sul Piave, dopo l’insuccesso austriaco nella Battaglia del Solstizio del giugno 1918, ebbe il suo peso nel far apparire come non decisiva la vittoria sul fronte italiano, mentre la verità è che essa fu realmente decisiva. Infatti la Germania si arrese – l’ammissione è del generale Ludendorff – quando, in seguito al crollo dell’Austria, si trovò con il fianco meridionale scoperto e l’esercito italiano in condizioni di proseguire la marcia da Trento e Bolzano, attraverso il Brennero, fino al cuore della Germania stessa. Il ritardo nell’offensiva finale compromise fatalmente la posizione della delegazione italiana a Versailles, indebolendo la forza diplomatica dell’Italia, sicché Orlando e Sonnino vennero trattati come parenti poveri da Clemenceau, Lloyd George e Wilson, liberi ormai di disporre del mondo a loro piacimento. Ad ogni modo, qualche anno dopo l’Italia ottenne la parità negli armamenti navali con la Francia, per cui la Marina italiana entrò nel gruppo delle cinque marine da guerra più potenti del mondo. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, sia la Germania che l’Unione Sovietica si erano rialzate dal tracollo di vent’anni prima ed erano di nuovo potenze di prima grandezza; e benché l’Italia non potesse certo sostenere un confronto sul piano della forza militare o industriale con simili giganti, pure il possesso di una grande marina, unito alla conquista dell’Impero, ne faceva comunque una delle grandi potenze mondiali, sicché il 27 settembre del 1940 l’Italia poté firmare il patto Tripartito con la Germania e il Giappone su un piano di assoluta parità formale con esse. Del resto, nemmeno il Giappone possedeva le materie prime strategiche, e quanto all’industria, era ben lungi dal poter competere con quella statunitense, o russa, o britannica. I capi politici e militari del Giappone avevano però una cosa che faceva difetto ai loro colleghi italiani: una chiara concezione strategica per fare del loro Paese una grande potenza non solo nominale, ma effettiva. La grande marina giapponese era destinata ad essere gettata nella lotta senza riguardi, ma badando unicamente alla meta da raggiungere: il dominio del Pacifico. E quel dominio, a sua volta, aveva una ragione precisa: assicurare alla madrepatria le materie prime strategiche per rendere il Giappone autonomo dal punto di vista industriale, a cominciare dal combustibile. I capi politici e militari dell’Italia, invece – e questa è una precisa responsabilità del fascismo – si cullarono nello status teorico di grande potenza e pretesero di fare una politica da grande potenza, senza avere non solo i mezzi di una vera grande potenza, ma senza averne neppure una chiara concezione strategica. Le trasvolate atlantiche di Italo Balbo, ad esempio, avevano creato l’impressione che l’Italia fosse all’avanguardia nella nuova arma aerea; invece, quando si arrivò al dunque, si vide che era stata curata l’apparenza, ma non la sostanza, che è fatta di continui aggiornamenti tecnologici. I nostri aerei che andarono a bombardare l’Inghilterra apparvero agli alleati tedeschi come veri pezzi da museo; e a subire l’incursione degli aerosiluranti a Taranto fu l’Italia, la cui flotta subì un colpo durissimo, proprio come gli Stati Uniti subirono quella di Pearl Harbor, con la differenza che l’Italia, come il Giappone, aveva scelto di entrare in guerra contro un nemico già impegnato nella lotta, ma, a differenza del Giappone, non aveva saputo sfruttare il fattore sorpresa. Se i capi politici e militari dell’Italia avessero avuto una chiara concezione strategica, avrebbero sferrato subito, nell’estate del 1940, il colpo su Malta, che avrebbe reso la marina italiana padrona del Mediterraneo, proprio come i giapponesi sferrarono subito il colpo su Singapore: la flotta britannica di Gibilterra e quella di Alessandria si tenevano già pronte a evacuare il Mediterraneo. Non lo fecero quando si resero conto che l’Italia aveva dichiarato guerra, ma non aveva nessuna voglia di farla. Se l’Italia avesse preso Malta e Suez nei primi mesi di guerra, l’intero conflitto avrebbe avuto un andamento completante diverso, a noi molto più favorevole.

Ma per essere una grande potenza, bisogna che i capi possiedano una mentalità da grande potenza; cosa che non solo non avveniva, ma la realtà era tutto il contrario: una bella fetta delle classi dirigenti faceva il tifo per il nemico e si augurava la sconfitta dell’Italia. Questo obiettivo accomunava la grande borghesia finanziaria e industriale e la dirigenza dei partiti di sinistra, comunisti e socialisti, più i cattolici; in altre parole, nel 1940 esisteva già la convergenza d’interessi che avrebbe portato alla Repubblica democratica e antifascista del 1946, un brutto compromesso tra forze politiche e sociali diversissime, accomunate solo da una cosa: l’odio e il disprezzo per la propria Patria e il desiderio di mettersi al più presto possibile all’ombra di un protettore straniero: gli Stati Uniti per le classi dirigenti borghesi, l’Unione Sovietica per i dirigenti e i militanti socialisti e comunisti. Fra parentesi, il quadro non è mutato: quel senso di odio e disprezzo per la propria Patria e quel servile desiderio di mettersi al riparo di un potere straniero sono rimasti, sono solo cambiati gli schieramenti: ora a sostenere gli Stati Uniti (e l’Unione Europea) sono i gruppi dirigenti di sinistra, più il vertice della Chiesa cattolica (questa è la grande novità, si fa per dire), mentre a guardare con speranza alla Russia sono i gruppi populisti e sovranisti, considerati come espressioni della destra. Ma su una cosa sono tutti d’accordo: che l’Italia non sa far da sola; non può far da sola; non può, per esempio, uscire dall’UE e neppure dall’euro, perché da sola non conterebbe nulla (come se attualmente contasse qualcosa): mentalità auto-svalutativa che è l’esatto contrario di quel che si richiede a un popolo, anche a un grande popolo, come lo è il popolo italiano, per essere una grande potenza. Il nodo della questione è tutto qui: se la Germania è in procinto di ottenere un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, mentre l’Italia no, la vera ragione è questa, non il fatto che l’economia tedesca va più forte di quella italiana (il che dipende in gran parte dai meccanismi truffaldini dell’euro, voluti dalla BCE appunto per favorire la Germania e penalizzare l’Italia). E se l’India ha potuto trattenere per anni i nostri due marò come non avrebbe osato fare con un altro grande Paese europeo, ad esempio la Francia, non è perché l’Italia ha una minor forza militare della Francia, ma perché l’Italia, anche se avesse una forza militare rispettabile, non avrebbe la propensione ad usarla. Lo si è visto nel caso della marina, quando l’Italia aveva una delle maggiori marine al mondo, appunto nel 1940. Vale la pena di rievocare quella vicenda, perché è la chiave per capire tante cose, anche del presente.

Dicevamo che il pre-requisito essenziale per essere una grande potenza è quello di ragionare da grande potenza. Se un Paese ha una grande marina, ma non sa o non vuole usarla, come è accaduto nel 1940; se preferisce giocare al risparmio e attendere che a vincere la guerra siano i suoi alleati, ciò crea fatalmente le condizioni perché quel Paese venga retrocesso, a guerra finita, al rango di potenza secondaria, perfino indipendentemente dall’esito della guerra. La Germania è uscita distrutta dalla Seconda guerra mondiale, ma è di nuovo il primo Paese d’Europa e sta per avere un seggio permanente all’ONU: questa è la prova che l’essenziale non è vincere o perdere, ma avere una classe dirigente che crede fermissimamente nel destino della propria Patria. Credere nel destino significa saper rischiare anche la cosa più preziosa, e tale era il caso della nostra flotta nel1940. Pur senza il radar e con molti altri difetti (la mancanza di addestramento al combattimento notturno, per esempio) la flotta italiana del 1940 era magnifica, ed era costata molti quattrini. Fu un errore non gettarla decisamente nella lotta; fu un errore non impegnare lo scontro decisivo con la flotta britannica - la Francia era già uscita di scena, e con lei la sua flotta -; ma l’errore peggiore di tutti fu quello di consegnarla, l’8 settembre del 1943, senza averla gettata nella battaglia finale. Battaglia finale che essa, probabilmente, avrebbe perduto: ma il solo fatto di combatterla avrebbe salvato all’Italia il rango di grande potenza, almeno in senso morale; e quando c’è quello, il futuro è ancora aperto a tutte le possibilità. Mentre quando ci si arrende come l’Italia si è arresa, e quando si consegna una flotta come la flotta italiana si è consegnata, si perde ogni diritto a essere stimati dalle altre nazioni e bisogna rassegnarsi al ruolo di nazione secondaria. Le cose stanno così: era la flotta a fare dell’Italia una grande potenza, ma quella flotta bisognava usarla da grande potenza, a costo di perderla (come il Giappone perse la sua a Midway). Persa la flotta, l’Italia ha perso il rango di grande potenza; ma il male più grande è come l’ha persa, cioè consegnandola senza combattere e vanificando, così, il lungo sacrificio di tanti coraggiosi marinai.

Una delle migliori ricostruzioni del clima in cui L’Italia ha consegnato la sua flotta, e con ciò stesso non solo ha perduto il rango di grande potenza, ma si è giocata il suo futuro di nazione rispettata e autorevole nel consesso delle altre nazioni, lo abbiamo trovato nel libro di Enrico Cacciari Due guerre per una sconfitta, (Palermo, Cusimano Editore, 1967, pp. 224-226):

La resa della nostra marina ebbe conseguenze politico-militari di indubbio valore per le sorti della guerra; e ciò perché essa rappresentò per gli alleati l’immediato beneficio di diventare, da un’ora all'altra, padroni del Mediterraneo e perché consentì loro di intensificare con l’accresciuta disponibilità di naviglio, la lotta nel Pacifico contro il Giappone. Commentò allora il Primo Lord dell’Ammiragliato che “la capitolazione della flotta italiana significa una svolta decisiva nella guerra marittima. L’equilibrio delle forze marittime si è completamente spostato e noi saremo in grado di concentrare tutte le nostre in Estremo oriente in soccorso della Cina”. Tutto questo non poteva sfuggire alla valutazione degli Stati Maggiori delle nostre navi, composti da uomini scelti per cultura e intelligenza, educati alla scuola severa del dovere e animati dalle leggi dell’onore di una lunga tradizione marinara, che combatterono una tremenda battaglia interiore prima di risolversi a prendere il partito che presero soltanto perché ingannati dagli uomini di Roma.

Questo va detto, questa va ricordato. Gli anglo-americani ottennero la nostra flotta con il bluff che precedette la firma della capitolazione e per l’aiuto di coloro che, della capitolazione artefici, vollero a tutti i costi perfezionare il loro delitto. E va detto e va ricordato, non fosse altro per trovare in noi la forza per insegnare ai nostri figli la necessità di smentire concretamente quanto Smith [Walter Bedell Smith, capo di Stato Maggiore del comandante in capo alleato, l’americano D. Eisenhover] nell’occasione ebbe a dire: che, cioè, “con la consegna della sua flotta, l’Italia era sparita dalla scena politica e non avrebbe potuto mai più ritornare ad essere una grande potenza”.

E veniamo al racconto delle peripezie che portarono le nostre navi a Malta.

Il 6 settembre, tre giorni dopo la forma dell’armistizio, l’ammiraglio De Courten, che dell’avvenuta capitolazione era edotto, impartiva telegraficamente questi ordini alle nostre squadre navali di Taranto e de La Spezia: predisporsi ad attaccare un grosso convoglio nemico in presunta rotta su Salerno; tentare ad ogni costo di impedire lo sbarco delle fanterie; le navi da battaglia, ove non fosse loro riuscito di prendere contatto con le grosse unità nemiche, dovevano portarsi sulla costa – magari affondandosi – e di là porre fine all’ultimo colpo contro il convoglio.

Con questi ordini – impartiti con la coscienza di non farli eseguire – logico che i nostri equipaggi, la mattina dell’otto settembre, pensassero unicamente allo scontro che, tra poche ore, li avrebbe messi di fronte all’avversario da essi mai temuto. Sempre in quella mattinata, gli ammiragli di squadra erano stati convocati a Roma da De Courten il quale confermò gli ordini, raccomandò di stare all’erta, ma non fece cenno alcuno di quanto era stato combinato a Cassibile.

Gli ammiragli comandanti delle Squadre erano appena rientrati in sede che la radio inglese, americana e italiana – annunciavano la capitolazione. Ma gli anglo-americani, come continuazione del bluff iniziato a Lisbona, cominciarono a barare e furono diffuse, sempre via radio, comunicazioni atte ad ingannare gli stati maggiori delle nostre navi ai quali già da Roma cominciavano a pervenire strani messaggi-ordine.

Tra le notizie che gli alleati si affrettarono a diffondere, a proposito della resa della Marina, nell’evidente preoccupazione di un auto-affondamento della nostra flotta, era quella rassicurante sulla sorte delle nostre unità che garantiva esse non sarebbero state considerate né prigioniere, né bottino di guerra. Un proclama dell’ammiraglio Cunningham, trasmesso quasi in continuazione dalla radio di Algeri e di Malta, esortava i nostri equipaggi ad eseguire gli ordini ricevuti per poter concorrere – diceva lui – ad assicurare l’approvvigionamento dell’Italia affamata. Alle menzogne degli alleati si aggiunse l’inganno di Roma; telegrafò il Supermarina agli ammiragli di portare la squadra a Malta; ma raccomandava e assicurava: “per ordine del re eseguite lealmente le clausole dell’armistizio, siate certi che la bandiera non sarà ammainata e ricordatevi che dalla vostra obbedienza dipendono le sorti della Patria”.

Abbiamo già avuto occasione di parlarne nelle pagine precedenti: negli alti comandi della nostra marina si era purtroppo annidato il tradimento. La struttura del telegramma sopra riferito dà la misura della capacità e del grado di fellonia di questi uomini indegni che ben sapevano come ricattare sentimentalmente l’animo leale dei nostri marinai. Con quell’oscura dizione “ricordatevi che dalla vostra obbedienza dipendono le sorti della Patria”, essi riuscirono ad insinuare, nella mente e nel cuore dei nostri equipaggi, il dubbio, poiché la salvezza della Patria era per essi preminente sopra ogni altra valutazione.

 

Il tradimento, quindi, ci fu, ma fu più politico che militare; non degli ammiragli in mare – ricordiamo il valoroso ammiraglio Bergamini, che si sacrificò con la Roma, ma che certamente non avrebbe accettato di condurre la sua corazzata a Malta, una volta compreso che di una resa si trattava, e di una resa ignominiosa, senza condizioni – ma piuttosto degli ammiragli ben piazzati sulle loro poltrone, a Roma, presso Supermarina. In altre parole, il tradimento era parte integrante della nostra classe dirigente, e non solo della casta navale e militare, ma dei finanzieri, dei grandi industriali e dei diplomatici di carriera: tutti interessati a saltar giù dal carro del perdente e ad assicurarsi un posto su quello del vincitore. L’ammiraglio De Courten, che ingannava deliberatamente comandanti ed equipaggi e li spediva a Malta, ad arrendersi, quando già sapeva che l’Italia, tramite il generale Castellano, aveva firmato l’armistizio di Cassibile, offre un esempio del clima torbido che regnava nelle alte sfere politico-militari di un Paese impegnato strenuamente in una guerra gigantesca, che già aveva avuto centinaia di migliaia di morti e lottava disperatamente per la vita e per la morte, cioè per sopravvivere come nazione indipendente e sovrana.

Enrico Cacciari sostiene che, se comandanti ed equipaggi avessero saputo che la meta dell’ultima crociera era Malta, si sarebbero rifiutati di sottostare a una tale umiliazione: che avrebbero scelto o di affrontare il nemico in un’ultima battaglia, se la resa non era ancora stata firmata, oppure di autoaffondarsi, se la resa era già stata firmata. Certo, è possibile vedere le cose in questo modo. Noi, però, invece di arrischiare ipotesi su quel che avrebbe potuto essere, preferiamo restare sul terreno dei fatti; e osserviamo che, per una marina degna di questo nome, la marina di una grande potenza, non vi è spazio per il “dubbio” adombrato dal menzognero telegramma di Supermarina, nel senso che non è nemmeno pensabile una “salvezza della Patria” che prescinda dall’onore delle sue forze armate. Vi sono cose che una nazione non può sacrificare, se vuol conservare la stima di se stessa e degli altri, e l’onore è la prima fra esse. Supermarina scelse le navi senza onore, e alla fine l’Italia perse sia l’onore che le navi. Le navi, dopotutto, sono pezzi di lamiera muniti di motori e cannoni: non hanno un’anima. L’anima della flotta è la volontà di coloro che la guidano in battaglia: perché le navi sono fatte per essere usate, non per essere risparmiate in vista di giochetti politici e furberie da quattro soldi. L’Italia, al tavolo della pace, fu trattata come meritava; a nulla valse che De Courten, tardivamente, chiedesse che la flotta rimanesse, intatta, all’Italia, in considerazione della sua co-belligeranza: gli alleati se ne infischiarono di promesse e blandizie ormai superate, e se la spartirono. E neppure allora essa ebbe la fierezza di auto-affondarsi. Il dottor Goebbles, che era un uomo intelligente, in quei giorni scriveva sul suo diario: Gli italiani non vogliono essere una grande potenza. Giudizio esattissimo. Ma una mentalità da grande potenza non s’improvvisa; e un popolo che per secoli, come diceva Mussolini, è stato incudine, non diviene martello da un giorno all’altro. E qui torniamo al presente. Gli italiani sono stati abituati a pensare che l’Italia, da sola, non può farcela, che non conta nulla; che può essere qualcosa, che può avere una ripresa economica, solo restando in un’alleanza, che sia la NATO o l’UE. Perciò, se capita un governo che vuol fare gli interessi dell’Italia, e non della NATO o della UE, subito una parte degli italiani, e la maggior parte della classe dirigente, si mette a fare il tifo contro di lui, e a dar ragione ai poteri stranieri. Si arriva al punto che l’ultrasinistra, tramite il Manifesto, difende il neocolonialismo francese, pur di dar torto a Di Maio sulla questione del franco africano; mentre la solita magistratura di sinistra mette sotto inchiesta il ministro dell’Interno, reo di aver difeso i confini, proibendo lo sbarco all’ennesimo barcone di clandestini. Si spiega così la nostra irrilevanza internazionale. Ed ecco la Francia attaccare la Libia, poi alimentarne il caos, per soffiarci il suo petrolio sotto il naso...

Fonte Immagini: Wikipedia

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L’Esodo ignorato – Enrico Marino

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«Qualche anno fa i nuovi padroni della mia terra mi offrirono la cittadinanza onoraria di Pola come artista croata. Risposi che ero nata e sarei morta italiana. Scrivetelo sulla mia tomba». Alida Valli (Attrice)

Ci sono voluti 74 anni per poter ascoltare un racconto sulle foibe che fosse più aderente alla realtà di quei terribili fatti. Chi non ha vissuto, almeno in parte, questo lungo periodo non può capire. In quasi tutte le civiltà e società vige la pietas e il rispetto per i morti. Nemmeno questo invece è stato concesso, in questi anni, agli istriani e ai dalmati, italiani dimenticati, ai quali è toccato il silenzio e la falsità, l’alienazione, il vilipendio e lo strazio di dover sostenere il peso di una gogna ingiusta.

Oggi il riconoscimento. Faticoso e parziale. Ancora tutto in salita. Ancora ostacolato da molte sacche di odio e di negazionismi o banalizzazioni. Al vertice dell’infamia ci sono i convegni che l’Anpi organizza da anni per ridicolizzare la tragedia che ha trascinato nel baratro l'Istria e la Dalmazia alla fine della Seconda Guerra mondiale e che, quest’anno, è stata ricordata dalla RAI con la trasmissione del film “Red Land-Rosso Istria”.

E’ la storia di Norma Cossetto, giovane studentessa istriana, barbaramente torturata e violentata dai partigiani iugoslavi e gettata, ancora viva, nella foiba di Villa Surani. Ma è anche la storia della ferocia con cui agirono i titini contro gli italiani di quelle terre solo perché italiani. Fra 1943 e il 1947 (cioè per ben 2 anni dopo la fine della guerra), nelle foibe dell’Istria sono stati gettati migliaia di italiani. Venivano legati l’un l’altro con un lungo fil di ferro stretto ai polsi e messi sugli argini delle foibe, quindi venivano fucilati i primi tre o quattro della fila, i quali, precipitando nell’abisso, morti o feriti, trascinavano con loro gli altri sventurati incatenati, condannati così a sopravvivere per giorni sul fondo delle voragini mischiati ai cadaveri dei loro compagni, tra sofferenze inimmaginabili.

Ma per l’Anpi

"Red Land è un film di pura propaganda fascista, basato su stereotipi anticomunisti e razzisti antislavi, sullo stravolgimento della realtà storica per riabilitare il fascismo distruggendo l’immagine della Resistenza antinazifascista, e soprattutto del contributo dei comunisti.”.

Difficile immaginare esseri più ignobili e spregevoli di questi “partigiani”, tanto accaniti nel falsificare e rinnegare gli avvenimenti del passato, per occultare le loro responsabilità e quelle dei loro complici iugoslavi, quanto pronti nell’arraffare i sussidi elargiti da quella stessa Repubblica della quale apertamente disconoscono le commemorazioni, le cerimonie e la narrazione storica.

Quella stessa Repubblica che, peraltro, è stata edificata e ha vissuto per anni sulla viltà, la menzogna e l’ipocrisia se è vero, com’è vero, che oggi celebra il Giorno del Ricordo e piange le migliaia di italiani massacrati dai partigiani titini, ma, contemporaneamente, in aperta contraddizione, ha decorato Broz Josip Tito, il dittatore macellaio comunista responsabile ideatore di quelle stragi, come “cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica italiana” con l’aggiunta del Gran Cordone, cioè il più alto riconoscimento conferito dal nostro Paese. Questa ignominia è tutt’ora riscontrabile e presente sul sito del Quirinale, cioè della stessa istituzione che ha veduto la vergognosa figura di un presidente partigiano, tale Sandro Pertini, andato a prostrarsi sulla bara del boia iugoslavo.

Non basta, infatti, confrontarsi con la bestiale ferocia dei titini perché dev’essere ugualmente ricordato il modo con cui i comunisti italiani accolsero quei connazionali in fuga dalla barbarie slava: l’epiteto più gentile fu “banditi giuliani” e per loro non ci fu integrazione né solidarietà, ma il rifiuto a fornire qualsiasi ospitalità, qualsiasi soccorso e, a una fermata del loro treno alla stazione di Bologna, addirittura del latte per i loro bambini e neonati affamati.

Il caporione comunista Palmiro Togliatti, in un grottesco articolo sull’Unità, affermò che dal momento che quegli italiani fuggivano dal “paradiso dei lavoratori” iugoslavo e rifiutavano di abbracciare il comunismo, dovevano necessariamente essere considerati dei reietti, dei criminali, dei fascisti.

E non è tutto. Nel 1956 la Repubblica del 25 aprile, toccando il gradino più basso della dignità per uno Stato, equiparò per legge il servizio militare prestato nell’esercito iugoslavo a quello prestato nel regio esercito italiano. Come conseguenza, l’Italia iniziò a pagare 32.000 pensioni di guerra agli aguzzini che avevano torturato e infoibato i nostri fratelli. Gli assassini di migliaia di italiani ricevettero dalla Repubblica 18miliardi di lire ogni mese come ricompensa del loro turpe lavoro. Somme che, per effetto della reversibilità, l’INPS ha continuato, nel tempo, a pagare ai loro famigliari.

Detto ciò, è solo relegando le atrocità dei partigiani italiani e iugoslavi nel loro angolo di infamia che il ricordo di quelle terre e di quelle tragedie può fornire un ulteriore e più profondo insegnamento. Perché la barbarie comunista s’è sovrapposta e, in un certo senso, ha oscurato il drammatico capitolo e il peso del primo "Esodo ignorato" dei dalmati, che non c'entra nulla con fascisti e comunisti e che avvenne allorchè la Dalmazia fu annessa al Regno di Jugoslavia.

Scutari, Durazzo, Ragusa, Lissa, Spalato, solo per citarne alcuni, sono nomi di città dalmate che risalgono all’epoca romana e, nei secoli, quelle terre (come anche l’Istria di Fiume, Pola, Parenzo o Pisino) passarono attraverso il dominio bizantino e il Sacro Romano Impero, per centinaia di anni alla repubblica di Venezia e poi a Napoleone, fino all’Impero Austriaco, sempre conservando intatta una élite romanica che tramandava nei secoli la propria cultura, la propria lingua e la testimonianza del proprio passato.

Dopo la battaglia navale di Lissa del 1866, in Dalmazia come nel Trentino e nella Venezia Giulia tutto ciò che era italiano venne avversato dagli austriaci. Non potendo tedeschizzare quelle terre perché troppo lontane dall'Austria, venne favorita la cultura slava a danno di quella italiana. Nelle varie città dalmate a mano a mano l'amministrazione da italiana passò a croata e, nel breve volgere di pochi anni, vennero chiuse le scuole italiane e aperte quelle croate. Tutto questo avvenne in un clima di continue vessazioni da parte degli slavi i quali, a mano a mano che conquistavano il potere, procedevano alla sistematica eliminazione non solo della lingua italiana (nel 1909 la lingua italiana venne vietata in tutti gli edifici pubblici ed i dalmati italiani furono estromessi dalle amministrazioni comunali), ma delle stesse vestigia della storia e della civiltà di quelle terre.

Come accadde, ad esempio, a Sebenico quando nel 1921 gli slavi gettarono in mare il secolare leone di S. Marco in pietra, dopo che, alla fine della Prima guerra mondiale, in violazione dei patti precedentemente sottoscritti, su istigazione del presidente statunitense Woodrow Wilson, la Dalmazia venne annessa al neocostituito Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, con l'eccezione di Zara. Il Trattato di Versailles con la mancata cessione della Dalmazia all'Italia causò lo sconforto degli italiani dalmati che emigrarono a migliaia, fino a 50.000, mentre la comunità italiana rimasta in Dalmazia subì violenze e rappresaglie tali da rendere necessaria un’apposita convenzione tra il Regno d’Italia e quello iugoslavo per cercare di tutelare quella che era diventata la nostra minoranza etnica. Allo stesso tempo, l’Istria fu unita all’Italia nei limiti delle Alpi Giulie e ciò condusse all’incorporazione di una cospicua minoranza croata e slovena (circa 300.000), che al termine della Seconda guerra mondiale diede occasione alla Iugoslavia di rivendicare tutta l’Istria.

L'esodo dei dalmati dal 1918 al 1921 - che pochi ricordano – fu perciò la prima grande pulizia etnica effettuata in quelle terre, a dimostrazione che la persecuzione degli italiani è datata molto prima dell’avvento del fascismo e non è affatto una conseguenza delle, peraltro inesistenti, violenze perpetrate da quel regime in quelle terre.

Le tesi sostenute al riguardo dagli storici marxisti e slavi e da intellettuali alla Claudio Magris possono essere tranquillamente rispedite al mittente. E’ sufficiente incamminarsi sul lungomare di Trieste per rinvenire un edificio d’epoca fascista che reca in italiano e slavo la scritta “Casa del marinaio”, per contestare e smascherare tutta la fasulla vulgata circa la brutale opera di snazionalizzazione operata dal fascismo.

Al contrario, queste vicende sono di ammonimento per quel che riguarda le difficoltà di convivenza e di integrazione che incontrano comunità etniche differenti, seppure abituate per secoli a una forzata vicinanza e alla condivisione di un determinato territorio. Difficoltà esplose, dopo la disintegrazione della Jugoslavia, anche tra gli stessi slavi, tra serbi, croati e kosovari, che hanno determinato un feroce conflitto tra quelle popolazioni solo apparentemente omogenee.

Le identità riemerse dopo il crollo del regime comunista hanno, al contrario, confermato che le profonde differenze etniche, culturali e religiose, che erano state compresse per anni solo con la brutalità della dittatura, avevano mantenuto inalterato il loro potenziale aggregante e distintivo della varie comunità.

Questo insegna che le radici profonde dell’essere umano non possono essere eliminate, ma che il loro forzato contenimento e la loro negazione possono essere operate solo con la violenza della repressione e della tirannia.

Un ammonimento contro quanti parlano di società multietnica e vorrebbero farci colonizzare dagli africani e dalle loro culture tribali, con le mafie nigeriane, con le usanze di marocchini e tunisini, con l’islamismo di sudanesi e senegalesi, per ridurci in condizioni estreme di degrado e di scontro sociale tali da richiedere un inasprimento dei controlli e della repressione.

Sarebbe la creazione ideale di una società concentrazionaria, in cui i poteri forti e gli interessi di ristretti circoli elitari avrebbero ancor più mano libera a danno dei popoli europei ormai meticciati e infiacchiti.

Enrico Marino

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Quando verrà l’ora di render giustizia a Mussolini? – Francesco Lamendola

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Quando si decideranno gli italiani, a cominciare dagli storici, a rendere giustizia a Mussolini? Certo, per farlo dovrebbero riconciliarsi con il loro passato e decidersi a sbarazzarsi di alcuni cliché e luoghi comuni sui quali è stata costruita la mitologia democratica e repubblicana del dopoguerra, divenuta ormai Vangelo. Sappiamo bene quanto ciò sia difficile: per settant’anni quella mitologia è stata la base delle carriere, della politica, della cultura, persino della filosofia e dell’arte, insomma di tutto il baraccone del politicamente corretto. E per difendere quella base sono state rimosse  e negate, fino a non molti anni fa, le foibe; sono stati occultati i nomi scomodi come quello di Porzus; si è fatto finta che il “Triangolo della morte” emiliano fosse una mera leggenda dei neofascisti; e si sono ingigantiti oltre ogni limite della credibilità le colpe e gli errori del fascismo stesso, e specialmente di Mussolini. Perciò, rendere giustizia a Mussolini è divenuto pressoché impossibile: le menzogne ideologiche, dette e amplificate per anni, per decenni, e ripetute da tutti, specialmente dalla scuola e dai professori di liceo, sono diventate un qualcosa di sacro e intoccabile: porle in discussione, anche solo in piccola parte, ha acquistato il sapore di una blasfemia, di un sacrilegio. Inoltre, questa deformazione della verità storica si inscrive in una più ampia deformazione, che non riguarda solo l’Italia e il misero modo in cui le nuove classi dirigenti, antifasciste e democratiche, sono andate al potere nel 1945, cioè sulle ceneri di una guerra civile e con la spinta determinante del nemico invasore e occupante, ma riguarda un po’ il mondo intero: la leggenda secondo la quale la Seconda guerra mondiale è stata uno scontro fra il Bene e il Male, senza ombre né zone grigie, e che alla fine, fortunatamente, hanno vinto i Buoni contro i Cattivi. Strana coincidenza: quei Buoni, che hanno vinto, hanno avuto anche l’ultima parola sul teatro della storia: hanno voluto i loro bravi processi punitivi, quello di Norimberga contro i tedeschi, quello di Tokyo contro i giapponesi. Agli italiani il trattamento è stato risparmiato in virtù del voltafaccia del re e di Badoglio dell’8 settembre 1943, e onestamente ancora oggi, non si sa se rallegrarsi di aver scampato la sorte dei tedeschi e dei giapponesi, gli altri due soci del Tripartito, o deprecare di non averla condivisa: perché solo in quest’ultimo caso gli italiani, forse, avrebbero avuto materia per riflettere sulla “verità” di una storia scritta dai vincitori, e sulla bontà di una democrazia realizzata grazie alle baionette degli eserciti vincitori, che erano, guarda caso, gli eserciti nemici. Certo, i Buoni si sono macchiati di dettagli come le Fosse di Katyn (i sovietici) e le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki (gli americani), mentre gli inglesi portano la responsabilità della distruzione voluta e pianificata di Berlino, Amburgo e Dresda mediante attacchi aerei di tipo puramente terroristico, esplicitamente diretti a colpire la popolazione inerme. Però sull’altro piatto della bilancia, quello dei Cattivi, c’è il Crimine Senza Nome, il solo crimine che niente e nessuno potrà mai, non diciamo perdonare, ma anche solo esaminare obiettivamente in sede storica: la Soluzione Finale. Che poi questo crimine, che senza dubbio ci fu, sia stato notevolmente gonfiato a guerra finita, per ragioni propagandistiche che avevano a che fare col sionismo e con la creazione dello Stato d’Israele; che, pur di avvalorarne i particolari più macabri, ci si sia affrettati a ricostruire le camere a gas, mai trovate, presentandole ancor oggi come se fossero quelle originarie;  che si sia ricorsi a una forzatura e a un travisamento linguistico già nella scelta del termine, facendo passare l’espressione Soluzione Finale per una premeditata volontà di genocidio, mentre essa indicava, in origine, una generica “soluzione”, definitiva, sì, ma non necessariamente omicida, della questione ebraica, mettendo in ombra il fatto che solo dopo la battaglia di Mosca, cioè dopo le prime avvisaglie che il Terzo Reich avrebbe perso la guerra, Hitler decise di dare a quella espressione il significato più sinistro, mentre prima aveva pensato ad altre soluzioni, come un trasferimento in massa nel Madagascar (riprendendo un progetto dei governanti polacchi di prima della guerra, che si erano spinti fino a sondare la cessione dell’isola da parte della Francia): tutto questo è stato deliberatamente sottaciuto.

Ma torniamo a Mussolini. Senza dubbio fu la sua alleanza con Hitler a decidere, una volta per tutte, il giudizio postumo che la cultura italiana avrebbe dato di lui: posto accanto al truce dittatore tedesco, che di lui aveva stima e perfino riverenza, era quasi inevitabile che anche la figura del Duce assumesse i cupi connotati di un dittatore spietato e sanguinario. Cosa che Mussolini, invece, non fu. Non siamo qui a nobilitare gli aspetti violenti e illiberali del suo governo; cerchiamo solo di essere giusti verso la sua memoria, non per nostalgia del fascismo, ma per amore della imparzialità storica, che da settant’anni ha pietrificato il giudizio su di lui entro la camicia di forza di un’immagine banalmente stereotipata. La verità è che Mussolini cercò di dare all’Italia un governo che desse voce e rappresentanza all’Italia di Vittorio Veneto, cioè a quello spirito di fierezza nazionale che si era cementato sugli argini del Piave e sulle pendici del Grappa, mobilitando le energie migliori del popolo italiano in un grandioso sforzo collettivo; e che avviasse a soluzione alcune questioni sociali che i socialisti sbandieravano da sempre, ma che non avevano mai mostrato di sapere o di voler realmente affrontare, a cominciare dalla previdenza sociale, il diritto al lavoro, una certa equità nei rapporto fra lavoratori e proprietari, la difesa della moneta e del risparmio, la preminenza dell’interesse nazionale rispetto alla grande finanza internazionale: un problema, quest’ultimo, che già negli anni ’20 e ’30 del Novecento si stava profilando in tutta la sua gravità e che è lo stesso con il quale il popolo italiano, insieme agli atri popoli, deve fare i conti oggi. Vi è anzi motivo di pensare che fu proprio il grande capitale finanziario internazionale a decide che i regimi del Tripartito andavano eliminati, non per condurre una crociata democratica contro le dittature, ma per la ragione assai più concreta che essi volevano sottrarre il collo al cappio che stava cominciando a strangolare l’economia mondiale, partendo dalla City londinese e da Wall Street; e che la sorte dell’Italia fu decisa non quando essa dichiarò guerra alle democrazie, nel giugno 1940, ma ben quattro anni prima, nell’ottobre 1936, allorché Mussolini scelse l’alleanza con la Germania, peraltro solo dopo che Francia e Gran Bretagna ebbero fatto di tutto per spingerlo in quella direzione, vanificando i suoi propositi di restare nel Fronte di Stresa (cfr. il nostro articolo: Come gli Alleati, per stupidità e cinismo, ‘regalarono’ l’Italia a Hitler, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 13/05/2012 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 23/12/2017).

Ecco, allora, che la condanna morale senza appello di Mussolini, emessa dopo Piazzale Loreto e mantenuta per tutti questi decenni, in luogo d’una serena valutazione storica, comincia ad acquistare una più chiara motivazione. Se la Seconda guerra mondiale è stata, in buona sostanza, uno scontro fra il sangue e l’oro, come diceva, forse non senza ragione, la propaganda fascista, allora è logico che quei poteri finanziari che l’hanno vinta, e che hanno imposto il giogo al mondo intero, avesse bisogno di ridurre il significato storico del fascismo, e la figura stessa di Mussolini, entro la cornice, rimpicciolita e immeschinita, di una semplice dittatura barbara e irragionevole (la famosa invasione degli Hyksos del “grande filosofo” Benedetto Croce!) e di un dittatore ignorante truculento, avido di potere e innamorato solo di se stesso. Che questa immagine contrasti, poi, con tutta una serie di dati di fatto; che Mussolini abbia sempre preteso che lo Stato venisse prima del Partito fascista, e desse istruzioni in tal senso sia ai consoli all’esterno, sia ai funzionari statali in Patria; che questo non sia il modo di agire di un dittatore classico, pazienza: al diavolo i dati di fatto; in nome della morale, si può ben giudicare e condannare Mussolini una volta per sempre. Resta però da vedere se, proprio sul terreno morale, egli fu quel criminale che la vulgata democratica e antifascista pretende. In verità, non risulta che abbia mai ordinato l’assassinio di nessuno; risulta, anzi, che abbia concesso la grazia, o la libertà di espatriare, a moltissimi antifascisti che erano stati arrestati, condannati e imprigionati o inviati al confino. L’unico cadavere che la vulgata antifascista è riuscita ad addossargli è in pratica quello di Matteotti; tuttavia non è stato affatto dimostrato che egli abbia voluto, né ordinato, quel delitto. Quel che è certo è che esso non solo non gli fece comodo, ma rischiò di vanificare tutta l’opera da lui condotta sino a quel momento, cioè sino al giugno 1924. E perfino quegli storici i quali, bontà loro, ammettono che Mussolini non volle l’assassinio di Matteotti, subito precisano che non lo volle per la meschina ragione che ciò lo avrebbe obbligato a gettare la maschera del leader parlamentare e ad assumere il suo vero volto, quello del bieco aspirante dittatore. Ma il punto è proprio questo: Mussolini, nel giugno del 1924, un anno e mezzo dopo la marcia su Roma, non era un dittatore, per la semplice ragione che non aveva voluto esserlo, anche se lo avrebbe potuto. Era impegnato in tutt’altro sforzo: quello di coinvolgere nelle responsabilità di governo le altre forze politiche e sociali, in particolare la Confederazione Generale del Lavoro. Non era un traditore del socialismo, ma il vero erede del socialismo: lui le riforme sociali le voleva fare per davvero, mentre i suoi ex compagni di partito le sapevano fare solo a chiacchiere. E per farle aveva bisogno della concordia nazionale. Già era riuscito a coinvolgere nel suo governo, direttamente o indirettamente, i nazionalisti, i liberali, i cattolici; gli mancavano i socialisti. E quello era il suo obiettivo: non la dittatura, ma un governo di unità nazionale. Se avesse voluto imporre la dittatura, poteva farlo dopo le elezioni del 6 aprile 1924, vinte dai fascisti alla grande. Non lo fece, anzi si adoperò per attrarre nell’area del governo le maggiori forze possibili, da destra e da sinistra. Francesco Giunta dichiarò poi che Mussolini intendeva portare alcuni esponenti socialisti al governo nel giugno del 1924, precisamente Casalini, D’Aragona e Zaniboni. Ed è assai probabile che per questo Matteotti pronunciò il suo famoso discorso del 30 maggio: discorso coraggioso e che gli costò la vita, ma diretto non contro una dittatura che ancora non c’era, ma a trattenere i suoi compagni di partito, tentati di accettare le avances di Mussolini, cioè per rendere impossibile la nascita di un blocco di governo nazionale. E Umberto II ha confermato questa intenzione del Duce, dicendo di averla saputa da suo padre, Vittorio Emanuele III.

Un esempio dell’interpretazione “classica” del delitto Matteotti si trova ne L’Italia in camicia nera (1919-3 gennaio 1925) di Indro Montanelli (Milano, Rizzoli, 1976, pp. 241; 250-252):

Muto e immobile, egli [Mussolini] aveva seguito il discorso di Matteotti senza mai interromperlo, e anzi dando segno di fastidio per il chiasso che facevamo i suoi. Ma il volto pallido e tirato, denunciava il suo furore. Quando l’avversario ebbe finito, si alzò di scatto, attraversò l’aula a passi concitati, e rientrò a palazzo Chigi. Nell’anticamera del suo ufficio s’imbatté in Marinelli, e lo investì: “Che fa la Ceka?... Che fa Dumini?… Se non foste dei vigliacchi, nessuno avrebbe mai osato pronunciare un simile discorso!”. Questi scoppi di collera erano in lui frequentissimi, ma si esaurivano in se stessi, come riconobbe Cesare Rossi nella sua testimonianza di accusa contro di lui. E tutto lascia credere che anche quella volta fu così.” […]

Ormai quasi tutti gli storici consentono su una genesi del delitto molto più semplice, almeno come meccanica di svolgimento [rispetto alle tesi “complottiste”]: quella fornita da Cesare Rossi nel suo “Memoriale”. In Mussolini,  disse Rossi, un fondo di criminalità c’era: lo riconosceva anche suo fratello Arnaldo. Ed era stato questo fondo ad ispirargli, dopo la requisitoria di Matteotti alla Camera, la famosa e fatale invocazione alla Ceka. Quella frase basta ad attribuire a Mussolini la responsabilità morale del delitto. Ma non si era trattato di un esplicito mandato. Mussolini era un politico troppo accorto per non capire le conseguenze di un simile assassinio, e che venisse colto di contropiede lo dimostra lo stesso smarrimento con cui vi reagì. A tradurre il suo scoppio di furore in un ordine di castigo fu Marinelli, e il gesto d’altronde somiglia al personaggio: un Himmler in sedicesimo, ottuso burocrate della violenza e carrierista ambissi assolutamente privo di qualità sia politiche sia umane. La Ceka era sua., la considerava una specie di milizia personale, e solo da lui dipendeva. La sera del Gran Consiglio egli aveva detto a Rossi e a Finzi che l’ordine di metterla in moto gli era venuto da Mussolini.  Ma Rossi non ci aveva creduto, e i fatti gli hanno dato ragione.  Vent’anni dopo, condannato a morte dal Tribunale di Verona insieme agli altri “traditori” del 25 luglio,  Marinelli confidò a Pareschi e a Cianetti, suoi compagni di prigione,  che l’ordine lo aveva dato lui, convinto di esaudire i desideri del Duce. Resta solo da sapere se l’ordine fu di uccidere Matteotti, o di “dargli solo una lezione” nello stile squadrista. Naturalmente gli esecutori sostennero sempre che uccidere non volevamo, e che la vittima gli morì in mano…

A questo punto, chiediamo: se Mussolini, di cui si discute se ordinò un assassinio politico, aveva un fondo criminale, che dire di Churchill, che ordinò a freddo di bruciar vivi colle bombe al fosforo gli abitanti delle maggiori città tedesche, o di Truman, che ordinò d’incenerire i cittadini di Hiroshima?

E se non fu un criminale, sarebbe ora di vederlo come statista per quel che tentò di fare: cioè l’Italia.

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Il bandito Testalonga: la resistenza di un vinto – Salvatore Marotta

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Come dimostrano i dati del mercato editoriale italiano degli ultimi anni, i piccoli e medi editori crescono dimostrando serietà e vivacità culturale, certamente salutari in un panorama spesso viziato dal conformismo. E proprio da questi editori coraggiosi ci arrivano autentiche perle come questo libro di Anna Marotta dedicato al famoso bandito#Testalonga. Il saggio nasce come Tesi di laurea dal titolo "Il bandito Antonino di Blasi alias Testalonga" (1728-1767), a conclusione del corso di laurea in Filologia Moderna, conseguito nel 2016 con il massimo dei voti e la lode presso l'Università degli Studi di Catania. Il valore aggiunto del libro consiste nell'aver coniugato il rigore delle fonti con lo stile narrativo. Lo storico/detective dovrà dipanare un'intricata matassa, dove non solo storia e leggenda sono intimamente intrecciati, ma dove il confine tra legge e fuorilegge risulta, come vedremo, assai labile.

Per prima cosa, l'Autrice descrive il contesto storico, politico e sociale nel quale il protagonista, anzi, i protagonisti si trovarono a vivere ed operare: il bandito Testalonga, il suo "antagonista", il vicerè Fogliani, i nobili, il popolo e colui che nel libro viene chiamato "l'alter ego" del bandito, che "nel tormentato inseguimento tra guardia e ladro , si scontrò con qualcosa più grande di lui che non avrebbe mai immaginato", il principe di Trabia Don Giuseppe Lanza, nominato Vicario dal vicerè con l'incarico di catturare Antonino di Blasi e la sua banda. Nella Sicilia del Settecento si susseguono ben quattro dominazioni: quella spagnola, sabauda, austriaca e infine borbonica, ma per i siciliani cambiava poco o nulla essendo semplici pedine nelle mani dei potenti e succubi di un sistema dove imperavano i privilegi e gli abusi nobiliari e l'oppressione tributaria e dove anche la natura faceva la sua parte con catastrofi, epidemie e carestie di raccolti, come la crisi del grano del 1763. Sono proprio gli anni in cui il di Blasi si diede alla macchia. Intanto, una precisazione terminologica e storica: banditismo e brigantaggio sono due fenomeni diversi, anche se spesso vengono confusi. Tra il Cinquecento e il Settecento venivano chiamati "banditi" coloro che erano colpiti dal bando, cioè da un decreto di espulsione dalla comunità; il brigantaggio fu fenomeno successivo e più complesso, che interessò migliaia di persone che non possono essere sbrigativamente e sommariamente liquidate come "delinquenti", ma che ebbe il carattere di una vera "insorgenza", dapprima contro i francesi e il giacobinismo e che esplose soprattutto dopo il 1860 contro uno Stato che evidentemente in troppi percepivano come oppressore e invasore. Contro banditi e briganti il potere rispose con una repressione cieca e selvaggia, fatta di torture, esecuzioni sommarie, teste mozzate e corpi smembrati. Una triste pagina di storia che solo di recente è stata raccontata anche "dalla parte dei vinti". L'altra faccia di questa feroce repressione era rappresentata dal compromesso, dallo scendere a patti con i malviventi da parte di molti settori "altolocati" della società.

Antonino di Blasi nacque il 19 febbraio 1728 a#Pietraperzia. Ultimo di sette figli, crebbe in un ambiente povero e privo d'istruzione. A soli 15 anni sposò Antonia Anzaldo che di anni ne aveva addirittura undici. Non sappiamo esattamente che lavoro facesse il giovane sposo, comunque per un certo tempo cercò di sbarcare il lunario. Poeti, romanzieri e cantastorie hanno tramandato il momento in cui Antonino si diede alla macchia. Lo fece dopo aver ucciso il bargello (nome con il quale si indicava il capitano militare addetto all'ordine), perchè questo gli aveva assassinato la madre. Una "romantica leggenda" come la definisce Anna Marotta , che non trova riscontri oggettivi poichè si è potuto appurare dall'archivio della Chiesa Madre di Pietraperzia che la madre morì quando Antonino aveva tra i tre e i quattro anni. L'idealizzazione del bandito come una specie di Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri, anche se priva di prove che ne dimostrino la veridicità, risponde pienamente all'anima di un popolo assetato di riscatto e di giustizia. "La leggenda - scrive Marotta - diventa uno specchio riflettente di quei difficili anni, anche perchè i bargelli, così come i gabelloti e i campieri, rappresentavano gli emissari dei "nobili" feudatari e loro erano i fautori delle peggiori barbarie a danno del popolo" Plausibile è la notizia secondo cui Antonino di Blasi scontò tre anni di carcere ad Agrigento per aver rubato un bue. Rimesso in libertà incrociò il suo destino con quello dei compagni di (s)ventura Giovanni Guarnaccia di Pietraperzia e Antonio Romano di Barrafranca. Insieme organizzarono una temibile e numerosa banda i cui primi movimenti sono attestati, come si evince dal fondo Trabia presso l'archivio di Stato di Palermo, a partire dal 1766. Il primo luglio di quell'anno l'Avv. Fiscale Don Giuseppe Iurato scrive al vicerè Fogliani mettendolo in guardia sulle malefatte della banda ed invocando i necessari provvedimenti. Viene subito promulgato un bando con cui si mette una taglia di cento onze sui tre principali capi della banda: Testalonga, Guarnaccia e Romano. Da questo momento non sono più semplici ladri, ma "abbanniati", banditi.

L'attività principale della banda consisteva nell'assaltare le masserie ed estorcere ai benestanti il denaro con cui Testalonga creò una fitta rete di complicità, anche ad alti livelli, tanto da dimorare tranquillamente presso nobili ed ecclesiastici. Alla banda viene attribuito un solo omicidio, quello del Tenente dei barrigelli di Butera, ma non imputabile al Testalonga. In seguito al bando, il Guarnaccia si separò dal resto della banda seguito da tre compagni, ma nel mese di ottobre vennero catturati a Regalbuto e il 10 novembre furono impiccati a Palermo nella Piazza della Marina. Testalonga, Romano e gli altri, per nulla intimoriti, continuarono le proprie scorribande assaltando feudi e masserie. Ed ecco entrare in scena Don Giuseppe Lanza Principe di Trabia che, come abbiamo già detto, viene nominato Vicario Generale Viceregio. Una volta ricevuto l'incarico dal vicerè, egli organizzò il suo quartier generale a Mussomeli e promulgò subito un bando nel quale si fissava la taglia per ciascun bandito. Deciso a stroncare l'attività della banda, il Vicario inviò corpi armati a perlustrare campagne e grotte e non esitò ad assumere come spie e capitani elementi della malavita. Dai suoi informatori e dalle numerose lettere anonime ricevute, Don Giuseppe Lanza compilò una lista dei complici e protettori del Testalonga, ai quali intimò di consegnare il bandito vivo o morto. Siamo all'epilogo della storia. Il 18 febbraio 1767 Testalonga e il suo fedele compagno Romano, in seguito ad un conflitto a fuoco, vennero catturati in una grotta nei pressi di Castrogiovanni (l'attuale Enna), traditi proprio dai principali protettori, i baroni fratelli Trigona di Piazza. Di Blasi e Romano, insieme ad altri componenti della banda, vennero portati a Mussomeli, torturati e condannati alla forca, sentenza eseguita il 7 marzo 1767. L'indomani i corpi vennero squartati e le teste tagliate, quella del di Blasi portata come trofeo a Palermo, la testa di Romano venne esposta a Barrafranca. Un potere corrotto a tutti i livelli si accanisce in modo barbaro sui cadaveri, ma nessuno dei numerosi protettori, prima additati dal Vicario, venne punito, anzi, intascarono riconoscimenti e ricompense. E allora, la domanda che più volte emerge scorrendo le pagine del volume, risulta pienamente legittima:" CHI SONO I VERI BANDITI?".

Anna Marotta ha compiuto un lavoro straordinario, da vera storica/detective ha consultato le carte con pazienza certosina (un intero capitolo è dedicato agli Archivi) restituendoci nella sua interezza la figura del bandito Testalonga e la sua epoca. Un libro che non può mancare nella biblioteca di ogni studioso o semplice appassionato della nostra storia.

IL BANDITO TESTALONGA. LA RESISTENZA DI UN VINTO.
Un libro di ANNA MAROTTA, Giambra Editori, prima edizione giugno 2018.

Salvatore Marotta

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Pregiudizi e luoghi comuni sul Medioevo – Luigi Morrone

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Protestanti, illuministi, alcuni marxisti e alcuni massoni (non tutti, per fortuna ...) hanno fatto a gara per costruire la leggenda di un medioevo epoca oscura, sentina di ogni inciviltà. Raffaello Morghen (1) annotava: "È universalmente noto che il Medioevo non ha mai goduto di quella che comunemente si chiama buona stampa". Da questo fuoco concentrico i cattolici hanno sviluppato una sorta di complesso di inferiorità onde si sono autoconvinti di essere responsabili di una serie indeterminata di misfatti e di essere stati per secoli nemici del progresso. Anche i "colti" hanno recepito questa immagine negativa del medioevo: nella sua scopiazzata Storia d'Italia, Montanelli titola "L'Italia dei secoli bui" la parte dedicata al medioevo; le vestali della politically correctness inneggiarono al "coraggio" della Fallaci che alla fine di un'intervista a Khomeini disse: " Me lo tolgo immediatamente questo stupido cencio da medioevo" (2), utilizzando il termine nel senso di "inciviltà", così dimostrando ignoranza e maleducazione al tempo stesso. E nell'immaginario collettivo si sono radicati convincimenti a volte assurdi, ma comunque così penetrati a fondo, da essere patrimonio del "pensare comune". Meritoria l'opera di Chiara Frugoni nello scrivere libri di taglio divulgativo per smentire tanti luoghi comuni. Io, più modestamente, utilizzerò le mie letture per sfatare alcune "leggende metropolitane" fiorite sul medioevo. Parliamo di una credenza “pruriginosa", che ci ha regalato un trash cult come la Ubalda ed una bella canzone di Villaggio - De Andrè, che immagina Carlo Martello che torna dalla battaglia di Poitiers avendo perso la chiave della cintura di castità imposta alla moglie.

È ampiamente diffusa la convinzione che i Crociati, prima di partire per la loro missione, imponessero alle proprie mogli una cintura che, coprendo la pudenda, aveva lo scopo di impedire rapporti sessuali. In realtà, nessuno ha mai visto una cintura di castità medievale. In qualche museo sono apparsi degli strani marchingegni a forma di mutanda di ferro e qualche buontempone li ha classificati come “medievali”. Sono bastate analisi neanche tanto approfondite per appurare che si trattava di smaccati falsi ottocenteschi. Anche sul piano documentale, non c’è alcun testo medievale che parli di questa usanza. La prima volta in cui viene menzionata è del 1405, nel manoscritto Bellifortis di Konrad Kyeser (v. disegno). Sta di fatto che il Bellifortis è una collezione di strumenti chiaramente inventati, per lo più macchine militari (3), accompagnati da commenti palesemente sarcastici che, sulla “cintura di castità”, ironizzano sulla gelosia dei mariti fiorentini. Un marchingegno simile compare in alcuni disegni del XVI secolo, che raffigurano una donna che l’indossa in mezzo a due uomini, uno dei quali dà soldi all’altro, che a sua volta gli porge una chiave (v. figura). La donna è chiaramente una prostituta, il possessore della chiave il suo sfruttatore, che riceve i soldi dal cliente. Probabilmente è uno strumento meramente simbolico, ma ammesso che sia reale, è uno strumento professionale della prostituta, non certo un oggetto di uso ordinario.

Come sia stato possibile credere ad una tale sciocchezza, non è dato di capire:
1) Sia consentita la grevità della battuta: la “natura” era l’unica strada d’accesso per tradire il marito? Per completezza, i Crociati avrebbero dovuto imporre anche una museruola!
2) Le serrature medievali erano facilmente apribili con l’ausilio di un fabbro. Quale certezza avrebbe dato la cintura circa la fedeltà della moglie?
3) È vero che i falsi ottocenteschi sono muniti di una piccola apertura per l’espletamento delle funzioni fisiologiche, ma sarebbe stata impossibile l’igiene conseguente … Se fosse stata vera questa diceria, i Crociati sarebbero rimasti tutti vedovi, perché le mogli sarebbero irrimediabilmente morte tutte di setticemia!
4) Poiché era alto il rischio di non tornare, era uso dei cavalieri giacere con la consorte prima della partenza in modo da assicurare discendenza alla stirpe. Come avrebbe potuto partorire la dama con quell’arnese addosso?
Com’è nata questa diceria di nessuna credibilità?

Nel rituale romano di vestizione del sacerdote, l’officiante indossa sopra la tunica una cinta, pronunciando le parole: “Praecinge me, Domine, cingulo puritatis, et exstingue in lumbis meis humorem libidinis; ut maneat in me virtus continentiae et castitatis” (4)

Dante, che avvisa (5)
“O voi che avete gl´ intelletti sani,
Mirate la dottrina che s´asconde
Sotto il velame delli versi strani!” (6)
utilizza la cintura come simbolo della castità (7):
Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta (8)

È attestato l’uso dei cavalieri di cingere con una corda la tunica dell’amata quale promessa di fedeltà (9). La cintura era – dunque – un simbolo di castità e di fedeltà, tanto da essere utilizzata anche nelle iconografie di Maria per simboleggiarne la purezza (10). La “cattiva stampa” sul Medioevo ha fatto il resto, e dal simbolo si è passati alla diceria. Credenza diffusissima quella secondo cui nel diritto feudale il feudatario avesse il diritto di “giacere” con le novelle spose prima che lo facessero con il marito. Logicamente, ciò senza alcuna fonte, né documentale, né letteraria.Il diritto medievale è ben conosciuto. Molti istituti giuridici ancora in vigore sono nati proprio nel Medioevo(titoli di credito, società commerciali, fallimento, contratti di assicurazione) (11) Non c’è dubbio che, ove fosse stato codificato, di un istituto del genere ci sarebbe traccia nei trattati dei giuristi medievali. Né in letteratura è dato trovare qualcosa di simile.

Un accenno ad un’usanza simile si ritrova nel Gilgamesh (1500 anni prima che cominciasse il Medioevo!). Il re di Ur protagonista del poema aveva imposto ai suoi sudditi tale prassi. Ma anche nel poema è narrata come abuso, non come diritto, tanto è vero che il poema comincia proprio con la ribellione dei cittadini di Ur a tale abuso. La letteratura medievale conosce pagine e pagine in cui si parla liberamente di sesso: il Decameron, i Canterbury Tales, tra i più famosi. Ma anche nei Fabliaux e nelle Cent Nouvellesnouvelles (o Les Cent Nouvellesduroi Louis XI) si parla a profusione di sesso, di beffe basate su stratagemmi licenziosi. Non c’è alcun cenno al presunto diritto del feudatario. Non solo, ma in alcune novelle sono descritte situazioni che contraddicono l’esistenza di tale diritto. La 55^ novella, per esempio, narra di un signore che, per avere favori sessuali da una popolana, le fa credere che ciò l’avrebbe preservata dalla peste. È del tutto evidente cheil signore non avrebbe escogitato questo stratagemma, ove avesse avuto il diritto di pretendere rapporti sessuali con i propri sudditi. La diceria – invece –appare nella letteratura più tarda. Vi è un cenno in “Le mariage de Figaro” di Beaumarchais. Voltaire scrive nel 1762 la commedia in cinque atti “Le droitduseigneur” basata appunto sulla presunta sussistenza dello ius primae noctis. In epoca più recente, ne parlano Ken Follet in“I Pilastri della Terra” e Cataldo Amoruso in “Il Conte di Melissa”. Anche la filmografia riprende la leggenda, come Mel Gibson in Braveheart. Pasquale Festa Campanile basa su tale credenza tutta una commedia scollacciata dal titolo Ius Primae Noctis.

Dunque, nessuna traccia, né nelle fonti storiche, né in quelle letterarie. In una società cristianizzata, tra l’altro,sarebbe del tutto impensabile una tale profanazione del sacramento del matrimonio. Viepiù, le cronache riportano di rivolte contadine durante tutto l’arco del medioevo, rivolte che iniziavano con un cahier de doléance in cui erano elencati i motivi del malcontento. In nessun caso è attestata la richiesta di abolizione di un privilegio feudale che, se esistente, sarebbe stato davvero odioso (12). Una leggenda, dunque. Ma come è nata? Etnologicamente, è attestato il rito della “prelibazione” attraverso il quale la rottura dell’imene era demandato ad un determinato personaggio, che variava a seconda dei luoghi (una cosa del genere è narrata da Erodoto presso gli Etiopi 13). Poiché spesso tale rito era affidato ai capi tribù (il re degli Etiopi, secondo Erodoto), probabilmente, con la formazione della “leggenda nera” del feudalesimo come sopruso nei confronti degli amministrati, sono sorte anche le leggende sull’esistenza di un sopruso ulteriore come lo ius primae noctis.

Il primo libro di storia in cui è menzionata l’esistenza di questo “diritto” è Scotorum Historiae (1527), nelle quali lo scozzese Hector Boece disegna la storia della Scozia dalle origini all'avvento al trono del re Giacomo III. Boece ne attribuisce l’istituzione a Evenio III, e l’abrogazione a Malcolm III Canmore, il marito di Margherita di Scozia. Sta di fatto che abbiamo abbastanza documenti su Malcolm III Canmore, re di Scozia dal 1058 al 1093. Ma non esiste alcun documento circa l’abrogazione dello iusprimaenoctis che sarebbe preesistito al suo regno. Non solo, ma non è mai esistito un re di Scozia di nome Evenio III. In realtà, dopo Boece, molti storici, soprattutto locali, fecero propria questa credenza. Ma, al riguardo, nessuno storico ha mai detto che lo iusprimaenoctisfosse attestato “hic et nunc”. L’istituto è riferito, di solito, a popolazioni “selvagge” (rito della “prelibazione”), o ad un’epoca lontana (con tanto di lodi ai “riformatori” che l’avevano abrogato, di solito antenati di qualche esponente del potentato locale) (14). Gli storici cinque-seicenteschi sono stati tratti in inganno dalla presenza, nella fiscalità feudale, di una sorta di tassa sul matrimonio. Poiché le prestazioni patrimoniali di solito erano il corrispondente nummario di prestazioni personali, si pensò che tale tassa sostituisse il primigenio ius primae noctis (15). È inutile dire che protestanti e illuministi si gettarono sulla “leggenda nera” e ne fecero oggetto dell’opera di denigrazione dell’intero medioevo.

“V’immaginate il levar del sole nel primo giorno dell’anno Mille? Questo fatto di tutte le mattine ricordate che fu quasi un miracolo, fu promessa di vita nuova, per le generazioni uscenti dal secolo decimo? … E che stupore di gioia e che grido salì al cielo dalle turbe raccolte in gruppi silenziosi intorno a’ manieri feudali, accasciate e singhiozzanti nelle chiese tenebrose e nei chiostri, sparse con pallidi volti e sommessi mormoni per le piazze e alla campagna, quando il sole, eterno fonte di luce e di vita, si levò trionfale la mattina dell’anno Mille!”. Con queste parole di Giosuè Carducci (16) si può sintetizzare la “madre di tutte le leggende” sul medioevo. Secondo molti (a cui mostra di credere anche Montanelli 17 …) alla vigilia dell’anno Mille tutta l’Europa viveva nel terrore che non sarebbe mai cominciato il secondo millennio. Sarebbe arrivata la fine del mondo il 31 dicembre 999. Perché? Nell’Apocalisse c’è un passo in cui si dice che il regno di Cristo sarebbe durato mille anni. E siccome Dionigi il Piccolo, aveva calcolato (con molta imprecisione) l’anno di nascita di Gesù, ecco qui la credenza.

Logicamente, i denigratori del medioevo non fanno mancare la denigrazione della Chiesa Romana: tutti aspettavano la fine del mondo e per purificarsi dai peccati, avrebbero arricchito la Chiesa con abbondanti donazioni. Va premesso che la fine del mondo è effettivamente attesa dai Cristiani, che hanno una concezione lineare della storia, che parte dalla Creazione e finisce con la παρουσία – il ritorno di Cristo. Et iterum venturus est cum gloria, iudicare vivos et mortuos recita il Simbolo Niceno. Il punto è che nessuno si è mai sognato di predire una data per questo evento. O meglio, qualche esaltato di quando in quando se ne esce fuori con cose del genere, ma nessuno è stato mai preso sul serio in grande scala. Già Agostino d’Ippona aveva chiaramente ammonito a non interpretare alla lettera le sacre scritture (v. infra), ma le persone sane di mente hanno sempre confutato questi annunciatori della fine del mondo. Logicamente, non si trova alcun testo che predica la fine del mondo l’1.1.1000. Non solo, ma una serie di eventi smentisce in modo clamoroso questa vera e propria “invenzione” (vedremo poi il responsabile). Innanzitutto, non si capisce quale fosse questa “alba del 1000” in cui avrebbe dovuto finire il mondo. Montanelli immagina che le scene descritte da Carducci sarebbero avvenute la notte di san Silvestro, ma è un chiaro anacronismo, perché la convenzione dell’inizio dell’anno al 1° gennaio è molto più tarda.

A Costantinopoli, non contavano gli anni dalla nascita di Gesù, ma dalla Creazione e l’anno cominciava il 1° settembre. Ma anche in Europa l’anno non cominciava dovunque nel medesimo giorno: a Roma il 24 dicembre, a Firenze il 24 marzo, in Francia il giorno di Pasqua. Ma vediamo che succedeva a ridosso dell’anno 1000. Nel 976 sale al trono imperiale d’Oriente Basilio II, che regnerà per quasi cinquant’anni. Si dà da fare parecchio. Verrà nominato bulgaroctono perché debellerà definitivamente la minaccia bulgara sull’impero. Nel 988 scoppia la guerra di Crimea con i Ru’s di Kiev, che Basilio chiude dando in sposa allo Zar Vladimir il Grande la sorella Anna Porfirogeneta. I Russi convertono al cristianesimo ed insieme cominciano la grande campagna contro i Bulgari, che vengono quasi annientati nel 999 (sic!), quando deve dedicarsi agli islamici che avevano invaso la Siria. Nel frattempo stipula un trattato commerciale con Venezia. Intraprende una campagna contro i Fatimidi ricacciandoli dalla Siria una prima volta nel 996 ed una seconda nel 999. Intraprende trattative matrimoniali con l’imperatore d’occidente Ottone III, mette lo zampino nella elezione del vescovo di Roma prendendo parte attiva al “ribaltone” che portò sul soglio di Pietro il calabrese Giovanni Filagato nel 998 (ne riparleremo) (18).

Ma vi pare che fosse uno che aspettava la fine del mondo? E se ci fosse stata davvero l’attesa per la fine del mondo, soldati imperiali e russi si sarebbero davvero imbarcati in queste guerre contro bulgari e Fatimidi? E veniamo in Occidente. L’impero era risorto con i Sassoni, a cominciare da Ottone I. Ottaviano dei conti di Tuscolo, eletto vescovo di Roma nel 955, con il nome di Giovanni XII, aveva incoronato imperatore il sassone nel 963, riesumando la corona imperiale. E – praticamente - si erano scambiati i favori: Ottone aveva aiutato Ottaviano a restare sul soglio di Pietro e questi, in cambio, gli aveva concesso di mettere becco sull’elezione dei suoi successori (privilegium Othonis 19).

Arriviamo a ridosso della presunta “fine del mondo”. 996: muore il vescovo di Roma Giovanni XV. Imperatore è Ottone III, che si avvale del privilegio del suo antenato e briga per far eleggere il cugino Brunone di Carinzia, che sale al trono papale con il nome di Gregorio V. Basilio II bulgaroctono vuole riaffermare il privilegio imperiale nell’ambito una diatriba tra i due imperi che dura dai tempi di Carlo Magno (20) e appoggia una rivolta del patriziato romano, capeggiata da Crescenzio II Nomentano che porta alla deposizione di Brunone ed elegge il rossanese Filagato, “sponsorizzato” anche dal suo concittadino Nilo. Ottone reagisce, convoca un sinodo di vescovi che dichiara abusiva l’elezione di Filagato, muove verso Roma e rimette sul trono il cugino nel 998 (21).

Vi pare gente che sta aspettando la fine del mondo? Ma andiamo avanti: Brunone muore presto, nel 999, e Ottone fa eleggere vescovo di Roma il suo precettore, l’aquitano Gérbert d’Aurillac. Grande filosofo, teologo, matematico, che assume il nome di Silvestro II. Gérbert, in sinergia con Ottone, e senza alcuna pretesa di supremazia sacerdotale sull’Impero, promuove una serie di iniziative atte a riprendere il dialogo con il mondo islamico (conosceva benissimo l’arabo ed il persiano, nonché la cultura islamica), riprende il progetto carolingio della renovatio imperii, introduce l’abaco in Europa (c’è chi sostiene che abbia introdotto anche i numeri arabi, ma il dato è controverso), appiana diatribe all’interno della Chiesa, favorisce la nascita di chiese nazionali, fonda abazie, rinnova privilegi pluriennali alle istituzioni ecclesiastiche già esistenti:
• nel 999 conferma alla cattedrale di Reims il Privilegiodi unzione dei re di Francia;
• il 15-18 Aprile 999 attribuisce all’abazia di Helmarshausen, San Lamberto Martire il Privilegio di elezione dell’abate);
• il 19 Aprile 999 attribuisce all’abazia di San Salvatore e San Benedetto di Leno il attribuisce all’abazia di amministrazione del fondo;
• il 26 Aprile 999 attribuisce al monastero di San Pietro e San Servato Confessore di Quedlinburgil Privilegio di eleggere la badessa;
• il 31 dicembre 999, cioè proprio quando, secondo Carducci, avrebbe dovuto stare a tremare aspettando la fine del mondo, conferma all’abazia di Fulda il Privilegio di elezione dell’abate. (22)

Vi pare uno che aspetta la fine del mondo? Ma, anche nella vita di tutti i giorni, non c’è traccia dell’esistenza di questa attesa tremebonda. Solo un esempio: proprio nel 999, l’abbazia di Sam Tommaso in Foglia, a Montelabbate, concede in affitto alcuni terreni per la durata di trent’anni. Vi sembra gente che aspetta la fine del mondo? Come nasce questa leggenda? Nasce da alcuni presunti “indizi” storici che è veramente incredibile come abbia potuto avere successo nella storiografia successiva (23), tanta è la pretestuosità di chi li ritiene probanti. Manco a dirlo, è un figlio della Rivoluzione Francese a cominciare: riprendendo una semplice frase di William Robertson di 50 anni prima, Jules Michelet, nella sua Histoire de France (24), dice sostanzialmente che tutti aspettavano la fine del mondo per l’anno Mille, e dice anche il perché. Secondo Michelet, nel Medioevo erano tutti creduloni e superstiziosi, stavano tutti malissimo ed abbracciarono questa idea quale placebo per il riscatto dalla miserrima condizione in cui versavano. La “balla di Michelet” (25) ebbe subito successo: Simondo Sismondi, Camille Flammarion, Victor Duruy, Ferdinand Gregorovius, recepirono acriticamente non solo la bulala, ma anche la sua “motivazione”.

Solo negli ultimi decenni gli storici paiono rinsaviti. E non del tutto: ancora si trovano libri di taglio divulgativo che riportano questa idiozia. Del rinsavimento dobbiamo dare atto agli italiani (Gioacchino Volpe, Raffaello Morghen ed Ernesto De Martino in primis e – più di recente – Franco Cardini, Chiara Frugoni ed Alessandro Barbero), ma anche i francesi, come Le Goff, che spiega con dovizia di riferimenti come il termine “mille”, ricorrente nell’Apocalisse, non indichi un numero preciso, ma significhi “molti” (26) (anche le armi dell’Anticristo sono “mille” nel testo giovanneo).

Molti manuali scolastici così raccontano la scoperta dell’America. Colombo sapeva che la Terra era sferica, ma l’oscurità del medioevo impediva agli scienziati di dirlo onde, quando propose di andare in Oriente passando per l’Occidente sfruttando la sfericità della Terra, tutti lo presero per pazzo, perché tutti sostenevano che la Terra era piatta. Solo Isabella di Castiglia gli diede retta e gli finanziò la spedizione. È una balla colossale. A dire il vero, per smentirla, basterebbe poco, senza lunghi discorsi: basterebbe guardare una qualunque immagine di un imperatore, d’Oriente o d’Occidente. L’imperatore è ritratto con un globo in mano, per lo più sormontato da una croce.

Ma andiamo per ordine.
Che la Terra fosse sferica, lo sapevano già i Greci. C’è una diatriba su chi sia stato il primo a intuirlo, tanto che Diogene Laerzio dice: “Ἀλλὰ µὴν … πρῶτον… τὴνγῆνστρογγύλην· ὡςδὲ Θεόφραστος Παρμενίδην· ὡςδὲ Ζήνων, Ἡσίοδον” (27). Ma, di chiunque sia la paternità della “scoperta”, era un dato acquisito nella cultura greca e, più tardi in quella romana: Platone, Aristotele, Cicerone, tutti parlano della sfericità della Terra. Addirittura, Eratostene, nel III secolo a.C., misurò la circonferenza della Terra, costruendo una macchina detta “sfera armillare” (v. figura) che calcolava il moto dei pianeti e dei corpi astrali, al centro della quale era riprodotta la Terra, naturalmente di forma sferica … ça va sans dire ... Ma a tali semplici considerazioni soccorre l’ars denigrandi il Medioevo. Sì, gli antichi lo sapevano, ma nel Medioevo erano tutti superstiziosi ed ignoranti, interpretavano la Bibbia alla lettera e perciò preferivano credere che la Terra fosse piatta, dimenticando gl’insegnamenti degli antichi. Oh, non è che i cristiani non ci abbiano provato, a cominciare da quell’esaltato di Lattanzio, ma già Agostino d’Ippona pone un freno. Nel suo “De Genesi ad litteram”, dice sostanzialmente: cari cristiani, non interpretate alla lettera le scritture, se non per le questioni di fede - sulle questioni naturali, lasciate fare agli scienziati, altrimenti gli scienziati pagani, che non conoscono le scritture, ma conoscono bene le loro scienze, come potranno credervi su questioni spirituali come l’immortalità dell’anima se vedono che le scritture contraddicono i principi naturali? (28).

In effetti, la lezione di Agostino servì, perché – almeno sulla sfericità della Terra – quelli che la negavano sulla base delle Sacre Scritture non ebbero molto seguito. Vediamo un po’ che succede in quei “secoli bui”. Beda il Venerabile, un monaco inglese vissuto nel VII secolo, scrive un trattato, De temporum ratione, in cui dice chiaramente che la terra è un globo. Il trattato ha larghissima diffusione, viene tradotto anche nelle lingue nazionali e si può dire che per secoli non mancò mai in qualunque biblioteca appena fornita. Andiamo avanti. Gérbert d’Aurillac, di cui abbiamo già parlato riguardo alla leggenda della “paura dell’anno Mille”, prima essere eletto vescovo a Roma fu un apprezzato scienziato, filosofo, matematico. Uno dei più grandi intellettuali della sua epoca, se non il più grande. Nella sua attività didattica, tra il 972 ed il 982 scrisse ad un suo allievo, il monaco Costantino, una lettera, “De sphaerae constructione” (29), in cui tratta del moto dei pianeti e spiega la tecnica costruttiva della sfera armillare di Eratostene. Probabilmente l’aveva imparato dagli arabi, ma sta di fatto che un vescovo a Roma, 20 anni prima della sua elezione aveva istruito un monaco a costruire la sfera armillare.

Andiamo ancora avanti. Giovanni di Sacrobosco, studioso inglese d’origine, ma francese di adozione, vissuto nel XIII secolo, scrisse il Tractatus de sphaera, in cui descrive il movimento dei pianeti dando per scontata la sfericità della Terra. Contemporaneamente, l’italiano Guido Bonatti scrive il Liber decem continens tractatus astronomiae, in cui, contaminando astronomia ed astrologia, individua – comunque – l’universo come un insieme di sfere. I due trattati ebbero grandissima diffusione, tanto da essere tra i primi testi stampati nel XV secolo. Anche in letteratura, i testi medievali che si occupano di viaggi immaginari, come il Mainauer Naturlehre – libro svizzero di viaggi XIV secolo, danno per scontata la sfericità della Terra. La stessa struttura della Commedia dantesca non può concepirsi se non immaginando la Terra come una sfera, e tale fu raffigurata dagli illustratori medievali.

E allora? Perché Colombo trovò difficoltà nel finanziamento del suo progetto? Semplicemente perché Colombo o si sbagliava o barava. Tutti sapevano che la Terra era sferica, ma fino a Magellano nessuno poteva sapere quanto fosse grande. I portoghesi scartarono il progetto perché, doppiando il Capo di Buona Speranza, sapevano bene che i calcoli di Colombo sulla circonferenza della Terra erano sbagliati. Detto per inciso, Eratostene aveva sbagliato di poco: aveva calcolato in circa 40.500 Km la circonferenza della Terra (in realtà è 40.009 – errore dell’1,21%). Colombo, invece, l’aveva calcolata (o, comunque, diceva di averla calcolata) in meno della metà (30). Qualcuno ha sostenuto che, se non avesse scoperto l’America andandoci a sbattere, Colombo sarebbe morto di sete, perché aveva stimato di dover compiere un viaggio molto più breve di quello che avrebbe dovuto compiere se avesse dovuto raggiungere “le Indie”. Qualcun altro, invece, ha sostenuto che Colombo sapesse o intuisse l’esistenza di un continente tra Europa ed Asia Ma ai fini della confutazione di questa leggenda denigratoria sul Medioevo non importa. Chi si oppose al viaggio di Colombo riteneva (a ragione) che Colombo sbagliasse i calcoli e che, dunque, per "Buscar el levante por elponiente", come voleva lui, si sarebbe dovuto attrezzare per un viaggio molto più lungo (e, dunque, più costoso), non perché “gli altri” ritenessero piatta la Terra! Ma com’è nata questa leggenda? È davvero difficile risalire alla sua origine. Si è diffusa senza che nessuno abbia assunto la paternità di questa ennesima balla sul Medioevo,

Note:

1 -Medioevo cristiano, Laterza, Bari 1984, p. 15
2 - Corriere della Sera 26 settembre 1979, intervista di Oriana Fallaci a Ruhollah Kho-meini
3 - White Jr., Lynn, ‘Kyeser’s “Bellifortis”: The First Technological Treatise of the Fif-teenth Century’, Technology and Culture, Vol. 10, No. 3 (1969).
4 - Cingimi, Signore, con il cingolo della purezza e prosciuga nel mio corpo la linfa della dissolutezza, affinché rimanga in me la virtù della continenza e della castità
5 - Inf., IX, 61-63
6 - L’avviso di Dante è chiaramente riferito a vari “livelli” di lettura dei suoi versi – cfr. René Guénon, “L’esoterismo di Dante”, Adelphi 2001
7 - Inf., XVI, 106-108
8 - La lonza simboleggia la lussuria e, dunque, il cordiglio, per contrapposizione, la castità – cfr. Giuseppe Vandelli, edizione 1983 della Divina Commedia a cura della società dantesca italiana. Il dato è contestato da Mario Alinei, Dante rivoluzionario borghese, Per una lettura storica della Commedia, Edizioni Piemme, Velletri 2015, pp. 52 ss., che tenta una lettura “politica” dell’allegoria. Ma, come detto, i “livelli” di lettura della Commedia sono diversi e l’una cosa non escluderebbe l’altra.
9 - Il rito è descritto nel Lai de Guigemar di Maria di Francia.
10 - Segnaliamo un raro libro del 1660 addirittura monografico su questo simbolo: Beniamin Zacco,“L'eccellenze della sacra cintura di Maria vergine santissima madre di Dio, e di consolatione”.
11 - Paolo Grossi “L'ordine giuridico medievale”, Laterza, Bari-Roma 2017, p. 151
12 - Una trattazione esaustiva sulle rivolte medievali contro i signori: AA.VV., “Rivolte urbane e rivolte contadine nell'Europa del Trecento: un confronto”, a cura di Monique-Bourin, Giovanni Cherubini, Giuliano Pinto, Firenze University Press, 2008
13 - Er., III, 20
14 - cfr. Giuseppe Sergi. “L'idea di Medioevo, fra storia e senso comune”, Donzelli 1997, pp. 5 ss.
15 - Ritiene che sia questa la ragione dell’origine della leggenda Guido Astuti, voce “Ius primae noctis” in “Enciclopedia Giuridica Italiana”, Giuffrè Milano 1968
16 - Introduzione ai suoi discorsi "Dello svolgimento della letteratura nazionale", per gli studenti dell’Università di Bologna. Si può trovare, tra l’altro, in Antologia Carducciana; poesie e prose scelte e commentate da Guido Mazzoni et Giuseppe Picciola, Zanichelli, Bologna 1957, pp. 429 ss.
17 - Montanelli – Gervaso, “L’Italia dei secoli bui”, Rizzoli, 1967, cap. XLIV
18 - Su Basilio II “bulgaroctono”, esiste la monografia di Giulio Impaccianti del 1809 - cfr. Gustave Léon Schlumberger,“L'Épopéebyzantine à la fin du Xesiècle. Seconde partie, Basile II le tueur de Bulgares”, Hachette, Paris 1900
19 - Marina Montesanto, “La lotta per le investiture”, Corriere della Sera - Grandangolo, Milano 2015, pp. 46 ss.
20 - Sul punto: Franco Cardini e Marina Montesano, “Carlo Magno e il Sacro Romano Impero”, Corriere della Sera - Grandangolo, Milano 2015
21 - Sul succedersi degli avvenimenti, cfr. Wolfgang Huschner, “Papa Gregorio V”, in “Enciclopedia dei Papi” a cura dell’Istituto Treccani
22 - Massimo Oldoni, “Papa Silvestro II”, in “Enciclopedia dei Papi” a cura dell’Istituto Treccani.
23 - Si riportano canoni ritrovati qua e là in cui si parla genericamente di fine del mondo imminente, ma frasi del genere si ritrovano anche nei secoli precedenti, e continueranno nei secoli successivi al X - già nel VII secolo è cristallizzata in atti notarili la formula “appropinquante fine mundi” – cfr. Giovanni Tamassia,“La formola Appropinquante fine mundi nei documenti del medio Evo” Vallardi, Torino 1887.
24 - Ripubblicata integralmente nel 2008 dalle Éditions des Équateurs. Michelet dice: "C'était une croyanceuniverselleaumoyenâge, que le monde devait finir avecl'an 1000 de l'Incarnation" – Nel Medioevo c’erauna credenza universale, che il mondo avrebbe dovuto finire con l’anno 1000 dall’incarnazione (p. 82 del vol. II).
25 - “La paura dell’anno Mille è una balla. Messa in giro nell’800 da Michelet”– Franco Cardini, intervistato da Antonio Rapisarda - Secolo d’Italia 16 dicembre 2012.
26 - Jacques Le Goff, “L’Uomo Medievale”, Laterza. Bari-Roma 1993, p. 24
27 - Vite dei Filosofi, VII, 48 – (Pitagora) sarebbe stato il primo … a dire sferica la terra, ma per Teofrasto quest'ultima affermazione sarebbe di Parmenide, e per Zenone di Esiodo
28 - De Genesi ad litteram, I, 18, 37-39. Il passo qui sintetizzato è: “Plerumqueenimaccidit ut aliquid de terra, de coelo, de caeteris mundi huius elementis, de motu et conversione veletiam magnitudine et intervallis siderum, de certis defectibus solis ac lunae, de circuiti busannorum et temporum, de naturis animalium, fruticum, lapidum, atque huius modica eteris, etiam non christianus ita noverit, ut certissima ratione velexperientia teneat. Turpe est autemnimis et perniciosum ac maxime cavendum, ut christianum de his rebus quasi secundum christianas Litteras loquentem, ita delirare audiat, ut, quemad modum dicitur, toto coelo errare conspiciens, risum tenere vix possit. Et non tam molestum est, quod errans homo deridetur, sed quod auctores nostri ab eis qui forissunt, tali a sensisse creduntur, et cum magno eorum exitio de quorum salute satagimus, tamquam indoctire prehendunturat que respuuntur. Cum enim quem quam de numero Christianorum in ea re quam optime norunt, errare comprehenderint, et vanam sententiam suam de nostris Libris asserere; quo pactoillis Libris crediturisunt, de resurrectione mortuorum, et de spe vitae aeternae, regnoque coelorum, quando de his rebus quasi amexperiri, velin dubitatis numeris percipere potuerunt, fallaciter putaverint esse conscriptos? Quid enim molestiae tristiti aeque ingerant prudentibus fratribus temerarii praesumptores, satis dici non potest, cum si quando de prava et falsa opinatione sua reprehendi, et convinci coeperint ab eis qui nostrorum Librorum auctoritate non tenentur, ad defendendum id quod levissima temeritate et apertissima falsitate dixerunt, eosdem Librossanctos, unde id probent, proferre conantur, veletiam memoriter, quae ad testimonium valere arbitrantur, multa inde verba pronuntiant, non intellegentes neque quae loquuntur, neque de quibus affirmant”.
29 - Gérbert d’Aurillac, Lettere, traduzione a cura di Paolo Rossi, Plus, Pisa 2009, p. 190
30 - Antero Reginelli, “Colombo - Diario del viaggio che ha cambiato il mondo” - Independently published, 2017, p. 5.

Luigi Morrone

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XXIII Marzo 1919: i 100 anni del Fascismo – Enrico Marino

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100 anni fa in Italia avvenne l’unica Rivoluzione che la storia del nostro Paese possa annoverare. La realizzarono insieme i Futuristi, gli Arditi che avevano combattuto con audacia, i Fanti delle trincee, buona parte dei legionari fiumani di D’Annunzio, i primi socialisti interventisti, i sindacalisti nazionali, gli anarchici dei fasci d’azione rivoluzionaria, alcuni repubblicani, molti socialisti riformisti, borghesi e operai, intellettuali e contadini, signori e popolani, poeti e artisti, c’era tutta l’Italia migliore di quell’epoca unica e irripetibile. C’erano i giovanissimi che dalle trincee e dalle università sciolsero al vento le bandiere di un fascismo irruente e scanzonato, antidogmatico e innovatore. C’era tutta la “meglio gioventù” che volle realmente dare “l’assalto al cielo” per creare uno Stato nuovo e non le frattaglie libertarie, comunistoidi e terzomondiste che dopo il ’68 - quando non precipitarono nell’abisso del terrorismo - la cosa migliore che seppero fare fu sballarsi di spinelli o andare a tagliare la canna da zucchero a Cuba.

In quell’Idea si riconobbero il padre del Futurismo italiano Filippo Tommaso Marinetti e il Vate Gabriele D’Annunzio che ispirò l’istinto anti-borghese del primo fascismo, affiancati nel prosieguo della storia a personalità come quella di Italo Balbo, Ettore Muti, Giuseppe Bottai, Berto Ricci, Niccolò Giani, Alessandro Pavolini e Giuseppe Solaro a cui si aggiunsero, nel tempo, accademici come Giovanni Gentile, sommi scrittori come Luigi Pirandello, giuristi come Alfredo Rocco e Carlo Costamagna, i giovani architetti dell’Eur, poeti, filosofi e gli artisti “totali” come Duilio Cambellotti, solo per citarne alcuni, che costituirono un corpus antropologico così ricco e variegato che completò mirabilmente la gigantesca operazione riformista del regime che ha costruito, di fatto, l’impianto sociale dello Stato italiano. Questa imponente eredità del fascismo è rimasta impermeabile alla retorica antifascista che ha cercato inutilmente di sminuirla e di stravolgerne la memoria. Perciò, è stato necessario demonizzare il fascismo, negarne meriti e conquiste sociali, trasformarlo nello spettro “vivente” del dibattito pubblico, sventolarne strumentalmente il fantasma, per coprire le inadempienze e la mediocrità delle classi dirigenti democratiche. In assenza di fascismo, per decenni in Italia si è data la caccia alle streghe e si è legiferato ossessivamente contro un fascismo immaginario, ampliando le disposizioni transitorie della Costituzione, introducendo i reati di opinione (legge Mancino) e proponendo una stretta di fatto alle libertà di ricerca storica e di espressione.

Eppure, ricordando questo centenario, in tutte le città d’Italia, da più parti, in ogni dove, con diversi raggruppamenti, con singole manifestazioni di fede, migliaia di italiani di ogni età hanno festeggiato, celebrato, rivendicato e lasciato il segno, in ogni modo, di una fede e di una presenza ideale irremovibile. E se questo spirito è ancora vivo, dopo una guerra perduta e decenni di propaganda infamante, è evidente che quell’Idea aveva qualcosa di magico che ha catturato per sempre l’animo del Paese. Perciò, quelli che mal sopportano questa evidenza sono impazziti di rabbia e hanno protestato e vomitato tutto il loro livore, incapaci come sono di chiedersi dove hanno fallito se, dopo quasi 75 anni di potere assoluto antifascista, con il controllo totalitario di ogni aspetto della vita nazionale, devono prendere atto che l’Italia vagheggia altro da loro e vuole un domani nuovo e diverso, lontano dalle loro ipoteche, dai loro intrallazzi e dalle loro infamie.

Un domani che non ripercorra sentieri impossibili e irripetibili, ma che sia affrancato dai diktat delle élite finanziarie, delle agenzie di rating, della Commissione Europea, dal pareggio di bilancio, dalla BCE e da tutti quei vincoli che antepongono gli interessi economici alla sostenibilità della vita, al benessere dei popoli e all’aiuto dei più deboli. Un domani che privilegi la socialità rispetto alle aride leggi dell’economia e non sia ostaggio della globalizzazione, della concorrenza sfrenata, del turbocapitalismo e del liberismo. Insomma, un domani depurato dalla schiavitù dell’usura e del profitto senza limiti e dalle ossessioni antifasciste che erano estranee persino ai tanto osannati padri costituenti.

Se si leggono i verbali dell'assemblea costituente, datati 3 Ottobre 1946, si può notare come costoro all'epoca avessero un approccio culturale e politico di ben diverso spessore rispetto a quello dei loro grotteschi attuali eredi. Alcuni interventi di rilievo forniscono addirittura una interpretazione meno settaria del fascismo, visto non come il male assoluto, ma considerato come reazione al liberismo giudicato il vero pericolo per le sorti dell’umanità. Il liberismo venne addirittura indicato come la causa principale della seconda guerra mondiale. Palmiro Togliatti ebbe a dire: “Tutti capiscono la realtà della vita economica di oggi; tutti hanno visto come si sia sviluppata la vita economica nell'Europa capitalista, dove si è assistito a forme di concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, e come ne siano derivati sconvolgimenti sociali, la miseria, la guerra, il fascismo, la tirannide, che ha soppresso la libertà democratica. È a questo che si cerca di porre riparo."; Aldo Moro affermò: "è effettivamente insostenibile la concezione liberale in materia economica, in quanto vi è necessità di un controllo in funzione dell'ordinamento più completo dell'economia mondiale, anche e soprattutto per raggiungere il maggiore benessere possibile"; Gustavo Ghidini (7 Maggio 1947) fu categorico: "Se si lascia libero sfogo alla legge della libera concorrenza e alla libera iniziativa animata solo dal fine del profitto personale, si arriva pur sempre al supercapitalismo (...) fra le quali primeggia la guerra tremenda che fu la rovina di tanti popoli."

Sarebbe stato più saggio se la XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione “più bella del mondo” si fosse occupata del liberismo e della “demonìa dell’economia”, veri mali assoluti di ogni società democratico borghese, piuttosto che della ricostituzione del PNF, per mettere la Repubblica al riparo dai reali pericoli che incombono sulla Nazione. Forse andrebbe proprio riscritta quella Costituzione che fu pensata da chi non immaginava potesse essere piegata per consentire a un manipolo di fanatici di conseguire i propri loschi interessi economici e politici, per creare un nuovo elettorato e un esercito di riserva dal quale attingere all’infinito, per sostituire e imbastardire il popolo italiano.

Anzi, se si spinge lo sguardo all’indietro, ai patrioti del nostro Risorgimento, ci si accorge che oggi anche loro verrebbero definiti come “razzisti” dai volgari esponenti del pensiero unico e dai sacerdoti laici del politicamente corretto. Per Mazzini, valeva una concezione della Nazione imperniata su di “una appartenenza ascrittiva (cioè oggettiva, che prescinde dalla scelta del singolo individuo); l’essenza biologica che connota l’appartenenza ad una stessa comunità (la medesima fisionomia); i caratteri culturali (la lingua) e naturali (il suolo) che le sono propri”. Con termini moderni: sangue, lingua e terra forgiano una identità nazionale. Non il casuale luogo dove si nasce.

Il luogo dove nasci ti plasma, nei millenni. Non sei medico solo perché nasci in ospedale. Da Manzoni (“una [l’Italia] d’arme, di lingua, d’altare /Di memorie, di sangue e di cor”), a Gioberti (“v’ha bensì un’Italia e una stirpe italiana congiunta di sangue, di religione, di lingua scritta ed illustre”) fino a Francesco De Sanctis (“saremo una nazione di ventisei milioni di uomini, una di lingua, di religione, di memorie, di coltura, d’ingegno e di tipo”) e Cavour (“una [l’Italia] la rendono la stirpe, la lingua, la religione, le memorie degli strazi sopportati e le speranze dell’intiero riscatto”), terra, sangue e cultura sono elementi inscindibili. L’idea che li sottende non è negoziabile. Non è mutabile per legge. Non si può essere italiano di origini nigeriane o tunisine.

Si può avere una carta di identità o un passaporto, ma non si può rivendicare una stirpe. Quando si discussero in Parlamento le norme sulla cittadinanza, un altro patriota, Stanislao Mancini disse: “l’uomo nasce membro di una famiglia, e la nazione essendo un aggregato di famiglie, egli è cittadino di quella nazione a cui appartengono il padre suo, la sua famiglia. Il luogo dove si nasce, quello dove si ha domicilio o dimora, non hanno valore né significato. E sia lode al novello Codice, il quale ha reso omaggio a questo grande principio pronunciando essere italiano chi nasce, in qualunque luogo, da padre italiano, cioè di famiglia italiana”. Ecco che lo ius soli è la morte della Patria, la negazione della nostra Identità e un insulto alla memoria di chi ha lottato per la libertà e l’indipendenza dell’Italia. Perché ‘chi sei’ non dipende da una tua scelta. E’ una realtà oggettiva.

Esattamente come l’essere maschio o femmina. Anche questo un concetto posto sotto l’attacco dell’entropia moderna. Perché vogliono l’uomo senza identità. Il suddito perfetto e androgino. Meglio ancora se ibridato e meticcio, puntando sulla strada della sostituzione etnica, speculando sul calo della natalità, ma opponendosi a ogni prevenzione dell’aborto, non additato come un dramma ma celebrato come una conquista sociale, senza offrire alle donne e alle famiglie un aiuto né alcuna alternativa di vita e di speranza. Ecco perché l’abrogato Titolo X del Codice penale (R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398) recitava a proposito dell’aborto, procurato o volontario, come “Dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe”, perché considerava i nati italiani come un bene prezioso della Nazione e non una semplice cellula, ovvero un elemento talmente insignificante da consentire che su di esso si potesse esercitare l’insindacabile e assoluto potere di vita o di morte della donna.

Ma l’antifascismo è stato anche questo, cioè la giustificazione della perversione dei canoni odierni, la sovversione della natura, l’affermazione del relativismo e la creazione arbitraria di diritti innaturali. Per questo milioni di italiani, per ragioni di semplice buon senso e non ideologiche, cominciano a riscoprire la validità eterna di certe leggi naturali, negate e vilipese, e a scegliere diversamente da come vorrebbero gli epigoni del progressismo e del mondialismo inumano. E quanti di noi sono rimasti fedeli a una Idea, ne riaffermano convintamente la rinnovata validità e attualità di certe tematiche. Insomma, ha cento anni ma non li dimostra.

Enrico Marino

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25 vinile: il disco rotto – Aulo Gallo

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Se numerosi testi parlano di quanto è avvenuto in Italia nella lotta fratricida consumatasi tra 1943 e 1945 poco si parla di quanto è avvenuto dopo. Eppure anche su quest’argomento è stato scritto, per quanto spesso la divulgazione sia stata minima. La guerra terminò certamente con il conclamato 25 aprile, ma non gli omicidi, le stragi e le rapine contro i civili inermi e contro coloro che si erano arresi.

 

La rapina come impresa.

Scrive Guido Minzoni a proposito delle operazioni partigiane in terra di Romagna: «Malgrado le roboanti testimonianze di tutti gli eroi comparsi a schiere dopo la fine del conflitto, all’Istituto Storico della Resistenza le azioni di maggior rilievo portate a termine in quell’epoca di transizione furono gli espropri proletari, o “colpi di recupero” che dir si voglia. Chi non si piegava al ricatto veniva il più delle volte massacrato come successe al direttore della Cassa di Risparmio di Lavezzola Ivo Mannini. Il comitato militare provinciale diramava in proposito la seguente circolare: A tutti i comitati militari di zona e di paese della Provincia di Ravenna – loro sedi. “Il ripetersi un po’ ovunque di colpi di recupero, sia di denaro che di altri generi e soprattutto l’indisciplina nella distribuzione, molte volte arbitraria, dei generi recuperati, come viene fatta dai compagni stessi, sta generando uno stato di cose che non può oltre tollerarsi. Non si può ammettere, per nessuna ragione che alcuni compagni approfittino dell’azione per impossessarsi indebitamente di una cosa o di un’altra. È semplicemente vergognoso che tali fatti vadano ripetendosi. Quei pochi compagni che tentano, con un atto incosciente o di basso interesse, di gettare una macchia sulla bandiera del nostro partito non sono degni di militare nelle file comuniste. Il partito comunista non è una associazione a delinquere, né un’associazione di mano nera, come alcuni pensano, ma è il partito d’avanguardia delle masse proletarie e contadine che oggi lottano con ogni mezzo per liberare l’Italia dal tedesco e dal traditore fascista. I colpi di recupero sono stati autorizzati ed anzi promossi, per sostenere il partito che non ha dovizia di mezzi e in particolare per assicurare l’esistenza dei patrioti, che non hanno né soldo governativo né banche finanziatrici, ma non si è inteso con i colpi di recupero di far regalare la catenina alla moglie o di guarnire il guardaroba di un qualsiasi compagno [etc.]» (Guido Minzoni, Il “Triangolo degli ignoti”. Stragi in Romagna durante e dopo la guerra civile, Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi R.S.I., L’Ultima Crociata Editrice, Rimini 1997, pp. 31-32).

 

Parole.

Si possono citare inoltre le illuminanti parole di Paolo Corsini (già Sindaco di Brescia, ha fatto parte del Partito Democratico della Sinistra e successivamente del Partito Democratico) nell’introduzione al lavoro Resistenza e guerra totale, recentemente pubblicato dalla Fondazione Luigi Micheletti: «Certamente le nuove generazioni che non hanno vissuto la Resistenza tendono ad investire su di un presente che esclude il passato di sangue e delle contrapposizioni, con il rischio di proporre una pacificazione, una riconciliazione come rimozione-negazione della storia, come reciproca richiesta di porre fra parentesi le ragioni degli schieramenti, come tregua in attesa della consunzione della memoria e del deperimento del ricordo. Occorre, viceversa, evitare ogni forma di accondiscendenza per quanti sono riluttanti a prendere coscienza del passato favorendone la rimozione sino a sottoscrivere lo “sdoganamento” dei vinti sulla base di una parificazione pietistica dei sacrifici sopportati dalle parti, di “tutte” le vittime» (Paolo Corsini, Introduzione, in Pier Paolo Poggio -a cura di-, Resistenza e guerra totale, Fondazione Luigi Micheletti, Grafo edizioni, Brescia 2006, p. 11).

In ogni caso è bene tenere a mente che la conoscenza dettagliata della Storia è necessaria per capire il passato in funzione del presente, ma è altrettanto necessario che il Popolo comprenda il proprio valore e le proprie capacità, ma non in funzione di una rivalsa sul passato, bensì per evitare di farsi abbindolare a vario titolo e soggiacere alle imposizioni di una nuova guerra, la cui insorgenza è sempre alle porte. Mai dimenticare l’adagio prettamente politico “divide et impera”.

 

A gennaio di quest’anno si è raccolta la testimonianza di una persona sui bombardamenti subiti dalla città di Milano e il discorso è andato inevitabilmente a concludersi con le vicende post belliche. Classe 1934, con discreta lucidità ha ricordato alcuni episodi legati ai bombardamenti e in particolare a quello di Gorla, ma con singolare precisione ha parlato del resto, dopo aver avuto la parola che non si sarebbe fatto il suo nome e si sarebbero scritti solo i fatti essenziali e privi di ogni dettaglio. Ad oggi ha ancora paura, non tanto per sé stesso, ma per eventuali conseguenze che potrebbero derivare alla propria famiglia: i figli e i nipoti. Il padre ha combattuto nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale come graduato, dovendo poi rendersi irreperibile perché cercato dai G.A.P. Dalla fine d’aprile del 1945 la madre è rimasta nascosta in cantina per circa 5-6 mesi, mentre il fratello, ufficiale della Divisione Folgore che aveva combattuto in Nord Africa passando successivamente nella R.S.I., è stato cercato e sempre dai “partigiani” fino ai primi mesi del 1948. La sorella, ancora minorenne, è stata sequestrata per due settimane da un gruppo di “gappisti” e segregata in una fabbrica subendo violenze soprattutto sessuali. È tornata a casa con le vesti stracciate, la testa rasata, con lividi ed abrasioni su tutto il corpo e un abuso mostruoso con cui convivere.

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Le vicende che hanno caratterizzato il dopoguerra italiano fino ai primi mesi del 1948 e in alcuni casi fino a ben dopo sono abbastanza note, ma anche di ciò i “media” non ne parlano, oppure in taluni ambienti si nega, si minimizza o più facilmente si raccontano fatti non veri. In pratica si giustifica il tutto con le parole “lotta antifascista”, occultando la verità e propalando ad oggi la “storia di facciata”, la quale senza increspature dipinge l’epopea “partigiana” facendola passare per “liberatrice”, ovvero attribuendo ad essa meriti militari che non ha mai avuto in tema di vittoria in campo tanto militare quanto civile. Ma tanti fatti si tacciono ed altri tranquillamente si dimenticano.

Non tutte le formazioni partigiane si macchiarono di crimini, ma innegabilmente quelle legate al Partito Comunista Italiano furono le peggiori. Difatti se è abbastanza facile indossare abiti civili per poter sparare alle spalle ai militari perfettamente distinguibili, è ancor più facile ammazzare coloro che si sono arresi e hanno consegnato le armi. E questo ignorando che i prigionieri di guerra, come visibile anche nei documenti, avrebbero dovuto essere tutelati e se rei di crimini dovevano subire un regolare processo.

 

La grande abbuffata.

Tra il 1945 e l’anno successivo migliaia di persone sono ammazzate in Emilia Romagna e basta menzionare, ad esempio e per tutte le stragi, le uccisioni avvenute nella zona del Ponte della Bastia sul fiume Reno ad opera dei “partigiani” comunisti. Riporta Guido Minzoni a proposito della bassa Romagna e del vano tentativo di dare sepoltura ai trucidati: «Scrive in proposito, nella cronaca del tempo, un comandante partigiano che combatté nella zona attigua a quella comandata da Pasi e da D’Alema, una cronaca che riproporremo più avanti integralmente: “Quelle zone furono liberate nottetempo senza che fosse sparato un sol colpo di fucile”. Dallo stesso giorno 10 [aprile 1945. N.d.A.] incominciarono le eliminazioni dei nemici del popolo locali, che si protrarranno per tutto il mese di aprile con identiche modalità; i morti ammazzati sono abbandonati dove avviene l’esecuzione ed i corpi, nella quasi totalità, vengono recuperati e sepolti nei vari cimiteri. Sarà solo nel successivo mese di maggio che la direzione del partito [comunista. N.d.A.] si preoccuperà delle possibili ripercussioni del fenomeno, per le proporzioni raggiunte, e ordinerà ai sicari delle formazioni partigiane non ancora smobilitate di occultare i cadaveri in maniera tale che non si trovassero più (…). Analizzando attentamente la data dei decessi si ricavano questi dati percentuali: - il 25% furono uccisi nella prima carneficina, quelli che furono nella quasi totalità rinvenuti e sepolti nei cimiteri; - il 50% furono le vittime della seconda ‘liberazione’ (mese di maggio), nella stragrande maggioranza ordinatamente occultate; - il rimanente 25% subì l’una e l’altra sorte nei mesi successivi. Sono passati cinquanta anni dai massacri ma non una parola è stata detta da un comunista per agevolare le ricerche. L’unico che ci provò, Otello Montanari, fu subito sconfessato dal partito e messo a tacere in malo modo. Non solo: l’omertà imposta col terrore ha fatto sì che le ricerche non approdassero mai a risultati positivi. Mai ci fu dato un aiuto o una speranza; quando sembrava in qualche occasione di essere arrivati ai margini di quelle fosse maledette, ancora una mano ci impediva di raggiungere i resti dei nostri morti; la mano ancora insanguinata del partito comunista. Le vicende della mia famiglia in quei giorni furono molte dolorose: il mio nonno Carlo fu il primo ad essere assassinato, il dodici di aprile, da ignoti, col classico colpo alla nuca. Fu trovato a qualche centinaio di metri dalla propria abitazione; aveva settanta anni (…). Venti sono i nomi di coloro che vennero eliminati a Giovecca nella seconda mattanza, come racconteremo più avanti, mentre le cronache parlano di 700. Essa, la più massiccia, coincide con l’ordine di smobilitazione imposto dagli alleati a Boldrini, comandante della XXVIII Garibaldi e il suo ritorno da vincitore nella terra natale previa ispezione del territorio, dove più efficacemente erano state applicate le direttive del partito: così si passò ad Argenta (74 assassinati), dal tristemente famoso ponte della Bastia, poi a Lavezzola, dove le uccisioni dicono siano state oltre cinquecento, da Giovecca, minore per importanza, con solo trecento giustiziati, da Conselice e da Massalombarda dove vengono ammazzati fra gli altri Alfonso e Arrigo Minzoni. Tutte località che videro commissario politico Giuseppe D’Alema (…). Il sottoscritto, ricercato e creduto morto si salva solo perché la sorte lo porta in un campo di concentramento per prigionieri di guerra inglese, dal quale viene liberato alla fine del 1954» (Guido Minzoni, Il “Triangolo degli ignoti”. Stragi in Romagna durante e dopo la guerra civile, op. cit., pp. 33-34).

 

Omertà.

L’omertà per tema di rappresaglie si è riscontrata anche nei primi anni di questo XXI secolo, nei territori collinari di Vercelli e nel Ponente Ligure, nel territorio di Triora. Si segnala il seguente studio, dove sono pubblicati numerosi documenti sulla tristemente nota Colonia di Rovegno, in cui s’installarono formazioni partigiane: Pier Giulio Oddone, Carlo Viale -a cura di-, Fratricidio! I caduti della RSI nelle stragi dell’entroterra ligure, NovAntico Editrice, Pinerolo 1998. Un passo per tutti e sulla strage di Monte Manfrei: «Si trattava di oltre 200 marò della S. Marco appartenenti al presidio del Sassello (1 Cp. Del 1°/5° Rgt.), alla Colonna Leggera, al 3° Rgt. Art., alla Cp. C. del 5° Rgt della Divisione Fanteria di marina della R.S.I. Tutti militari estremamente giovani, in parte fatti prigionieri grazie ad un ufficiale che trattò il disarmo con i partigiani e che sparì nel nulla, salvandosi. Ma tale fatto manca di riscontri (…). A fianco dei militari fu imprigionata una piccola quota di personale civile, interpreti e impiegati amministrativi, oltre a numerosi soldati germanici, tutti portati nell’Alta Valle e poi trucidati, seppelliti perfino nelle mangiatoie delle cascine abbandonate (…). La strage di Monte Manfrei ed il mistero delle fosse, non tutte identificate, ebbero scarsa risonanza in quel dopoguerra tutto teso a minimizzare le stragi e le atrocità commesse dai partigiani (…). Nel settembre 1956 si iniziano le esumazioni. Delle fosse di cui si conosce l’ubicazione, vengono recuperate 61 salme a cui non è possibile dare un nome. I militari sono infatti privati delle piastrine di riconoscimento e c’è il sospetto che siano tuttora custodite dagli ex partigiani (ad una telefonata informativa, uno di questi, che si è vantato pubblicamente dell’uccisione personale di 200 S. Marco, ne faceva tintinnare molte alla cornetta del telefono con grande raccapriccio di chi ascoltava). Nei giorni successivi, il Sindaco rimette ai parroci una circolare da leggere durante la messa con l’invito a dare informazioni circa il reperimento di altre fosse. Nessun esito. Gli uccisori e chi li protegge con l’omertà, non si pongono ancor oggi questioni di carattere giuridico e morale. Gli assassini sono ancora sul posto, la gente non parla. Qualcuno è morto altri continuano a frequentare la zona, attenti alle rievocazioni ed alla minaccia per chi timidamente accenna a qualche ricordo che non sia di memorialistica partigiana» (Ibidem, pp. 137-139).

 

Eccidi.

Altri eccidi si sono visti a Schio, dove nella notte tra il 6 e il 7 luglio i “partigiani” entrano nelle carceri e ammazzano 53 persone. Antonio Serena scrive degli eccidi avvenuti nella provincia di Vicenza, di Tezze di Lusiana, degli ex combattenti prelevati dal Thiene e ricordando che «A quel tempo giravano per tutto il nord del paese i “Corrieri della morte”, partigiani incaricati di prelevare gli appartenenti dei disciolti reparti della R.S.I. che, deposte le armi, si trovavano in carcere in attesa di un accertamento di eventuali responsabilità. Il motivo addotto, la scusa per effettuare il prelievo, era sempre la stessa: l’ordine del C.L.N. o dei comandi di brigata di portarli nei luoghi di origine dove sarebbero stati sottoposti al giudizio dei tristemente famosi “Tribunali del popolo”. In realtà, prelevati a caso o su segnalazione di qualche energumeno desideroso di sfogare bassi istinti di vendetta personale, essi venivano condotti in luoghi appartati ed eliminati senza ombra di processo» (Antonio Serena, I giorni di Caino. Il dramma dei vinti nei crimini ignorati dalla storia ufficiale, Panda Edizioni, Noventa Padovana 1990, pp. 94-95).

Nel suo ben documentato lavoro di quasi seicento pagine Serena parla anche, ad esempio, della Cartiera Burgo: «Questo è il racconto dei crimini e delle infamie perpetrate dalla banda del “Falco”, una delle più feroci formazioni comuniste operanti durante la resistenza nella zona a cavallo dei comuni di Breda di Piave, Carbonera e S. Biagio di Callalta, sulla destra del fiume Piave, poco distante da Treviso. Il suo nome è legato soprattutto ai massacri avvenuti all’interno della “Cartiera Burgo” di Mignagola di Carbonera dove, tra la fine di aprile e la prima decade di maggio 1945, furono sterminate non meno di tre quattrocento persone», ma nella nota scrive: «Secondo Don Angelo Scarpellini, le vittime della cartiera furono “più di settecento”» (Ibidem, p. 192 e p. 253). A proposito di una “corriera della morte” che operava nel modenese: «Prima dell’eccidio i passeggeri della “corriera fantasma” vennero tutti depredati di ogni avere dai partigiani comunisti e la ragazza violentata dai suoi nove carnefici» (Ibidem, p. 190).

 

In Lombardia la situazione non è diversa e si ricordi, ad esempio, la strage di Rovetta dove 47 soldati della Legione Tagliamento rendono le armi il 26 aprile 1945: «Qui venne trattata la resa con il locale C.L.N., il cui presidente, Giuseppe Pacifico, maggiore dell’esercito italiano, promise salva la vita (…). Alle dieci circa di quel giorno [28 aprile. N.d.A.], giunsero a Rovetta due autocarri carichi di partigiani appartenenti alle brigate “Camozzi”, “13 Martiri” e “Giustizia e Libertà” (…). Gli assassini, circondati i ragazzi, anche con partigiani del luogo, poterono spingerli al vicino cimitero, sotto la minaccia delle armi automatiche» (Lodovico Galli, L’eccidio di Rovetta 28 aprile 1945. Una spietata rappresaglia nella bergamasca, Zanetti Editore, Montichiari 1995, p. 6). I militi avevano un’età compresa tra i 15 e i 22 anni; solo quattro si salvano scappando per tempo.

Un encomiabile quanto ben documentato lavoro di ricostruzione storica riguardo gli assassinii consumati in bassa Brianza è stato condotto da Norberto Bregna. Il libro raccoglie avvenimenti, aneddoti e dinamiche delle esecuzioni sommarie le quali hanno caratterizzato il drammatico momento di dominio dei “partigiani” comunisti. Vi è la copia, ad esempio, del fonogramma del Comitato di Liberazione Nazionale di Monza «a firma del comunista Buzzelli, per la cessazione delle esecuzioni sommarie». Così recita il fonogramma datato 30 aprile 1945 e diramato su ordine dell’autorità americana: «D’ordine delle autorità Americane occupanti la zona di Monza tutte le esecuzioni devono essere sospese ed i colpevoli devono essere tenuti prigionieri per essere consegnati alle autorità alleate occupanti» (Norberto Bregna, Sconosciuti. Le “storie negate” di 200 vittime della guerra civile nella bassa Brianza, Bellavite Editore, Missaglia 2011, p. 162).

 

Quanti morirono assassinati?

Difficile dirlo.

Carlo Simiani scrive: «Secondo i dati da noi raccolti e vagliati, i giustiziati del Nord dovrebbero dunque aggirarsi attorno ai 40.000. Questa cifra sorprenderà tutti coloro che, in buona fede o per calcolo politico, parlavano di centinaia di migliaia da una parte e di dodici o quindici mila soltanto dall’altra» (Carlo Simiani, I “giustiziati fascisti” dell’aprile 1945, Edizioni Omnia, Milano 1949, p. 201).

Non pare comunque tenere conto degli italiani “infoibati” nelle terre dell’Est… per non contare le reali cifre dell’eccidio anche nel resto d’Italia e fino al 1948.

Oggi dobbiamo ricordare innanzitutto i morti civili innocenti, perché un tale sterminio non si deve ripetere. Ma ricordiamo anche chi si batté fino all’ultimo giorno: i Morti Vittoriosi.

Anche a loro il nostro ricordo.

Aulo Gallo

 

L'articolo 25 vinile: il disco rotto – Aulo Gallo proviene da EreticaMente.

La volontà di rivincita: nascono i FdC, Torino 1919 (prima parte). A cura di Giacinto Reale

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Il Fascio di Torino, fondato da Mario Gioda il 25 marzo del 1919, assume da subito caratteri “rivoluzionari” (volgarmente ed erroneamente detti “di sinistra”) sotto la guida dell’ex anarco-sindacalista, che prevale, in questa prima fase, sul monarchico-conservatore Cesare Maria De Vecchi. La vita, però, nella città delle masse operaie sindacalizzate, di Gramsci e de “L’Ordine Nuovo” non è facile per i mussoliniani.

 
  1. Il Fascio a Torino viene fondato, il 25 marzo del 1919, da Mario Gioda, che torna in città insieme ad Attilio Longoni, che poi sarà il primo Segretario del movimento fascista, reduci entrambi dalla riunione di piazza San Sepolcro. Egli, di modestissima famiglia, tipografo di professione, giornalista per vocazione, anarco-sindacalista per convinzione, ha seguito il suo amico Mussolini nella scelta interventista, fino a partire per il fronte, anche se non giovanissimo, e nonostante sia affetto da una grave forma leucemica. La sua storia militare, tra il  1916 e il 1918 è forse unica. Arruolato, riformato e riarruolato – a richiesta – per tre volte, a causa delle cagionevoli condizioni di salute, tornerà definitivamente a casa solo a dicembre del 1918. [caption id="attachment_34938" align="alignright" width="183"] Mario Gioda[/caption]

Collaboratore del Popolo d’Italia, molto stimato dal direttore per le sue capacità, sarà – contro la sua volontà e solo per le pressioni di Mussolini – eletto al Parlamento nel 1924, pochi mesi prima della prematura morte. Poeta dialettale dilettante, non gli manca, nei versi, una sottile vena ironica. Molto più severo è, invece, il suo atteggiamento in politica:

Non fu neppure l’uomo delle transazioni. Non transigeva né con sé né con gli altri. Non ebbe mai ombra di superbia e visse nella più modesta semplicità e amò, fra le varie qualità che possono ornare una persona, l’espansione. La freddezza lo annientava, l’espansione, il calore, gli schiudevano l’anima al bene, alla gioia, come quando è primavera e s’apre la finestra per respirare un pò d’aria profumata. Se non fosse stato cagionevole di salute, malgrado la vita dura che gli aveva dettato la maggior parte delle sue poesie, sarebbe stato gioviale, specialmente nelle sue riunioni con gli amici... (1)

Non è un granché di oratore, e ne è consapevole, al punto di scrivere nel suo Diario, in un eccesso di autocritica: “Sono un parlatore sciagurato. Non riesco a metter quattro parole insieme”, ma con la penna in mano non teme rivali, ed ha le idee chiare. Appena smobilitato, cerca un contatto con i vecchi Partiti e movimenti della sinistra interventista, ma resta deluso, perché trova un fronte in disfacimento totale. Non fa per lui, che sarà definito “tranquillo fanatico” per la determinazione che mette nelle difesa delle sue posizioni.

E’ un avversario pericoloso, quindi, aldilà della sua cagionevole salute. Forse per questo, da nessuno è stata ripresa mai la notizia – che non fa onore ai protagonisti – fornita, nelle sue memorie postume, da Battista Santhià, all’epoca giovane guardia rossa schierata a difesa dei redattori e della sede de “L’Ordine Nuovo”:

Un bel giorno due di loro (allude agli uomini della vigilanza alla sede del giornale ndr) presero Mario Gioda, il segretario della Federazione fascista, e gli fecero bere una buona razione di olio di ricino, la stessa che somministravano gli squadristi: “Siamo persone pulite e ti abbiamo dato l’olio vicino a casa tua; ora vattene e se uno di noi avrà delle noie, preparati, perché andrai a scontare i tuoi peccati…”. (2)

Tutto di là da venire la sera del 28 marzo, quando, alla presenza di rappresentanti inviati da Milano, si tiene la vera riunione fondativa del movimento mussoliniano in città. Tra gli ospiti milanesi fa spicco la partecipazione di Ferruccio Vecchi, il popolarissimo ex Ufficiale degli Arditi, che in questo periodo sta girando per tutta l’Italia a costituire Sezioni Ardite e Fasci di Combattimento, spesso con gli stessi aderenti, a conferma degli stretti legami tra i due gruppi.

Alla fine della riunione viene approvato un documento in quattro punti che ambiziosamente si propone di:
  1. Neutralizzare i disastrosi effetti della propaganda leninista;
  2. Strappare le masse lavoratrici ai falsi pastori;
  3. Incitare il paese a produrre e a ricostruire la ricchezza nazionale;
  4. Scendere in campo contro tutti gli uomini e tutti i Partiti che non hanno voluto la guerra

A Gioda si accompagnano, da subito, alcuni ex compagni della battaglia interventista ed un gruppo di Arditi, del 27° Reparto d’Assalto e Reggimentali della Brigata Sassari. Li organizza e guida il Tenente Silvio Maurano, futuro giornalista e scrittore, che, arrivato in città il 20 marzo, dopo un fallimentare approccio al Partito Repubblicano, si è trovato subito in sintonia con l’ex anarco-sindacalista. Egli ha il suo bel daffare per tenere a bada quel gruppo di scalmanati con le fiamme al bavero della giubba:

Gioda era felice: ci ospitava la Pro-Torino, il cui Presidente, Conte Barbavara, era un patriota all’antica, ed aveva messo a nostra disposizione una ala ed uno stambugio. Gioda, dopo due giorni, si ritirò nello stambugio.

“La stanza grande è meglio che ve la teniate voi – disse perché gli Arditi fanno sempre baruffa...”

Lui si ritirò nello stanzino, che era una specie di corridoio, con i suoi primi registri, ed il materiale di corrispondente de “Il Popolo d’Italia”. (3)

 

[caption id="attachment_34937" align="alignright" width="285"] i primi componenti la Sezione Arditi torinese: di profilo, in primo piano, Mario Gioda[/caption]

Ben presto gli Arditi troveranno una sede loro, ma non mancheranno, in ogni occasione, di confermare i vecchi vincoli, e anzi decideranno, ufficializzando la loro posizione, di: “mettersi a disposizione del Fascio di Combattimento e di agire di conserva con questo quando ne sarà il caso”.

Per ora, sono tutti insieme, nelle due stanze in Arcivescovado 1 bis, nel centro della città. A poche centinaia di metri, nella stessa via, vi è la redazione torinese dell’Avanti, destinata a  diventare quella de “L’Ordine Nuovo”. Non appare fuor di luogo ipotizzare qualche “incontro” non amichevole per strada, così che i comunisti saranno ben presto costretti a pensare ad apprestamenti difensivi:

La difesa de “L’Ordine Nuovo” dalla teppaglia fascista si rese necessaria non appena si costituirono le prime squadracce. Un gruppo di compagni coraggiosi presidiava lo stabile; un altro scortava il camioncino adibito al trasporto dei giornali alla stazione.

[...]

La sede era vigilata ogni notte da una ventina di compagni, quasi tutti operai delle fabbriche, e qualche studente. L’edificio si prestava alla difesa, grazie ai corridoi strettissimi, alle camerette anguste, ai muri spessi oltre un metro. Dall’ingresso, sito in via dell’Arcivescovado, ai locali della redazione, il terreno era facilmente difendibile, e i compagni, in caso di bisogno, avrebbero dimostrato che i cavalli di frisia non costituivano un semplice ornamento. (4)

Quasi da subito, a questi primi fascisti si uniscono alcuni goliardi della locale Università e anche studenti delle scuole superiori, entusiasti e scapestrati come vuole la loro età.

In città il clima, per chi non intende rinnegare le ragioni della guerra e guarda a nuove forme di giustizia sociale, non è facile. In quello che è il primo centro industriale del paese, con duecentomila lavoratori su seicentomila abitanti, la capacità di presa della propaganda sovversiva è forte, tanto da superare anche ogni possibile collegamento –che pur sussiste negli ambienti intellettuali e borghesi – con la tradizione risorgimentale della città che volle e fece l’Unità d’Italia.

Le Forze dell’Ordine sono praticamente impotenti, oltre che mal guidate, e gli scioperi si susseguono agli scioperi, per le strade attraversate periodicamente da cortei incolonnati dietro le bandiere rosse.

Contro la massa sovversiva, si ergerà una minoranza coraggiosa. A fare da sfondo il resto – maggioritario – della popolazione impaurita e incapace di agire:

Non è chi non conosca o non ricordi, per gli episodi che affiorarono nelle cronache del tempo, le condizioni politiche di Torino dal 1919 a dopo la Marcia su Roma: da una parte un nucleo saldo, temprato, deciso ma non molto numeroso di fascisti, in gran parte Arditi di guerra o combattenti; dall’altro la massa bruta, la plebe incanaglita dalle mille braccia agitanti bandiere rosse, dalle mille bocche sputanti fiele e veleno e sozzure sulla Patria uscita barcollante, ma vittoriosa, da una grande prova che l’aveva rivelata a se stessa.

Fra i due gruppi, numericamente non confrontabili, l’enorme maggioranza della cittadinanza, disorientata, spaurita, in gran parte agnostica. (5)

In una situazione di impazzimento generale, lo sciopero degli alunni delle elementari e quello delle sartine faranno quasi più rumore di quello degli operai dell’industria (con connesse violenze ai danni di chi non intende aderire) o dei contadini, che lasciano il raccolto a marcire nei campi e le bestie a morire di fame nelle stalle.

Particolare allarme susciteranno poi due agitazioni sovversive, l’una per le modalità, e l’altra per le motivazioni, con contorno di violenze e disagi per la popolazione, in entrambi i casi.

Nella vicina Biella, dal 1° al 20 giugno, lo sciopero degli operai lanieri sfocia in vere e proprie manifestazioni insurrezionali, con barricate, attacchi ai camion di truppa, tentativi di incendio delle fabbriche, e ciò appare pericolosa avvisaglia di ciò che sarà in tutto il Paese.

Nell’intera regione, e a Torino con maggiore virulenza, per la presenza di grandi masse operaie della quale si è detto, si svolge, qualche settimana dopo, imponente, lo sciopero internazionale (o “scioperissimo”, come verrà chiamato) del 20 e 21 luglio, proclamato contemporaneamente in tutta Europa, in segno di protesta per l’intervento di truppe dell’Intesa in Russia ed in Ungheria, e ciò sembra essere la “grande prova” con la quale il movimento operaio realizza l’unità che non aveva trovato nel 1914.

Sarà sempre l’occasione di uno sciopero a fare, il 3 dicembre del 1919, la prima vittima di parte “nazionale”. Uno studente, il diciannovenne Pierino Delpiano, caporale in guerra, che, al momento del congedo, ha ripreso gli studi presso l’Istituto Sommeiller.

All’interno della scuola si rifugia un Ufficiale, per sfuggire alla folla degli scioperanti inferociti per il solo fatto di averlo visto in uniforme. Egli trova la solidarietà degli studenti, che, a sua difesa, prima barricano il portone di ingresso, e poi, dal momento che, però, i dimostranti non si allontanano, si decidono ad uscire, in minuscolo gruppo, per tentare di ricondurre tutti alla ragionevolezza.

Tentativo encomiabile quanto inutile. I ragazzi vengono circondati, insolentiti e costretti alla fuga. Solo Delpiano resta ad affrontare la massa, che gli intima, se vuole salva la vita, di gridare “Abbasso l’Italia!”.

E’ troppo per un giovane che ha conosciuto il sacrificio della trincea e ha fatto il suo dovere (ha subito anche un principio di congelamento sul Monte Grappa) in nome dell’Italia. Lui non solo si rifiuta, ma fieramente urla in faccia ai suoi aggressori che sempre e solo avrebbe gridato: “Viva l’Italia!”.

Non fa in tempo ad aggiungere altro. Uno dei manifestanti lo fredda con un colpo di pistola alla testa.

A Delpiano, che sarebbe una forzatura definire “fascista”, verrà concessa, durante il Regime, la medaglia d’oro al valor civile, con la seguente motivazione:

Il Duce, udito il parere favorevole della Reale Commissione per le ricompense al valor civile, ha conferito la medaglia d’oro alla memoria di Pierino Delpiano, primo Caduto della Rivoluzione, simbolo eroico di tutta la giovinezza che si immolò perché la Patria vivesse.

Sulla porta della scuola, gridando “Viva l’Italia!” in faccia ai rinnegati, Egli additò ai giovani quali sono le vie del sacrificio per la Patria. (6)

 

Triste epilogo, quasi alla fine dell’anno, di una situazione che non accenna a migliorare per i pochi fascisti, che pure sono tipi coriacei e non disposti a mollare.

A Gioda si affiancano presto due personaggi capaci di tenere la piazza, anche in situazione di inferiorità numerica, forti di un passato combattentistico che parla per loro.

E’ il caso di Piero Brandimarte, Capitano dei Bersaglieri decorato con medaglia d’argento, esuberante nel fisico e sportivo di razza, tale da essersi classificato primo ai tornei di lotta delle Forze Armate. Sarà lui a costituire, a fine anno, la prima vera squadra d’azione torinese, “La Disperata”, che seguirà – destinata a durare – la precedente effimera esperienza di una squadra “L’Ardita”, composta da appartenenti alle Fiamme.

La sua “carta di presentazione” è in questo aneddoto, che presto fa il giro di tutta la città:

Una mattina di novembre... L’American Bar è pieno di folla, e tra questa, emerge un Ufficiale dei Bersaglieri in divisa, alto, solido, quadrato.

L’Ufficiale sta bevendo il caffè, in piedi davanti al banco. E’ solo. E, d’improvviso, ode in lontananza echeggiare le note di una fanfara. Sentir queste note e lasciare la tazza sul bancone e farsi sulla porta fu affare di un attimo. Il Bersagliere si affaccia sulla via, guarda a sinistra, guarda a destra: ma non vede nulla che possa dargli sospetto... E’ una musica che in questi mesi piace a parecchia gente. E’ “Bandiera rossa”.

L’Ufficiale dei Bersaglieri, che è del 4° Reggimento, e che si chiama Brandimarte, è il comandante in seconda de “La Disperata”. Si capisce benissimo il perché questa “Bandiera rossa” non sia di suo genio.

L’Ufficiale rientra nel bar e riprende la sua tazzina di caffè. Ma, giusto in questo momento davanti al bar passa a tutta velocità un carrozzone tranviario col rimorchio pieno zeppo di musicanti. La fanfara è in tranvai e suona a pieni polmoni l’inno sovvertitore...

Il carrozzone fila verso piazza San Carlo, ma l’Ufficiale è campione di fondo, e in questa gara di corsa avrà la meglio. Brandimarte insegue il tranvai, e all’imbocco della piazza raggiunge il rimorchio e vi salta su. I musicanti suonano con tutto slancio, passando tra la gente un po’ curiosa e un po’ intimidita, ma l’era annunciata con tanto fiato e tanta buona volontà è interrotta dal diavolo.

Mentre il tranvai va, ecco l’Ufficiale dei Bersaglieri iniziare il suo lavoro, con velocità e precisione, e senza nemmeno spendere una parola. Sui musicanti attoniti piove d’improvviso una tempesta di pugni durissimi. Di destro e sinistro. L’Ufficiale spedisce, appunto a sinistra e a destra, i suoi biglietti da visita, che mutano i connotati ai più duramente colpiti.

L’Ufficiale zompa come un grillo tra i sedili, e il suo lavoro di braccia è di una persuasione particolare. I musicanti sono sgomenti per questo assalto fulminante. Sono in trenta, ma davanti a quella furia scatenata cade in essi ogni istinto di iniziativa. Poiché infine Brandimarte ha strappato a un rosso una cornetta e con questa mena colpi da orbo su pifferi e tromboni e tamburi. I vetri della vettura vanno in frantumi. Strumenti nasi e teste sono acciaccati. La folla si sbanda intimidita a quel gran fracasso: s’aspetta, da un istante all’altro, qualche colpo di rivoltella. Ma gli assaliti decidono di arrendersi armi e bagagli e poiché l’assaltatore è un Bersagliere, ciascuno di essi ha, nel medesimo atto, il medesimo pensiero: se “Bandiera rossa” ha la virtù di scatenare questo diavolo, gli sia offerta istantaneamente l’unica musica che abbia la virtù di ammansirlo.

E, d’improvviso, tutti gli ottoni intonano la marcia gaia e veloce che batte il tempo alla corsa dei Bersaglieri. (7)

La definizione di “uomo d’armi”, che si può accettare per Brandimarte, va decisamente stretta a Cesare Maria De Vecchi, futuro protagonista dell’avventura fascista delle origini e della vita politica nazionale per tutto il ventennio successivo.

Due lauree, avvocato, è pittore e poeta dilettante, oltre che esponente di spicco della cittadina “Società promotrice di Belle Arti”. Capitano in guerra, prima nei Bombardieri e poi negli Arditi, si è meritato tre medaglie d’argento e due di bronzo.

Nel marasma del dopoguerra è anch’egli, insieme a tanti altri ex combattenti, uno di quelli che non prova vergogna e non si pente per ciò che ha fatto al fronte, ed è pronto a battersi contro gli infangatori e i rinnegatori.

E’ questa intenzione alla base della sua – sofferta – adesione al movimento fascista.   Monarchico convinto e intimamente di sentimenti conservatori, si sente “costretto” ad una vicinanza con ex anarchici e socialisti, ai quali cercherà in tutti i modi di rendere la vita difficile, nell’ambito del Fascio.

Sui dubbi di natura politica, fa però premio la sua natura impetuosa e portata all’azione. Rivelatore è il modo nel quale racconterà, anni dopo, un episodio di quei giorni lontani. Episodio che, per una singolare analogia, si svolge anch’esso, come quello di Brandimarte, su una vettura tranviaria:

Uscii da solo dal mio ufficio, e, con grande meraviglia, nonostante lo sciopero in atto, sentii squillare le campanelle del tram. Una lunga fila di vetture veniva avanti dalle rimesse, non già per servizio, ma a scopo, diciamo così, pubblicitario. Sulle fiancate, infatti, recavano grandi scritte a calce, che dicevano. “Morte al Re! Morte ai preti! Morte al Papa! Morte alla borghesia! Morte ai combattenti!”

Nessuna scritta riguardava il fascismo e i fascisti che, del resto, quasi non esistevano e nessuno prendeva in considerazione. Saltai sulla vettura di testa, con la scritta “Morte al Re!” e indussi il manovratore a fermarsi. Questi tentò di reagire staccando la manovella, e agitandola in aria, ma non gli diedi il tempo di colpirmi. Tenevo l’uomo per i risvolti della giacca e sentivo che le sue forze si ammorbidivano, fino a sparire del tutto. Lo costrinsi a scendere e gli ordinai di cancellare la scritta.

“Con che cosa la pulisco?” mi domandò, pallido di paura.

“Con la lingua!” gridai. (8)

  -segue-   NOTE
  1. Giovanni Croce, La vita di Mario Gioda, Torino 1938, pag. 60
  2. Battista Santhià, con Gramsci a “L’Ordine Nuovo”, Roma 1956, pag. 178
  3. Silvio Maurano, Quando eravamo sovversivi, Como 1939, pag. 30
  4. Battista Santhià, cit., pag. 175
  5. Dante Maria Tuninetti, Squadrismo squadristi piemontesi, Roma 1942, pag. 121
  6. PNF, Fascio di Combattimento di Biella, Gruppo Rionale “Pierino Delpiano”, Commemorazione detta dal Camerata Walter Bragagnolo in Biella il 3 dicembre 1933, Biella 1935, pag. 20
  7. Guerrando Bianchi di Vigny, Storia del fascismo torinese, Torino 1939, pag. 430
  8. Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, Il quadrumviro scomodo, Milano 1983, pag. 29
          Foto 1: Mario Gioda Foto 2: i primi componenti la Sezione Arditi torinese: di profilo, in primo piano, Mario Gioda

La volontà di rivincita: nascono i FdC, Torino 1919 (seconda parte). A cura di Giacinto Reale

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Gli Arditi, Gino Covre, Cesarino Revel e tanti altri, tra i quali non mancano anche personaggi molto “caratteristici”, come nel resto d’Italia, sono i protagonisti del primo fascismo cittadino, che affronta, senza timori riverenziali, la classe padrona industriale e le masse sovversive. Sarà anche per questo che molti di loro si troveranno, con Giuseppe Solaro, “il fascista che sfidò la FIAT e Wall Street”, all’epilogo saloino.

  1. A fianco di questi tre protagonisti principali, sullo sfondo si muovono anche altri personaggi molto “caratteristici”, che vivranno, nel quadriennio rivoluzionario, vicende sintomatiche del “clima” del periodo.

E’ il caso, per esempio, del Tenente degli Arditi Domenico Bagnasco che è uno dei fondatori dell’Associazione Arditi, e sarà vittima, ad aprile del 1921, di un episodio forse unico. Impiegato alle Officine Savigliano, e noto per le sue idee, verrà preso “prigioniero” dagli operai comunisti in agitazione, e solo per un soffio riuscirà a scampare alla triste sorte capitata qualche mese prima a Mario Sonzini e Costantino Scimula.

Il primo, nazionalista e aderente ai Fasci di combattimento, il 22 settembre del 1920, sarà condotto, processato, condannato e giustiziato all’interno dello stabilimento occupato Nebiolo. La sua morte verrà cinicamente commentata dall’Avanti, che, definendolo un “fascista militante”, scriverà: “E il militare porta con sé questo inconveniente: di andare a finire un giorno sull’orlo di una via con la tempia forata da un proiettile”.

Sorte simile toccherà anche al ventenne Costantino Scimula, guardia carceraria, condannato e giustiziato dal tribunale operaio costituto all’interno dello stabilimento Bevilacqua, sempre a Torino.

Ecco come i due cadaveri saranno ritrovati, qualche giorno dopo, nella notarile ricostruzione del Corriere della Sera del 12 ottobre:

Giacevano uccisi per una eguale ferita d’arma da fuoco alla nuca, in una stessa posizione, cioè bocconi e a braccia aperte, e non si esitò a capire che erano stati ambedue vittime di una sommaria e truce esecuzione. Si assodò che erano stati presi a mira da tergo, mentre altri complici li tenevano stretti ai polsi, che apparivano solcati da lividure per lo sforzo disperato che avevano opposto allo scopo di fuggire all’estremo supplizio. (9)

 

Ci sono poi i personaggi di secondo piano, rappresentanti di quella minuta umanità che è facile trovare nelle squadre di ogni città, spesso individuati, come altrove, da soprannomi destinati a essere famosi nel piccolo mondo del fascismo locale. “Nerone” dovrà probabilmente il nomignolo alla sua “attiva” partecipazione al rogo della Camera del Lavoro, “Cocaina”, che sarà uno dei fondatori della squadra d’azione “Enrico Toti”, composta da mutilati di guerra, potrebbe dovere il nomignolo ad una iniziale dipendenza oppiacea per lenire i dolori delle ferite, mentre “Merica” sembra riferito al nome di una casa di tolleranza dalle parti di Porta Palazzo.

La cosa non deve meravigliare. Oltre a Gallian, che talora scelse prostitute per protagoniste dei suoi romanzi (e poi dei suoi quadri), il pensiero non può non andare a Piazzesi, che, per una singolare coincidenza, testimonia di frequentazioni border anche di quei giovani fiorentini, scapestrati in camicia nera, che se ne fregano dei pregiudizi dell’Italia piccolo-borghese:

Sulla cantonata di via Palazzuolo e via de’ Fossi, lì, davanti al Fascio, c’è quello che noi mortali abbiamo battezzato “L’Eden”, ma che in realtà non è altro che un albergaccio di terza categoria chiamato “Como” ...

C’è tutto e per tutti i gusti…. Le labbra rosse e gli occhi bistrati delle compagne, consolatrici e mediatrici delle rudi carezze dei camion. C’è la Teresina soprattutto, Teresina nostra che porta pietosa da una camera all’altra quel suo sedere prepotente come se compisse una vera opera riparatrice. C’è il caffè sempre pronto, una abbondante dose di sudiciume, e, all’ultimo piano, le cimici. (10)

Anche con simili personaggi viene formata, già nel 1919, la prima squadra d’azione che si chiamerà “Banda Ardita” proprio perché composta in massima parte da ex Fiamme e sarà guidata dal Tenente Carlo Cherasco. Poi, anche con l’arrivo di Brandimarte, muterà il nome in “Disperata” e si chiamerà “squadra”, non più “banda”, definizione che, pure sotto il profilo terminologico voleva rimandare ad un’idea di indisciplina ed irregolarità guerresca, perché:

L’organizzazione del primo squadrismo pare trarre origine da uno spontaneismo confuso e occasionale, per nulla codificato, che sembra reggersi da un lato su relazioni di tipo amicale, e dall’altro su rapporti gerarchici mutuati dall’esperienza di guerra e conservatisi anche dopo la smobilitazione.

La mentalità presente in questa prima fase ci rimanda ad un patrimonio comune intimamente condiviso dalla maggioranza del gruppo, al cui interno si intravede una dimensione eroica, elitaria, che accetta i modelli di una romanità mitizzata, ma al tempo stesso richiama alla mente quella più recente degli Arditi, dei mutilati, dei pluridecorati o dei legionari fiumani. (11)

 

[caption id="attachment_34935" align="alignright" width="300"] la squadra mutilati e invalidi di guerra “Giulio Giordani”[/caption]

Ma è soprattutto Gino Covre, ex Tenente degli Arditi, a mettersi in mostra nell’irrequieto primo dopoguerra torinese. Tra il 4 e il 12 novembre del 1918, in successive manifestazioni, dopo aver guidato una cinquantina di Fiamme all’assalto di un corteo sovversivo, invade la Camera del Lavoro in corso Siccardi e per una settimana fa il bello e il cattivo tempo in città. Di lui arriverà ad occuparsi lo stesso Gramsci, scopertosi “uomo d’ordine”, su “L’Avanti” del 19 marzo 1919:

Perché Masaniello Covre poté, per ben otto giorni, scorazzare le vie e le piazze di Torino col suo codazzo di armati di coltello, poté capeggiare un pronunciamento contro la Prefettura, poté oltrepassare, le tasche piene di sassi, in un’automobile “ufficiale” il cordone di Carabinieri che circondava la Casa del Popolo di corso Siccardi, poté lanciare i sassi nel salone gremito di operai, di donne di bambini. Perché non fu arrestato? No, non è un avventuriero comune questo falso Capitano Luigi Covre….

E Torino ebbe il suo Masaniello, ebbe il suo Coccapieller, Luigi Covre, che non è un avventuriero comune, non è un volgare scroccone, ma un eroe, un eroe sociale, un uomo rappresentativo, il quale continua la serie di quegli eroi rappresentativi che nella terza Italia, nell’Italia del capitalismo, abbondano più dei Cromwell, dei Martin Lutero e dei Mazzini. (12)

  Ben diversa la versione dei fatti che sarà fornita dal Chiurco:  

Un eroico Capitano degli Arditi, Gino Covre, che giaceva ferito in un ospedale, esce in piazza, e con alcuni Arditi, impadronitosi di un tricolore, raccoglie intorno a sé tutti gli Ufficiali e i soldati, feriti e non, che incontra.

Cantando l’ “Inno degli Arditi”, gli animosi vanno incontro alla colonna dei forsennati, la cui testa era già in via Roma fra piazza San Carlo e piazza San Felice.

Saranno stati sì e no una cinquantina, quando si trovarono di fronte al corteo sovversivo. Al grido “Abbasso lo sporco tricolore” rispondono le revolverate e le grida di “Viva l’Italia”, “Viva l’Esercito”. Tutta quell’orda vigliacca fugge terrorizzata.

Dalle caserme, dagli ospedali, fu un rovesciarsi di ufficiali, soldati, sicché in piazza San Carlo parecchie migliaia di grigioverdi ascoltavano poco dopo la parola incitatrice e tonante di odio del Covre.  

[…]

La giornata d’allora contò diversi feriti. Fu, forse, quella la prima giornata dello squadrismo fascista... (13)

 

Covre poi lascerà Torino e sarà, quasi “rivoluzionario di professione” della parte fascista, prima Segretario del Fascio di Udine e poi di quello veneziano, sempre non in linea con l’ufficialità del movimento, che è progressivamente avviato a scelte normalizzatrici. Aderirà alla RSI, e, per una curiosa coincidenza, morirà proprio durante le “radiose giornate” dell’aprile del ’45, ma non – come spesso si dice – per vendetta partigiana, bensì per un male incurabile, in una clinica di Padova.

A fianco di questi personaggi, che  in qualche caso bordeggiano le “sublimi canaglie che si redimevano in un principio di passione etica, in una fiamma di spirito collettivo, in una disciplina anche interiore di obbedienza e sacrificio”, delle quali parlerà Camillo Pellizzi già nel 1924, sono presenti fin dalle prime riunioni, o sopravverranno  in un breve lasso di tempo, giovanissimi studenti (Angelo Appiotti ha 15 anni,  e pochi di più il reggino – ma studente del Politecnico – Amos Maramotti, che morirà nell’assalto, con successivo incendio,  del 25 aprile del 1921 alla Camera del Lavoro), comuni impiegati (Giorgio Fabrizio e Battista Olivo) umili operai (Cesare Oddone, a seguito del cui assassinio ci fu la rappresaglia culminata nel suddetto incendio, Lietti  e Pollone, che saranno protagonisti di una pericolosa attività di informatore, infiltrati tra i sovversivi),  esperti sindacalisti (Umberto Lelli e Davide Fossa), indomiti borghesi (Oliviero Iurco detto “Vampa” e Ather Capelli, che sarà vittima della guerra civile), e perfino qualche esponente della vecchia aristocrazia  piemontese (Giuseppe Avogadro, Conte di Casalvolone e Federico  Gaschi di Bourget et Villarodin).

Un cenno meritano anche, per concludere questa breve carrellata, Luigi Voltolina, padre di Carla, futura staffetta partigiana e moglie di Sandro Pertini, che, prima squadrista, sarà poi componente del Direttorio a dicembre del 1922, e come tale coinvolto nei tragici fatti di quel mese, e il giovane Tenente di Artiglieria Cesarino Revel, futuro protagonista di primo piano dell’assalto, con successiva distruzione, della notte del 25 aprile del 1921 cui si è già accennato. Egli già nell’aspetto fisico sembra smentire l’immagine accreditata dagli avversari che vuole gli squadristi bravacci di trivio:

...già volontario di guerra, Revel, piccolo di statura, era di una bellezza quasi femminea; aveva il viso appena velato di una leggera peluria, e le sue mosse erano scattanti e feline, come quelle di un animale da preda. Portava il monocolo dal quale non si separava, credo, neppure quando dormiva(14)

Il Fascio torinese, quindi, se con questi – ed altri – uomini esprime una poliedricità di temperamenti e caratteri, conosce momenti e scelte di campo diverse anche sotto il profilo delle posizioni politiche al suo interno.

Per tutto il 1919 i caratteri “rivoluzionari” del movimento mussoliniano in città sono sicuri ed incontestabili, tal da far barriera anche all’adesione di molti benpensanti e moderati.

[caption id="attachment_34936" align="alignright" width="201"] De Vecchi, Capitano al fronte[/caption]

Lo stesso De Vecchi, nel quale pure la tempestosa personalità stimola una smania di agire, confesserà le sue esitazioni, al momento di iscriversi, in aprile:

De Vecchi, nelle sue memorie, ricordando il momento in cui decise, dopo lunga meditazione, di entrare nelle file fasciste, dirà di aver scoperto che in queste dominavano gli elementi di sinistra e che “si attaccava senza tregua la chiesa e il Re”, pur riconoscendo che gli iscritti godevano della più ampia libertà di conservare il “proprio bagaglio di idee”; il Fascio, infatti, precisa ancora: “non era un Partito e forse nessuno pensava, allora che lo potesse diventare, poiché l’unico legame che esisteva tra gli aderenti era il comune proposito di difendere la vittoria contro coloro che senza reticenze si proclamavano senza Patria” (15)

Facile immaginare il disagio col quale un “uomo d’ordine” come lui salga ogni giorno le scale che portano alla modesta sede fascista, sorvegliata quasi fosse un covo sovversivo:

Il Fascio di Torino tirava avanti alla bell’e meglio, e dopo le dimostrazioni del maggio e del giugno era entrato in letargo. Fra l’altro avevamo sempre fra i piedi, in “abito simulato” un Maresciallo dei Carabinieri Reali, il quale, con fiuto da segugio, teneva d’occhio ogni nostra mossa. Sapeva con esattezza il numero degli iscritti e, specie dai giovani, veniva informato di ogni passo. (16)

 

In effetti, le Autorità fanno di tutto per rendere la vita difficile ai primi fascisti. Le cronache riferiscono di uno schieramento di truppa quasi sempre presente all’ingresso della loro sede, che impedisce l’accesso a ex Ufficiali e Arditi, di manifestini sequestrati in tipografia per il loro contenuto “eversivo”, di fermi e minacce immotivate.

Contro quello che appare il duplice nemico in questi mesi, e cioè lo Stato repressore e il sovversivismo, i primi aderenti al Fascio rinsaldano i vincoli di cameratismo e consolidano i motivi ideali alla base della loro scelta. Non sarà un caso se molti diciannovisti, i “super traditi del fascismo” come si dirà, si ritroveranno all’epilogo saloino, quando ormai, però, sarà troppo tardi:

La Banca-dati sugli iscritti del PNF torinese, nel permettere la ricostruzione dei curricula di alcuni di loro (i fondatori del Fascio repubblicano ndr) evidenzia la comune provenienza da una delle prime squadre d’azione sorta negli anni venti, ossia la “Cesare Battisti”. Si tratta, perciò, di un nucleo legato da vincoli di amicizia, composto probabilmente da Federcio Gaschi, Carlo Pollone, Goffredo Villani, il già citato Natoli, detto “gamba di legno”, Piergiuseppe Manfredini, detto “gamba di ferro”, Dante Massa, Rodolfo Chelazzi e Mario Volontè, mentre tra i più giovani figura il trentaduenne Luigi Riva, figlio del più noto segretario provinciale dei metallurgici, il sansepolcrista Celso Riva, che forse costituisce il tramite fra il gruppo e il figlio. (17)

  -segue-   NOTE
  1. Giuseppe Bonfanti, Il fascismo, 1. La conquista del potere, Brescia 1976, pag. 76
  2. Mario Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano, Roma 1980, pag. 164
  3. Nicola Adduci, Origini e composizione dello squadrismo torinese, in: Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea, Torino 2005, pag. 230
  4. Articolo intitolato “Luigi Covre” in “Opere di Antonio Gramsci, sotto la mole 1916-1920”, Einaudi 1960, pag. 471
  5. Giorgio Alberto Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, Firenze 1929, vol. III, pag. 392
  6. Cesare Maria De Vecchi, cit., pag. 40
  7. (a cura di) Umberto Levra e Nicola Tranfaglia, Torino tra liberalismo e fascismo, Milano 1987, pag. 242
  8. Cesare Maria De Vecchi, cit., pag. 19
  9. Nicola Adduci, Gli altri, fascismo repubblicano e comunità nel torinese, Milano 2014, pag. 49
                  Foto 3: De Vecchi, Capitano al fronte Foro 4: la squadra mutilati e invalidi di guerra “Giulio Giordani”

La volontà di rivincita: nascono i FdC, Torino 1919 (terza e ultima parte). A cura di Giacinto Reale

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Arrivano, a novembre, le elezioni. Gioda accetta, poco convinto, ma per devozione a Mussolini, che il Movimento entri nel “Blocco della Vittoria”. Ma la forzata alleanza con borghesi e moderati dura poco. Il deludente risultato dà linfa ai suoi intendimenti rivoluzionari e mette in ombra De Vecchi. Il “fosco anno di fraternità e sofferenza” si conclude – come in gran parte d’Italia – con una crisi del Fascio.

  1. Sono settimane di grande agitazione in una città “terremotata dalle mine bolsceviche”, e nella quale i pochi fascisti fanno quello che possono. Dopo quelle del 25 e 29 marzo, con poco più di una decina di aderenti e forte di una sottoscrizione tra i presenti che frutta 3.254 lire, il 18 aprile si tiene la prima assemblea generale.

Qualche Fascio comincia a sorgere anche nella provincia, a Ciriè, Caselle, San Maurizio e nel Canavese. Molto graditi sono anche i nuovi aderenti in città, i giovani del Fascio Studentesco Antibolscevico, così che Gioda può chiedere a Milano l’invio di 125 tessere per regolarizzare la posizione dei primi militanti.

[caption id="attachment_34934" align="alignright" width="196"] Brandimarte in uniforme da Generale della Milizia[/caption]

Sono sempre pochi, ma non manca la volontà di battersi, che già comincia a preoccupare gli avversari. Mancano, invece, i soldi, manca una propria sede indipendente, manca un giornale, e solo con molta fatica, e per la indefessa volontà di Gioda, che lo dirigerà, il vecchio settimanale “La Patria”, che durante la guerra aveva sostenuto lo sforzo dei combattenti, diventa “Il Maglio”, destinato ad essere, negli anni a venire l’organo della Federazione fascista torinese.

Mancano, soprattutto, le armi:  

Fu necessario cominciare la raccolta delle armi in sede. Per parte mia, misi nei cassetti della scrivania due pistoloni d’ordinanza, di quelli detti “da mitragliere”, più la mia stessa pistola Beretta, riservandomi una rivoltella “velodog”, molto elegante ma anche molto pratica, che mi era stata donata in ricordo da amici delle terre liberate.

Raccogliemmo così una decina di pistole e rivoltelle, una dovizia di pugnali, parecchie Sipe e parecchi Thevenot, che, per ogni precauzione, nascondemmo dentro la grande stufa in maiolica che adornava la nostra sede. Qualche Ardito aveva un moschetto, ma preferimmo che ognuno lo conservasse a casa per il momento della necessità.

Fin dai primi giorni di aprile 1919, la sede del Fascio di Torino era affidata alla vigilanza degli Arditi, ed era praticamente imprendibile da parte di bande sovversive. (18)

 

Un giorno arriverà in città anche Marinetti, accompagnato da Ferruccio Vecchi, non per una manifestazione politica o per una serata futurista, ma molto più prosaicamente per… ritirare una mitragliatrice austriaca, con relativo munizionamento, che il comandante di un Reparto di autoblindo gli ha promesso, e che sarà destinata alla difesa della “Casa rossa” in corso Venezia, a Milano.

Negli ambienti fascisti cittadini, a dire il vero, in questa prima fase, dubbi ci sono sui modi nei quali affrontare l’avversario. I primi verbali delle riunioni in via dell’Arcivescovado testimoniano una diversità di opinioni tra chi vorrebbe formare da subito dei corpi armati e chi, invece predica moderazione, per adeguarsi agli eventi se necessario.

Tra questi ultimi vi è proprio Gioda, che fa “opera sempre molto riflessiva e serena, opera pratica che tempera le proposte impulsive e frena gli scatti intempestivi”. Quando si arriva al 1° maggio, per esempio, riesce ad imporre la sua tesi di restare in sede, senza scendere per strada a provocare. Tesi dettata dalla ragionevolezza e dalla realtà dei numeri, ma che non piace agli “uomini di mano”:

 

De Vecchi ed io eravamo invece d’accordo nel volere un atteggiamento “ardito”. Non si riusciva a trovare una base comune. Decidemmo infine che gli Arditi si sarebbero divisi in due gruppi: il minore, cioè una ventina, sarebbero rimasti in sede, pronti alla difesa; un centinaio circa si sarebbero divisi in tre o quattro grossi pattuglioni che avrebbero controllato gli ingressi della Galleria.

De Vecchi ed io fummo d’accordo, senza parlarne a Gioda, nel voler impedire che il corteo rosso percorresse via Roma; sarebbe stata una grave provocazione per la cittadinanza non socialista, una specie di presa di possesso del centro cittadino.

[…]

La mattina del 1° maggio, il Fascio era gremito di Arditi e fascisti. Non è facile descrivere oggi il caratteristico aspetto, tra il cocciuto e lo spavaldo, che i fascisti assumevano in quelle circostanze, quando cioè si giocava la pelle su un filo di rasoio. In guerra era un’altra cosa: si combatteva inquadrati. Allora, nel ’19, si affrontava volontariamente la situazione, sapendo di essere un centinaio contro centomila! (19)

 

E’ una giornata particolare, che testimonia soprattutto la volontà dei pochi di non cedere di fronte ai molti, che non fanno paura, come il Segretario ribadisce in una lettera a Mussolini, già il giorno dopo:

Carissimo Benito, ti scrivo a tamburo battente. Ieri il Fascio si è trasformato in un corpo di guardia. Tutto il giorno vi è stato movimento. Se gli altri si muovevano, al fascio non mancavano gli elementi per una prontissima risposta. L’altra sera, alla Camera del Lavoro è stata decretata la nostra morte e quella dei Fasci. Un amico è riuscito a presenziare all’assemblea. E’ diventato Guardia Rossa. Mi ha quindi informato. Per accopparci occorre però una cosa semplicissima: la nostra disposizione a lasciarci accoppare. (20)

 

Tra un comizio (De Vecchi a piazza Carlo Felice il 21 giugno, per protestare contro l’insediamento di Nitti) ed una manifestazione (la contestazione all’esponente bissolatiano Giuseppe Canepa al cinema Ambrosio a corso Vittorio Emanuele, e la zuffa con gli scioperanti che vogliono impedire la consegna al Mercato di Porta Palazzo dei prodotti che i contadini portano dalle campagne), i primi scalmanati in camicia nera trovano anche il tempo di divertirsi un po’, a modo loro:

 

Mentre nei primi tempi la nostra azione si era per lo più limitata a difendersi dai soprusi bolscevichi, ora passavamo al contrattacco. Pattuglie coraggiose si spingevano tutte le sere in corso Vinzaglio, ove era la Camera del lavoro, in cerca di far quattro pugni: e l’occasione si trovava quasi sempre. Piccoli scioperi erano energicamente ostacolati dai fascisti, con ogni mezzo. (21)

 

Si fa, però, anche politica. Gioda, più di tutti, ha idee inequivocabili, e nel suo Diario scrive, alla metà dell’anno:

 

Occorre parlare chiaro. Il nostro programma non si può né adulterare né aggirare. Noi siamo fattivi, e non ci preoccupano né dogmi né Partiti. Sappia però la borghesia che noi non abbiamo sposato la causa nazionale ed internazionale di libertà e giustizia per diventare il suo parafulmine. Non abbiamo pregiudiziali dinastiche. Guardiamo i fatti giorno per giorno. Non si creda, in piano 1919, che, passata la festa, gabbato lo santo. Noi siamo più rivoluzionari di Serrati, il gesuita rosso.

Noi non siamo disposti ad abbandonare le chiavi dell’uscio nazionale sotto la porta della borghesia. Se questa non si muove, sfonderemo quella porta. Faremo casa pulita. Svecchieremo. La burocrazia, che inasprisce e inacidisce l’Italia, la sopprimeremo e nessun Giolitti potrà salvarla dai nostri colpi. (22)

 

Sempre lui, su “Il Popolo d’Italia” del 29 giugno pubblica un articolo “violentemente polemico contro Agnelli e gli altri maggiori azionisti della Fiat”, affrontando lo spinoso problema dei sopraprofitti di guerra e alzando il tiro rispetto alla borghesia “gretta, bottegaia, piccina, fatua, capace di preoccuparsi esclusivamente del proprio portafoglio”, che già aveva messo nel mirino.

Tutto ciò, mentre non mancano le polemiche interne, all’ombra dell’insuperabile differenza di opinioni tra i due più rappresentativi mussoliniani cittadini, con piccole ripicche e sabotaggi organizzativi. E’ per questo che il Segretario, qualche giorno dopo il fallimento – forse anche per colpa dei seguaci di De Vecchi – del Convegno regionale fissato dal Comitato Centrale del Movimento (senza sentire gli organi locali) al 1° giugno, scrive preoccupato ad Attilio Longoni:

 

Caro Attilio, se sei libero, vola all’assemblea di domani sera sabato. Sono incominciate grane in famiglia per via del comunicato di oggi del CC dei Fasci al Popolo d’Italia. Qualcuno è rimasto male perché ha intravisto, tra le riforme, anche quella definitiva della monarchia. Forse è necessario mettere i puntini sugli “i” e chiarire i nostri rapporti con i fascisti monarchici. Tuo Gioda.

Attendo risposta telegrafica. Se non vieni tu, manda Marinelli o Vecchi. (23)

 

Si può quindi immaginare con quanto poco entusiasmo, e solo per spirito di disciplina e personale devozione a Mussolini, Gioda accetti, a ottobre, in vista delle elezioni, l’inclusione di candidati fascisti nel “Blocco della vittoria”, insieme al Fascio liberale, all’Associazione nazionale, alla Lega d’azione italiana e altri gruppi minori, sulla base di un programma abbastanza generico.

[caption id="attachment_34933" align="alignright" width="200"] Squadristi torinesi, della “Cesare Battisti”[/caption]

Il risultato delle urne non premia la scelta, in una città che assegna ai socialisti il 53 per cento dei voti. Il solo De Vecchi può consolarsi con un buon successo personale, dovuto probabilmente al suo passato di combattente valoroso, al suo radicamento in ambienti borghesi e alla sua carica “vitalistica” che ne fa un sicuro punto di riferimento – certamente più di Gioda – per chi, dopo un lungo periodo di prepotenze sovversive, non disdegnerebbe ripagare gli avversari con la stessa moneta:

 

...il 9 novembre, ad un comizio nazional-fascista, mentre parla De Vecchi – con quella sua oratoria forbita elegante e di sommo gusto letterario, consueta in lui che è un cultore di classici, e sempre pienamente commossa, adorna ma estremamente sincera, sicché lo si ascolta sempre con l’anima negli occhi mentre parla De Vecchi, Ardito e Bombardiere, il valoroso di Val Cismon, i sovversivi entrano in scena improvvisamente e lo urlano e dileggiano la Patria.

Ma già De Vecchi non parla più: lasciato il palco, si butta fulmineo contro ai nemici, trascinando gli animosi all’offensiva. La risposta fascista è pronta, decisa, inesorabile, e i rossi sono respinti, dispersi, cacciati.

Il Tenente Bagnasco può parlare, intanto che il Capitano De Vecchi, con pochi animosi, sta, sentinella all’erta, pronto contro i rossi se tornassero. Ma non tornano. (24)

 

E’ quello che, nelle cronache successive, sarà definito il “comizio dei comizi”. Ma non è ancora il momento dell’azione, e non lo sarà ancora per tutto il 1920, “anno della minorità fascista”, così che la tendenza ad impantanarsi nelle beghe e nei personalismi (anche quando motivazioni di fondo ci sono, e reali) prevale.

Il 13 dicembre Gioda comunica alla dirigenza cittadina che le ragioni dell’alleanza alla base del “Blocco della Vittoria” sono venute meno, chiede ed ottiene le dimissioni del vertice, indice nuove elezioni per la nomina di una Commissione Esecutiva che porti alla creazione di “comitati a larga base, con inclusione di operai”.

De Vecchi si chiama fuori, ed è sostanzialmente assente anche alle iniziative pro-Fiume che il movimento prenderà in città nei mesi successivi, e che consisteranno in raccolte di fondi, organizzazione dei volontari che vogliono raggiungere la città, ospitalità a bambini fiumani presso famiglie amiche.

Tra Fiume dannunziana e Torino ci sarà sempre un legame forte, al quale non si sottrarrà lo stesso Gramsci e che troverà in Nino Daniele, redattore de “L’Ordine Nuovo” e legionario fiumano il suo trait d’union.

Proprio con Daniele il politico sardo si lascerà andare, a gennaio del 1920, a dichiarazioni che oggi possono apparire stupefacenti, almeno nella versione che ne darà il suo interlocutore:

 

Meno sentimento che in Giulietti e Bombacci, ma altrettanta attrazione e più dialettica.

Dichiarazioni importanti.

Sono convinto da un pezzo che il Partito avrebbe dovuto tentare di avvicinare d’Annunzio;

C’è una prevenzione nostra contro di voi, come ce n’è una vostra contro di noi;

Nel nostro Partito, le persone, le opinioni individuali non contano. Purtroppo, però, contano gli imbecilli, in quanto sono la maggioranza, come in tutti i Partiti;

L’ideologia comunista è, in questo momento, l’ideologia più nazionale. Noi non siamo contro la Patria, ma soltanto contro la Patria borghese;

[…]

A noi non importa tanto l’abolizione della proprietà privata, quanto l’organizzazione.

Fin qui Gramsci, che mi fece una simpatica impressione, e che mi invitò a mandargli qualche corrispondenza da Fiume, se ci andavo. (25)

 

Per una singolare coincidenza, di quelle che intrigano gli appassionati delle misteriose combinazioni della storia, quasi in contemporanea all’inizio dell’ultima avventura del Vate, nella ex Capitale sabauda inizia anche l’esperienza che, con il suo fallimento, porrà praticamente fine ai sogni sovietisti degli emuli di Lenin nostrani:

La storia effettiva del “biennio rosso” comincia a Torino il 13 settembre 1919, con la pubblicazione in “L’Ordine Nuovo” del manifesto “Ai Commissari di Reparto delle officine FIAT Centro e Brevetti”. Nel quale si ufficializzano l’esistenza e il ruolo dei Consigli, in quanto nuclei di gestione autonoma delle industrie da parte degli operai.

Lo stesso giorno, appoggiato dai suoi trecento legionari e da alcuni Reparti raccogliticci di Granatieri, essendo a suo avviso messi in pericolo i frutti della vittoria bellica contro lì Austria, sia dall’insipienza dei governanti italiani sia dall’ostilità degli Alleati dell’Intesa, Gabriele d’Annunzio muove da Ronchi di Monfalcone, ed entra a Fiume, proclamando solennemente l’annessione della città all’Italia ed obbligando il presidio internazionale ad evacuarla (e restandovi per quindici mesi). (26)

 

Sarà proprio l’occupazione generalizzata delle fabbriche, insieme alle sommosse estive contro il caroviveri a provocare il ritorno in linea di De Vecchi. Alla fine di luglio del 1920 si insedierà a capo della nuova Commissione Esecutiva, perché l’urgenza dell’azione obbliga a scelte “forti”. Se le rivolte cittadine possono considerarsi una fiammata, con il contorno dei classici “delitti di folla”, diverso sarà il caso delle occupazioni degli stabilimenti produttivi.

Eppure, contro di esse il fascismo non prenderà mai, né sul piano nazionale, né su quello locale, a Torino, una posizione fermamente ostile, nonostante si verifichino episodi atroci come gli assassinii di Scimula e Sonzini, e la presenza di minacciose mitragliatrici ai cancelli sembri il primo atto della rivoluzione sovietista.

Passata la sbornia, il Fascio di Torino sarà all’avanguardia nella battaglia antibolscevica, prima con una contrapposizione dura e decisa all’azione dei rivoluzionari ispirati da Mosca e poi con azioni di conquista del territorio, indispensabili in vista della “Marcia”.

La distruzione della Camera del Lavoro cittadina, il 25 aprile del 1921 e la “battaglia di Novara” nel luglio del 1922 saranno i due passaggi fondamentali della lotta squadrista.

Alto sarà il tributo di sangue da pagare. Una pubblicazione commemorativa, pubblicata nel 1929, fisserà in dodici – sul totale dell’intera Regione di quarantotto – il numero dei caduti fino al 28 ottobre del 1922 (ed altri cinque ce ne saranno negli ultimi due mesi dell’anno). Il loro ricordo sarà sempre giudicato utile per “ritemprare l’anima sull’acciaio delle loro limpide coscienze e prepararsi al domani con più saldo cuore e viva certezza”. (27)

Alla fine, il Fascio torinese potrà ben vantarsi di essere uno dei più forti d’Italia, così che, quando, dopo i tragici fatti del dicembre del 1922, i camerati genovesi si offriranno in aiuto contro la montante mobilitazione sovversiva, la risposta sarà netta e inequivocabile: “Savoia basta a se stessa”.

Dieci anni dopo, in piazza Castello, il definito riconoscimento mussoliniano: “Qui a Torino lo squadrismo non ha conosciuto limiti al suo sacrificio”.

  -fine-     NOTE
  1. Silvio Maurano, cit., pag. 32
  2. ivi, pag. 41
  3. (a cura di) Umberto Levra e Nicola Tranfaglia, cit., pag. 328
  4. Silvio Maurano, cit., pag. 42
  5. Giovanni Croce, cit., pag. 132
  6. (a cura di) Umberto Levra e Nicola Tranfaglia, cit., pag. 245
  7. Guerrando Bianchi di Vigny, cit., pag. 134
  8. Nino Daniele, Memorandum a d’Annunzio, in: Renzo De felice, “Il dannunzianesimo di sinistra in un memorandum di Nino Daniele a d’Annunzio del marzo-aprilem1921, in “Storia Contemporanea” nr 1/1970, pag. 623
  9. Remo Mazzacurati, Gramsci e il “biennio rosso”, Bolsena 2017, pag. 201
  10. (a cura del) XX° Gruppo Rionale Fascista “Antonio Strucchi”, I nostri martiri, pagine eroiche del fascismo torinese, Torino 1929
        Foto 5: Brandimarte in uniforme da Generale della Milizia Foto 6. Squadristi torinesi, della “Cesare Battisti”

La volontà di rivincita: nascono i FdC, Trieste 1919 (prima parte). A cura di Giacinto Reale

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 A Trieste, al termine della guerra, i sovversivi socialisti che sognano la rivoluzione bolscevica e gli annessionisti slavi che vogliono il confine all’Isonzo, sono alleati contro i cittadini di parte “nazionale”. Qualche timido accenno di reazione sembra destinato al fallimento, finchè, il 3 aprile del 1919, viene costituito il Fascio di Combattimento.

 

“Trieste è pazza di felicità”. Niente meglio di questa nota frase di Ugo Ojetti può descrivere lo stato d’animo della città quando, il 3 novembre del 1918, arriva la nave italiana “Audace”, a segnare la fine di una guerra che qui, oltre alle “normali” sofferenze, ha voluto dire per tanti le famiglie divise, per molti giovani la fuga per servire nell’Esercito italiano, e per chi resta la giornaliera battaglia contro una propaganda che mistifica i fatti e, utilizzando le menzogne, vuole soffocare le speranze:

[caption id="attachment_35723" align="alignright" width="290"] Allegoria del ritorno di Trieste all’Italia[/caption]  

Go imparà a leger nei comunicati Giorno per giorno so come la va Cò se legi: “I nemici ricacciati” Vol dir: “Bote da orbi, in quantità”

 

“In un punto ci siamo ritirati” Vol dir che un Regimento xe disfà Se te legi: “A nord-est siamo avanzati” Vol dir che i no poi moverse di là” (1)

  Quando scoppia la pace, però, la situazione si presenta subito complessa:  

“Città imperiale, municipale e italiana, insieme unite e nemiche; nella città una grassa borghesia, economicamente predominate, socialmente egoista e brutale, politicamente austriacante (salvo le nobili eccezioni) e servile o indifferente fino a Vittorio Veneto, e, dopo Vittorio Veneto, italianissima, anzi nazionalista, con nauseabondo fervore, quanto più era stata vile ed austriacante; una plebe italiana di sentimenti, desiderosa di indipendenza o almeno di autonomia.....una forte ed invadente, e, negli ultimi tempi che precedettero la guerra, pericolosa minoranza slava.

[...]

Ma, oltre a costoro, sopra di tutti, più forte, più nobile di tutti, una media ed una piccola borghesia appassionatamente e religiosamente italiana, che trasfigurò le forze diverse ed avverse, o le seppe far confluire in una sola potenza obbediente alla vita ed alla fortuna di Trieste, assimilò e contenne gli Slavi.....oppose alla plutocrazia negriera la sua giustizia sociale, impose alla plutocrazia austriacante e scettica la imponenza minacciosa e la dignità della sua fede. (2)

 

Forse un po’ esagerato, come al suo solito, Farinacci in queste righe, ma il ritratto della città e della sua popolazione è sostanzialmente rispondente al vero, come i fatti dimostravano allora e gli storici avrebbero confermato dopo.

Prima della guerra, il movimento delle merci nel porto, con un volume di 3.450.000 tonnellate nel 1913, assicurava un diffuso benessere all’intera città, insieme ad una crescente industrializzazione (p. es., verrà poi contestato a Torino di aver stroncato “gli inizi di una organizzazione attrezzaturale automobilistica notevolmente promettente”), e ad un comparto agricolo che nel rifornimento al vicino mercato danubiano aveva il suo punto di forza.

Nel 1918, con la vittoria italiana, tutto questo verrà a finire. Il protezionismo dell’Impero verso il porto di Trieste cedrà il posto alla concorrenza degli altri porti italiani, lo sviluppo industriale dovrà fare i conti con i più robusti analoghi tentativi, soprattutto del “triangolo”, la produzione agricola sarà surclassata da quella più abbondante ed economica della fertile Italia.

In questa situazione, con il conseguente aumento della disoccupazione, come ovvio, c’è molto spazio di manovra per il Partito Socialista e per le sue frange proto-comuniste, ammaliate dalle parole d’ordine che provengono dalla Russia.

Anche nel campo politico, a sinistra, si avvia una piccola rivoluzione. Il moderatismo dell’anteguerra, sprezzantemente definito “austromarxismo” viene spazzato via dal massimalismo di giovani capi estremisti che sposano la loro azione disgregatrice a quella degli Sloveni, i quali, già dal 1917, in segreto, agiscono “per la rivoluzione civile, cioè per l’assoluta indipendenza di queste terre”, e nel 1919 vedono, alla Conferenza di Parigi, i delegati jugoslavi rivendicare il confine all’Isonzo, e cercano di unire alla propria causa nazionale anche quella dei residenti a Trieste.

Ciò significa, in soldoni, che dalle originarie ipotesi di autonomismo “internazionalista” si passa al panslavismo dichiarato, con una rottura completa e definitiva con gli ambienti “di sinistra”, repubblicani e mazziniani che pure la guerra avevano voluto.

E’ in questo clima, effervescente da subito, che, mentre i socialisti sloveni invitano a “marciare sopra l’alabarda di San Giusto per piantare la bandiera slovena sopra la città di Trieste”, il Partito Liberale Nazionale, nella testimonianza di chi c’era, come Attilio Tamaro:

 

attraversò allora una fase che, per molti versi, si può chiamare veramente precorritrice del fascismo, poiché si trattò di stringere tutta la popolazione in un fascio, e si ebbe un vero squadrismo, con le cosiddette squadre o comitati d’azione, composte per lo più da giovani che eseguivano gli atti più radicali, attaccavano gli Slavi, bastonavano socialisti e austriacanti, affiggevano proclami”. (3)

 

Forse un po’ esagerato, anche in questo caso (e, infatti, l’A non tornerà più sull’argomento nelle edizioni successive delle sue opere), anche perchè, pensare che ciò basti si rivelerà ben presto una pia illusione. Aldilà di qualche legnata e dell’attacchinaggio di manifesti, vi è, al fondo dell’azione di questi primi elementi “nazionali”, un sentimento di moderazione non idoneo a rispondere alle esigenze dei tempi.

Essi, forse perché abituati al pugno di ferro –che, all’occorrenza, prevaleva su un paternalismo di facciata- austriaco, credono di poter contare su una tutela da parte delle Autorità dello Stato, di quelle nuove Autorità insediatesi in città che dovrebbero proteggere il diritto di chi la guerra ha vinto, contro l’ azione di chi, invece, svillaneggia la vittoria e mina, con discorsi rivoluzionari, la pace sociale.

Così non è. L’Italia di Orlando e Nitti è troppo condizionata, sia dai problemi sul fronte internazionale, causati dalla irriconoscenza degli Alleati di ieri, che da quelli sul fronte interno, agitato dalla sovversiva azione socialista, per poter seguire, come pure dovrebbe, la questione di Trieste.

In città, per reazione, è un fiorire di iniziative patriottiche. Federzoni viene a costituire la locale Sezione nazionalista, mentre, con il sostegno decisivo della “Trento e Trieste” nasce la “Sursum corda”, un’organizzazione di tipo paramilitare, che arriverà a contare su diverse centinaia di aderenti, armati di moschetto e pronti a scendere nelle strade in funzione antislava e antisocialista:

 

A Trieste, allora, per iniziativa del Segretario Generale Vittorio Fresco, si costituì il Battaglione della “Sursum Corda”, apparentemente con gli scopi fissati nello Statuto, nella mente dei dirigenti della “Trento e Trieste” con lo scopo preciso di avere pronto, a disposizione, in ogni evenienza, un nucleo di armati non legati a doveri militari, per premunirsi contro la sottile perfidia internazionale.

Al Battaglione si iscrisse la nuova generazione di Trieste, che non aveva potuto offrire il suo braccio alla guerra di redenzione, con entusiasmo. Segretario Alberto Riccoboni.

Il Battaglione potè contare in breve più di 500 armati, muniti di moschetto. (4)   Un ribollire di iniziative, insomma, che si collegano alla migliore tradizione cittadina:  

A Trieste, un una atmosfera di “irredentismo trionfante”, il motivo della “vittoria mutilata”, unitamente a quello della “difesa dell’italianità”, contro le manovre degli slavi e l’ambiguo indipendentismo dei socialisti, non potevano non ridestare approvazioni e consensi tra quei volontari di guerra che allora facevano parte della “Trento e Trieste”, l’associazione nazionalista che, sorta nel Regno nel 1901, col compito di mantenere vivo il sentimento irredentista, aveva, già nel novembre del 1918, esteso a Trieste la sua attività, con iniziative di assistenza, e, soprattutto, di stampa e propaganda.

Suo scopo era di corroborare l’italianità nelle terre che la vittoria aveva restituito alla Patria dopo secoli di oppressione e di esplicare questa missione principalmente colà “dove agli elementi indigeni si erano sovrapposti elementi etnici diversi”. (5)

Ancora poco, di fronte ad un atteggiamento delle Autorità che definire “prudente” sarebbe eufemistico. Già il 29 novembre del 1918 il Comando Supremo ha diramato una circolare riservatissima, a firma di Pietro Badoglio, con la quale vengono disposte una serie di norme relative al governo dei territori occupati. Viene ribadito: “il principio del rispetto delle leggi, delle istituzioni e degli ordinamenti preesistenti, e, in quanto possibile, degli stessi funzionari del passato regime”, e tradite così, di fatto, le legittime aspettative di cambiamento di chi a quel regime e a quei funzionari si era opposto, in nome dell’Italia, rischiando vita e libertà.

Sulla stessa linea badogliana si muove il Governatore militare, Generale Petitti di Roreto, il quale –incurante della disapprovazione degli ambienti “nazionali”- affida, per esempio, ai socialisti il recupero, in Austria, di valori e titoli italiani, con un atteggiamento generale che appare indifendibile allo stesso Nitti:

 

[...] sottoposto a critiche anche molto dure da parte del Governo centrale e degli Alti Comandi militari per il suo atteggiamento eccessivamente remissivo verso “ogni soverchieria degli jugoslavi”, osava difendersi opponendo una linea di necessaria moderazione e cautela. (6)

 

Con questi presupposti, non appare condivisibile l’opinione di Angelo Tasca, secondo il quale a Trieste e zone limitrofe più che altrove i fascisti si muovono, da subito, con l’appoggio della Autorità, mentre è certamente vero che:

  I Fasci hanno qui una missione quasi ufficiale: rappresentano la “italianità” che si vuole imporre alla regione. [...]

In tutta questa regione, le cui frontiere per tanto tempo discusse, sono state appena fissate, e dove è rimasta di fatto aperta la questione di Fiume, l’Italia non ha smobilitato. Tra la popolazione slava e i “regnicoli” non vi è nessun contatto; gli italiani, salvo qualche città, si sentono in territorio occupato: così i Fasci vengono formati in gran parte dagli Ufficiali delle guarnigioni, da funzionari e da altri elementi importati dalla penisola, che continuano in certo modo la guerra di “liberazione” contro gli slavi e contro i comunisti. (7)

 

Parlare di singoli “Ufficiali delle guarnigioni e funzionari” è, ognun ben lo vede, cosa ben diversa dall’ipotizzare un appoggio istituzionalizzato dei rappresentanti dello Stato.

E’ piuttosto esatto dire che, nella situazione che si è creata, al fascismo guarderanno tutti coloro che hanno a cuore le sorti della città (da difendere dalle mire slave, ma anche dalla rapacità di affaristi che vi sono precipitati da tutta l’Italia), e, di fronte a questa esigenza, le finezze ideologiche passano in secondo piano.

Una borghesia illuminata e non conservatrice quella che in gran parte si riconosce nel Fascio, e tale resterà anche negli anni a venire, se è vero che, ancora su “Il Popolo di Trieste” del 5 febbraio del 1921, questa tendenza “sociale” sarà fortemente ribadita, con la –per certi versi sorprendente- sottoscrizione piena di quanto Mussolini aveva affermato nel 1914, e cioè che: fra uno sfruttatore italiano e uno sfruttato slavo, io sono solidale con lo sfruttato” e la riaffermazione che: “il fascismo non fu e non sarà mai contro il proletariato, ogniqualvolta questa nobilissima parola non nasconda il contrabbando dei pidocchi di Lenin”.

[caption id="attachment_35724" align="alignright" width="213"] Immagini dello squadrismo triestino[/caption]

Non pochi tra i primi aderenti a Fascio e squadre, quindi, quelli che, pur riconoscendosi in questo momento nei postulati mussoliniani poi progressivamente si allontaneranno, fino ad arrivare, in qualche caso, all’antifascismo.

Vale la pena citare solo due nomi: l’avvocato Giusto Piero Jacchia (detto Piero) e il Capitano Ercole Miani

Il primo, avvocato di religione ebraica, irredentista, costretto a lasciare Trieste e poi volontario in guerra, è tra i fondatori del movimento mussoliniano locale, per essere poi sempre presente e “marciatore su Roma”.

Massone, si allontanerà dopo le leggi contro le Logge, e progressivamente scivolerà sulla china antifascista, fino alla partecipazione alla Guerra di Spagna, dove cadrà in combattimento, sul fronte di Madrid, a gennaio del 1937.

Per adesso, proprio a lui si deve quella che è forse la prima iniziativa pubblica di quanti alle ragioni della guerra non intendono rinunciare.

Il 3 aprile, sul giornale locale ”La Nazione” appare un proclama a sua firma che, col titolo “Fiamme Nere a raccolta”, si fa promotore del Fascio di combattimento cittadino (fondato proprio in quelle ore) e unisce l’esigenza di rigenerare la Nazione a quella di un nuovo patto sociale.

Contro uno Stato “confusionario, ingiusto e antidemocratico, inefficiente, pieno di ingiustizie palesi” e contro il bolscevismo “pazzo e anarchico”, riprendendo le parole d’ordine della riunione del 23 marzo, devono essere i combattenti di ieri ad assumere l’iniziativa.

L’appello, come altri simili, sul piano nazionale e locale, non cadrà nel vuoto. Anche nella Venezia Giulia le Fiamme, smobilitate, smobilitande o ancora in servizio, saranno la vera bestia nera di sovversivi e nemici della Patria, che qui sono pure alleati.

A settembre, dopo i violenti incidenti in città dei quali dirò, Aldo Oberdorfer, accompagnato dagli Onorevoli socialisti Marangoni e Armando Bussi, sarà ricevuto da Nitti, e farà le sue richieste:

 

Ho chiesto l’allontanamento degli Arditi concentrati nell’altipiano, e pronti a calare su Trieste al primo tentativo di una ipotetica sollevazione: oggi, inutili lassù, e pericolosa esca ad un incendio d’ odio che, di momento in momento può divampare tra le popolazioni slovene del Carso e del Territorio. Nitti ha risposto:

“Allontanarli subito, impossibile ! Non si pretenderà già di riversarli tutti nell’interno. Ma siamo tutti egualmente interessati a farli sparire dalla vita d’Italia nel più breve tempo possibile”.

Questa risposta mi pare in carattere con l’uomo. E ci avrei creduto, se non mi paresse ch’egli si serva ancora troppo di questa arma a doppio taglio che è l’Arditismo. (8)

 

E proprio un Ardito è il secondo personaggio al quale intendo dedicare due parole, Ercole Miani, “Villa” nome di battaglia. Egli, allo scoppio della guerra lascia Trieste per arruolarsi volontario, si guadagna due medaglie d’argento e due di bronzo, per essere poi un protagonista di primo piano dell’avventura fiumana. A lui si dovrà il “prelievo” dei camion utili alla spedizione dall’autoparco di Palmanova, dove, con Guido Keller, Tommaso Beltrani e Nicola Benagli costringerà alla retromarcia il Comandante che si è rimangiato la promessa disponibilità.

La sua natura di uomo abituato ad andare per le spicce, avallerà l’aneddoto che circonderà questa azione, secondo il quale, all’Ufficiale che invoca il suo status di militare, tenuto a “obbedire agli ordini”, egli avrebbe risposto brusco: “Bene, signor mio, tu obbedisci agli ordini e io ti uccido qui, seduta stante, e poi vado a prendermi i carri, con la forza. Perciò, decidi, e in fretta, o tu cedi, o io sparo”.

Con questi precedenti, sarà nominato, benché assente, impegnato a Fiume col Vate, componente del Direttorio fascista costituito alla metà del 1920, e, al rientro a Trieste, non potrà che essere nelle squadre, attivo protagonista di molte azioni. Quasi prevedibile che il suo carattere tempestoso non potrà non portarlo, in seguito, all’insofferenza, fino alla rottura con i vertici normalizzatori del Partito post marcia.

Spostatosi su posizioni antifasciste, sarà nelle Resistenza come esponente del Partito d’Azione, pur mantenendo contati, in funzione antislava, con Bruno Coceani ed altri esponenti fascisti. Sarà proprio l’intervento dei vecchi camerati delle squadre a favorirne la scarcerazione –e quindi la salvezza- dopo l’arresto da parte della “banda Collotti”.

Tutto di là da venire. Per ora sono qui, in casa del dottor Bartolomeo Vigini, dove, il 3 aprile del 1919, una trentina di volenterosi, in gran parte gli stessi irredentisti che fino ad allora, e già ai tempi dell’Austria, si riunivano al centralissimo Caffè degli Specchi, costituiscono il Fascio triestino.

La successiva sede di riunioni sarà la sede della “Società operaia triestina”, e solo ad ottobre, praticamente in coincidenza con il primo Congresso nazionale del Movimento, a Firenze, avverrà il definitivo insediamento nel palazzo Conti, in via del Pozzo Bianco 9, che era una viuzza –ora non più esistente- di Città Vecchia (“quartiere degli immigrati poveri e dei fascisti”, nella memoria popolare), che ospiterà anche Francesco Giunta, arrivato in città agli inizi del 1920.

La voglia di fare è tanta, fin dall’inizio. Per questo, il piccolo nucleo indice, tra il 27 e il 28 aprile, una manifestazione pro Fiume e Dalmazia, ed aderisce con entusiasmo al “Comitato centrale di azione per le rivendicazioni nazionali”, che si costituisce a Roma il 4 maggio.

Viene anche stabilito un contatto ufficiale con il vertice del movimento fascista, a Milano, così che, il 24 luglio, l’avvocato Enzo Ferrari, appositamente inviato, tiene una conferenza di propaganda al teatro Fenice.

Anche se il particolare contesto della città, restituita all’Italia dopo una guerra vittoriosa e al prezzo di 600.000 morti, lascia intravedere la futura, invitabile affermazione del fascismo locale, per ora, comunque la situazione è quella così mirabilmente sintetizzata:

  Il fascismo triestino nacque povero. Non c’erano agrari e non c’erano industriali.

I primi contatti tra combattenti ed ex internati risalgono al mese di febbraio, ma la fondazione vera e propria si ebbe il 3 aprile 1919, pochi giorni dopo la fondazione del fascismo avvenuta nel marzo del 1919 a Milano.

Non c’erano neanche i soldi per aprire una sede, e la prima riunione fu tenuta in una casa privata.

Gli aderenti erano una trentina, e la prima giunta direttiva fu composta dal dott. Edvino Biasol, dall’avv. Sergio Damperi, e dal prof. Ruggero Conforto.

Gli attivisti erano pochi, ma instancabili e determinati, e quando, dopo una giornata di lavoro e di lotta, si ritrovavano affranti, mettevano in comune quel poco che avevano e trascorrevano qualche ora lieta in una modesta trattoria. Costituivano una piccola famiglia, ma tenace e unita. (9)

 

E’, anche questa voglia di stare insieme e di “costruire” la nuova Trieste, una manifestazione di quel ritorno alla vita che, dopo i tempi cupi della dominazione austriaca e quelli tragici della guerra, anima la parte migliore della popolazione. Donne comprese. Le triestine sono, in questo, per chi arriva in città dalle altri parti del Regno, quasi un’anticipazione con la realtà diversa che poi, a Fiume, molti sperimenteranno di persona. E’ il caso di Marcello Gallian, giovanissimo volontario diretto alla città adriatica, che, nella sosta triestina, conoscerà una fanciulla che lo ragguaglierà sulla realtà cittadina:

 

Diceva: “Tutte le donne di Trieste hanno combattuto, maggiormente che non gli uomini, durante il massacro mondiale, e se non hanno sparato alcune, ciò si deve che furono asservite ad incombenze famigliari, casalinghe, in modo che tutta Trieste intera fu una casa sola, abitata da madri e nonni e figli piccoli. La mia età intermedia risultò di tutte le nature e di tutte le mansioni, se fui madre, zia, nonna, fanciulla e vecchia, amante e fidanzata, e senza amante e senza marito, al punto che adesso non so più che cosa scegliere e dove buttarmi. Ma tu sei il primo che mi ispiri una tale confidenza: puoi credermi. Adesso ho fatto festa –ribattè alzandosi- e tu puoi dunque partire da me”. (10)

    NOTE
  1. Flaminio Cavedali, L’anima di Trieste, detta per la prima volta la sera del 15 febbraio 1919 nel teatro Carlo Felice dal Tenente delle Fiamme Nere Giuseppe Dalledonne, Genova 1919, pag. 12
  2. Roberto Farinacci, Storia della rivoluzione fascista, Cremona 1937, vol. II, pag. 207
  3. Attilio Tamaro, in: Elio Apih, Avvento del fascismo a Trieste, Udine sid, pag. 4
  4. Bruno Coceani, 1919, L’opera della “Trento e Trieste”, Trieste 1933, pag. 30
  5. Claudio Silvestri, Dalla redenzione al fascismo, Trieste 1918-1922, Udine 1959, pag. 34
  6. Annamaria Vinci, Sentinelle della Patria, Bari 2011, pag. 23
  7. Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Bari 1965, vol. I, pag. 167
  8. Aldo Oberdorfer, Il socialismo del dopoguerra a Trieste, Firenze 1922, pag. 47
  9. Giorgio Almirante e Sergio Giacomelli, Francesco Giunta e il fascismo triestino, 1918-1925 dalle origini alla conquista del potere, Trieste 1983, pag. 5
  10. Marcello Gallian, Primo diario, Roma 1940. Pag. 61
    Foto 1: Allegoria del ritorno di Trieste all’Italia Foto 2: Immagini dello squadrismo triestino

L’Afrit… un racconto di Gianluca Padovan – 1^ parte

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Questa testata non è nuova nel pubblicare piccoli racconti segnalatici da estemporanei collaboratori alla ricerca di un piccolo spazio pubblicitario. Il più delle volte siamo costretti a respingere le richieste perchè non cogliamo l’Animus che serve a trascendere il proprio stato d’animo.

Afrit... il racconto breve di Gianluca Padovan è qualcosa di diverso perchè in primis lo abbiamo cercato noi incoraggiandolo e sollecitandolo visto che è un nostro storico collaboratore, a volte polemico, certamente scomodo, ma sappiamo che le sue ricerche, le sue indagini sono frutto di un lavoro meticoloso e ricchissimo di dettagli e non a caso si trova censurati interi lavori degnissimi di finire nelle rotatorie tipografiche. E già, il Nostro caro Gianluca non poco fastidio dà a benpensanti e nostalgici rannicchiati penzoloni come pipistrelli in un angolo buio di una grondaia per non svelare qualche scheletrino che si portano incuranti.

Ai nostri tanti lettori il giudizio finale augurandoci che altra censura non si abbatta inesorabile.

La Redazione

* * * * *

Il Balosso ne masticò la parola, ne assaporò l’essenza fino a ripetersela sommessamente tra le labbra: «Karmakarman… Sì, karman. Chissà che cos’hanno fatto costoro… Meglio dire, forse, cosa non hanno fatto…», ma non andò oltre perché non era in vena di filosofie che lasciano, comunque, il tempo che trovano.

E con il pensiero tornò indietro all’accadimento della mattina. Sembrava quasi che si fosse chiuso un cerchio, con quella frenata, ma in realtà se n’era appena aperto un altro. Maledizione, quando s’apriva un cerchio lo si doveva poi sempre chiudere… quel cerchio!!!

Figure geometriche a parte, ogni tanto, ultimamente in questi mesi, qualche convoglio della Metropolitana Milanese frenava più o meno bruscamente. Soprattutto quelli della Linea Rossa e Verde. Ovvero quelli dei colori della bandiera.

E quando il convoglio in corsa “inchiodava” all’improvviso… la gente veniva proiettata in avanti, ammucchiandosi una sull’altra come in un cartone animato della serie “Gatto Silvestro”.

Il Balosso, come lo chiamavano gli “amici” della Ringhiera, la quale era una delle poche case veramente popolari e di ringhiera rimaste dalle parti nord est di Milano, era per l’appunto su di un convoglio sferragliante nel sottosuolo. Ed ecco che si ritrovò spiattellato tra la fine del vagone metropolitano e un africano enorme che aveva perso la presa e gli era rovinato addosso.

Come dire: tra l’incudine e il martello.

Il Balosso si tirò su come una molla, nonostante gli anni, perché temeva che l’anzianissimo africano palandrato nella tunicona dai colori sgargianti si fosse rotto la testa… dal botto che aveva udito. E invece no, non sanguinava. Ma come inebetito continuava a ripetere con voce stridula: «… L’afrit!... L’afrit!... Aaafrit!» e intanto faticava a tirarsi a sedere nonostante lui lo strattonasse con forza.

«Calma, calma! Non vedo sangue… non s’è fatto niente…» sbraitava nel soccorrerlo. Ma intanto quella parola, “afrit”, non gli era certo sfuggita. L’aveva sentita anni prima, tanti anni prima e per molte volte nei trascorsi, da suo padre, il Cecco. E adesso gli martellava nel cervello. Un po’ come i colpi della mitragliatrice che il suo genitore simulava negli incubi notturni.

La gente attorno, scossa, frastornata, ma soprattutto infuriata, ne stava sbraitando d’ogni colore.

«Ma non è possibile! Ancora!» ululò quello che pareva un punk-bestia un po’ passato di moda e ingrigito nei capelli oramai radi, ma pur sempre irrigiditi nella mistura di gel dall’odore pungente.

«Ah… se mi sentono, diamine se mi sentono appena torno su…» biascicava la signora di mezza età mentre si ricomponeva la lunga e folta chioma scarmigliatasi per la frenata e il “tuffo” in avanti che s’era ritrovata a fare.

«Ma che diamine è successo?!?», lanciò lì un signore tirandosi in piedi e apparentemente senza danno.

Afrit.

Quell’articolazione di suoni l’aveva udita più che chiaramente uscire dalle labbra dell’africano.

Afrit: quella parola faceva tornare il Balosso all’infanzia.

Mano a mano che cresceva scaldando i banchi di scuola, il Balosso aveva imparato ad apprezzare una materia: “Storia”. Difatti una curiosità lo stimolava, ovvero quella di sapere che avesse fatto il padre da giovane, ovvero il Cecco, per non volerne parlare. L’unica cosa nota era che aveva combattuto in Africa durante la Seconda Guerra Mondiale.

Quindi da grandicello il Balosso cominciò a frequentare la bibliotechina di quartiere per raggranellare ulteriori informazioni su quel teatro di guerra africano tanto distante, eppure sempre vicino agli incubi paterni. La migliore fonte d’informazione avrebbe potuto essere la madre… ma anche lei si dimostrava reticente. Eppure era insegnante di “Storia” e doveva ben saperle quelle cose che a lui tanto premeva di conoscere.

Gli pareva che il “destino” gli giocasse, anche e soprattutto in casa, i soliti scherzi. Una mamma insegnante di “Storia” che non voleva parlare di Storia al proprio figlio!

Il colmo!

«Dai, Ma’, racconta degli incubi di guerra di Pa’…» la incalzava il Balosso quando il genitore era assente.

«Ma dai tu, Giovanni, tira via…» faceva di rimando sua madre.

Fu solo dopo la dipartita del Cecco, a onor del vero un po’ prematura, che sua moglie aveva sciolto i lacci della borsa dei ricordi, tanto rapidamente quanto candidamente, come per liberare la zavorra d’una mongolfiera dalla tanta sabbia e volare poi via, per raggiungerlo.

Sia come sia, una sera, davanti al piatto di brodo di pollo, con gli “occhioni” gialli di grasso che vi galleggiavano dentro, si sciolse.

«Soffriva d’incubi ricorrenti, il tuo povero padre…» gli disse con un filo di voce portando il cucchiaio alle labbra e soffiando piano sul brodino rovente.

«Sì, Ma’, questo lo so digià… ma vai avanti…» biascicava il Balosso ficcandosi in bocca un gran pezzo di pane inzuppato nella minestra e incurante del bollore.

«S’era appena sposati… Talune notti, sdraiato nel letto, quasi rigido, con le mani strette a pugno aveva gl’incubi e tremava… sognava e s’agitava tutto…».

«E allora?!», impietoso il Balosso.

«Allora niente… gli pareva d’avere ancora tra le mani la mitragliatrice e faceva con la bocca il tatatatatatam… mentre “sparava”…».

Il padre aveva proprio fatto la guerra.

Il Cecco frequentava la scuola professionale e si era nel 1940, quando fece cambiare direzione alla propria vita. Durante una lezione un professorone dai radi capelli impomatati affermò pomposamente che il suolo d’Italia… «… il Sacro suolo dell’Impero! Perdincibacco …» andava difeso.

Lui, il Cecco, si era sentito come investito d’un obbligo ancestrale. E aveva risposto arruolandosi, ma falsificando la sua data di nascita perché aveva solo 16 anni. Andò in quelli che la storia avrebbe ricordato da una parte e bollato dall’altra come i “ragazzi di Mussolini”. O, più correttamente, i “Ragazzi di Bir el-Gobi”.

Già, difatti Mussolini li aveva in urta perché loro, il loro cuore, volevano veramente “gettarlo oltre l’ostacolo”!

Circa ventiquattromila se n’erano arruolati volontari, tant’è che il Partito Nazionale Fascista rimase seriamente impensierito al punto che dopo averli sfiancati sui campi d’addestramento e fatti sparare con quei fuciletti ridicoli con cui s’era armato il “bellicoso sulla carta” Regio Esercito, li volevano rimandare a casa a nettarsi il moccio.

Dopo qualche parapiglia s’era pervenuti all’italica soluzione, quella del compromesso: duemila vennero arruolati e spediti al fronte, ma non subito. Ai restanti ventiduemila furono rilasciati attestato e medaglietta come se avessero partecipato alla “Stramilano”. Suo padre fu tra coloro che partirono per il fronte, per l’Africa del Nord. Suo padre, il Cecco, s’era fatto proprio il “Nordafrica” e fin quasi alla fine… poveraccio!

«Dai, Ma’!», ripeteva il Balosso, «Possibile che non t’abbia raccontato altro?».

«Sì, mi diceva che per giungere in Africa fecero un calvario, la sua nave colò a picco per un siluro inglese e una volta tra la sabbia… fu un vero disastro. Si rendevano conto che erano messi male e anche se giovani le cose le vedevano ben chiare».

Nel 1941 il tutto e per tutto si stava giocando a cavallo tra Libia ed Egitto, con a sud l’indomabile presidio di Giarabub, o meglio Jaghbub, tenuto da un pugno di soldati italiani coadiuvati da arabi locali. Quelli sì che ne avrebbero visti di “Afrit”… e parecchi!

A metà novembre, sempre del 1941, le truppe inglesi e del Commonwealth scatenarono una prima offensiva, denominata “Operazione Crusader”, la quale non doveva sortire grande effetto in quanto non sarebbe riuscita a liberare le proprie truppe accerchiate a Tobruk. S’avviava così la “Battaglia della Marmarica”.

Cucchiaio dopo cucchiaio, continuando a soffiare sulla minestra, la mamma del Balosso borbottò tenuamente: «Ricordo bene che il 28 novembre 1941 le truppe italiane dietro ordini superiori del Comando R.E.C.A.M., ovvero quello italiano, abbandonarono senza spiegazione l’importante caposaldo di el-Duda, lasciando il generale tedesco Erwin Rommel del D.A.K., ovvero della Division Afrika Korps, sbalordito e infuriato». Fece una pausa e sollevò lo sguardo dolce, emanato da quegli occhi grandi e azzurrissimi, capendo forse che alla fin fine, prima d’andarsene, le cose al figlio avrebbe dovuto raccontargliele.

Solo che non sapeva se fosse il caso di raccontargliela proprio tutta… la Storia, e non già quella che aveva per tanti anni insegnato a scuola: quella era solo “storia”.

E così riprese: «Alla fine di novembre le truppe inglesi riuscirono a congiungersi con quelle assediate a Tobruk e le forze tedesche tentarono, a quel punto, di tamponare la falla nello schieramento e passare al contrattacco, assieme alle forze corazzate italiane mal guidate e peggio armate. L’unica cosa degna di nota era che gli equipaggi dei carri italiani erano capaci e agguerriti, rendendo meglio sul campo se gli “alti comandi” italiani se ne stavano in silenzio».

Emise un sospiro, forse ricordando il suo povero padre… carrista. Il nonno materno del Balosso, perché sottacerlo, era morto in Cirenaica, arso vivo nel suo carro armato e proprio in quell’inverno del ’41.

La madre gira e rigira il cucchiaio nel piatto oramai vuoto e riprende: «Nel frattempo il Gruppo Battaglioni Giovani Fascisti, composto da I Battaglione e II Battaglione, s’incamminava per attestarsi a Bir el-Gobi, giungendovi rispettivamente il secondo e il primo giorno di dicembre».

“Bir” indicava l’esistenza di un pozzo d’acqua potabile, preziosissimo in quel mare di sabbia e di rocce calcinate; accanto vi era una baracca di legno e muratura, misera ma resistente al Ghibli, il vento del deserto.

«L’accerchiamento di tutti quei ragazzi da parte delle truppe avversarie avvenne rapidamente e tuo padre lo ripeteva sempre… E qualcheduno affermava, con rabbia, che nelle “alte sfere” italiane qualcheduno, o tutti, volevano vederli cancellati, tolti di mezzo il più rapidamente possibile…».

Forse perché il loro spirito rischiava di essere contagioso facendo correre il rischio alle “alte sfere” di vedere l’Italia vittoriosa, anche se mai e poi mai avrebbe dovuto entrare in guerra.

La seconda offensiva inglese prendeva così il via e il pomeriggio del giorno 3 dicembre le postazioni scavate a Bir el-Gobi sulle quote 182, 184 e 188 vennero cannoneggiate. Per i Giovani dei due battaglioni sarebbe stato il “battesimo del fuoco”, il primo scontro della loro vita.

E anche gli Inglesi lo sapevano, ironizzando alla radio che l’Italia non aveva più uomini e mandava al fronte, in Marmarica, i ragazzi, degli “sbarbati” con in testa il berretto con la nappina, ovvero il fez.

Qualcheduno poi scrisse che il generale sir Claude Auchinleck affermava che gli Italiani avrebbero disertato la lotta, lasciando che se la vedessero i Tedeschi, i quali sarebbero stati inevitabilmente accerchiati e schiacciati una volta per tutte ponendo fine alla guerra tra le dune.

D’altra parte, perché negarlo, il comandante in capo italiano, il generale Gastone Gambara, era quello che aveva fatto infuriare Rommel facendogli urlare fuori di senno: «Dove diavolo è finito quel b…?!?».

Intanto Gambara aveva ordinato al generale Piazzoni d’interrompere il contatto con gl’Inglesi e di ripiegare su Bu-Cremisa, forse per non “contraddire” Auchinleck. E ovviamente tra comunicati italiani, dispacci e chiacchiere da salotto non si accennava minimamente al fatto che i “Giovani Fascisti” erano appena stati accerchiati e attaccati niente meno che dal generale Anderson. Costui era a capo dell’11a Brigata Indiana, forte di qualche migliaio di uomini, con carri armati, autoblindo, artiglierie, etc., seguita da rinforzi costituiti dall’8th Royal Tank Regiment, il 7th Medium Regiment Artillery e un sacco di soldati ancora.

In pratica il silenzio dei comandi italiani era semplicemente e inequivocabilmente il requiem ben architettato che infine si suonava.

Fine 1^ parte  

La volontà di rivincita: nascono i FdC, Trieste 1919 (seconda parte). A cura di Giacinto Reale

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Il 4 agosto del 1919 il Fascio di Trieste ha il suo primo Caduto, al quale altri si aggiungeranno nel triennio successivo. E’ il diciottenne Carlo Polla, raggiunto da una moschettata esplosa da un Carabiniere durante una manifestazione. Nel suo nome inizia la redenzione della città.

 

La presenza per le strade dei primi e pochi giovanotti (“i soliti quattro sbarbatelli”, si autodefiniranno ironicamente, due anni dopo, ricordando la sottovalutazione avversaria) in camicia nera non può essere, evidentemente, sufficiente a ribaltare una situazione che la prepotenza socialista infiammata dall’esempio russo insieme alla aggressività slava tollerata dalle Autorità stanno rendendo insopportabile per i buoni italiani.

Gli scioperi dei cantieri navali e delle piccole realtà industriali connesse, con il contorno di violenze, non contrastate nei modi dovuti dalle Forze dell’Ordine, danno ai sovversivi l’illusoria impressione di essere alla vigilia della rivoluzione anche a Trieste.

La mobilitazione, in vista del grande evento, non può trascurare nessuno, nemmeno i più piccoli. E’ per questo che le Cooperative Operaie prendono l’iniziativa, con l’inizio dell’estate, di organizzare, alla domenica, escursioni fuori città dei figli degli iscritti. All’aria aperta, sommari corsi di indottrinamento si alternano al canto delle canzoni sovversive e ad un ricco pasto, preparato con cucine da campo a base di “pasta asciutta, carne e frutta”, come, ancora cinquanta anni dopo, con compiaciuto orgoglio verrà raccontato da uno degli organizzatori (e verrebbe da chiedersi da dove vengono i soldi per finanziare simili iniziative, in una città che vive, più di altre, la crisi del dopoguerra).

Al rientro, incolonnati, i ragazzi ed i loro accompagnatori adulti danno sfogo alla giovanile esuberanza, al ritmo di “Bandiera rossa” e simili canti, fermano il traffico delle vetture tranviarie finchè il loro improvvisato corteo non è passato, ostentano una fastidiosa (per gli altri) aria da padroni. Veramente riduttivo – e involontariamente ridicolo, oltre che insopportabilmente sdolcinato – è il racconto che uno dei protagonisti dell’iniziativa, il comunista Giuseppe Piemontese (pseudonimo “Tiberio”) darà dei fatti:

I piccoli gitanti rientravano in città incolonnati, cantando canzonette varie (non “sovversive”, né insultanti, come si volle poi insinuare). Nei pressi delle Sedi Riunite attendevano i parenti dei piccoli, che se li portavano a casa.

Un solo inconveniente, se così si può chiamare, era stato lamentato: che i giovani ordinatori, al ritorno in città, per eccesso di zelo, facevano fermare il tram per dare la precedenza al lungo corteo, la qualcosa, del resto, avveniva col benevolo consenso dei tramvieri. (1)

Poco credibile che i “giovani compagni”, non ancora “pionieri”, rientrino da un “campo comunista” cantando, per esempio “Quel mazzolin di fiori”, e ridicolo negare che, se pure i tramvieri sono solidali con chi sfila, gli occupanti le vetture non abbiano un legittimo senso di fastidio per il ritardo imposto. Lo stesso senso di fastidio dei pedoni che, nelle domeniche pomeriggio d’estate, affollano le strade cittadine e sono costretti a farsi da un lato per dare spazio alla sfilata dei cortei sovversivi.

Comunque vadano le cose, domenica 3 agosto, al termine della quarta “escursione”, nei pressi dei locali delle “Sedi Riunite” organizzatrici, succede, però, che tra un adulto accompagnatore (forse il padre di uno dei partecipanti) e i Carabinieri di guardia nasca un alterco. I militari non possono fare altro che fermare per “oltraggio alla forza pubblica” (che comportava l’arresto immediato) l’insultatore, e portarlo di forza alla Stazione di via Parini, mentre dall’interno della organizzazione sindacale viene esploso qualche colpo di pistola al loro indirizzo.

Tutto finirebbe lì, se in poco tempo, una folla di alcune centinaia di persone non circondasse la caserma dei Carabinieri, iniziando, contro l’edificio, un fitto lancio di sassi, che costringe i militari ad uscire e tirare qualche colpo di moschetto in aria per disperdere gli assedianti.

[caption id="attachment_35725" align="alignright" width="300"] Squadristi triestini[/caption]

Nonostante la sostanziale irrilevanza dei fatti, e, forse, contro la stessa volontà dei dirigenti socialisti, il giorno seguente viene proclamato lo sciopero generale. “Squadre di controllo” per imporre la chiusura dei negozi si formano all’interno delle Sedi Riunite e, al termine di un breve comizio, un folto corteo, al canto de “L’Internazionale”, si dirige verso il centro cittadino, facendo abbassare le saracinesche a chi ancora non lo ha fatto.

Nascono nuovamente conflitti con i Carabinieri, alcuni feriti vengono sommariamente curati nella farmacia Serravallo, in via Cavana, ed un giovane militare resta ferito (morirà poi in ospedale).

A questo punto accade l’imprevedibile. Un numeroso gruppo di giovani, prevalentemente studenti, si incolonna dietro un tricolore, in corso Vittorio Emanuele, e inizia a percorrere le strade, invitando coloro che si affacciano ai balconi, ad esporre a propria volta il tricolore, in segno di solidarietà.

Molti aderiscono, ma, all’altezza di via Dante, uno che era alla finestra, poi identificato per tale Dobauscek, pare fondatore del Partito socialista cittadino, risponde all’invito con un gesto triviale e frasi offensive: “Daghe, daghe ai taliani, mazeli!”.

Alcuni, allora, si staccano dal gruppo, penetrano nello stabile, e “prelevano” il giovane, che, un po’ malconcio, viene consegnato ai Carabinieri, raccontando l’accaduto. I militari, anche per sottrarre l’imprudente provocatore a più pesanti conseguenze, decidono per l’arresto e la traduzione in Questura, e si avviano, accompagnati dai giovani col tricolore.

Arrivati quasi a destinazione, però, sopraggiungono, numerosi, i partecipanti al corteo sovversivo – evidentemente informati dell’accaduto – che cominciano a premere, per cercare di liberare il loro compagno, azzuffandosi con i giovani “nazionali”.

Nella concitazione del momento, un militare esplode un colpo che raggiunge il diciottenne Carlo Polla, per il quale, nonostante le prime cure prestate nella vicina farmacia Vidali, non c’è più niente da fare.

E’ allora che, irrefrenabile, cresce l’ira dei camerati della vittima, ai quali si sono uniti, nel frattempo, gruppi di Arditi. Zuffe, che si concludono con la fuga dei manifestanti rossi, scoppiano in corso Garibaldi, e viene anche attaccato – senza molta convinzione, però – lo stabile del giornale “Il Lavoratore” che è il quotidiano sovversivo della città.

Dopo di che, i manifestanti si dirigono prima all’Hotel Balkan, sede delle associazioni slave della città, Narodni Nom, dove impongono l’esposizione del tricolore, e poi al giornale slavo “Edinost”, al cui interno riescono a penetrare per la successiva devastazione e l’esposizione del tricolore.

Quasi in contemporanea, in via Acquedotto (poi via Venti Settembre) viene attaccata una scuola slava, con annesso centro di cultura anti-italiano.

Al pomeriggio, riordinate le file, i manifestanti “nazionali” della mattina, rinforzati dalla robusta presenza di Arditi, anche in divisa, partendo dalla sede del Fascio si incamminano minacciosi per il Centro, fino alla sede delle “Sedi Riunite”, in via Madonnina, dove un gruppo di audaci, muovendo dal retro – a causa della numerosa presenza di Carabinieri di guardia all’ingresso principale – riesce a penetrare nell’edificio e impegna in un conflitto a fuoco gli occupanti.

Non è cosa di poco conto, perché all’interno dell’edificio ci sono asserragliati circa quattrocento socialisti, che si difendono come possono. Al rumore dei colpi si muovono anche i militari che stazionano all’esterno, e c’è un altro scambio a fuoco con gli occupanti. Quando tutto finisce, alcune centinaia di sovversivi vengono tratti in arresto.

In serata, la notizia della morte del giovane Polla si diffonde in città, e provoca l’unanime sdegno, proprio per la qualità di “bravo ragazzo” del Caduto.

Figlio di patrioti (il padre era fuggito per arruolarsi volontario nell’Esercito italiano, e la madre si era distinta nel dare ospitalità e protezione a “disertori” dell’Esercito austriaco), pare fieramente portasse, al momento dell’incidente, nel taschino della giacca, un fazzoletto tricolore – che lo rendeva facilmente “identificabile” – con su scritto “Viva Trieste italiana”.

La presenza di tanti Arditi tra i protagonisti della giornata conferma l’opinione di chi sostiene che nella città di San Giusto la normalità non è ancora tornata, e che si tratta quasi, ancora, di una retrovia del fronte:

La massa degli effettivi in armi, il sovraffollamento delle piccole pensioni sorte ovunque, il numero dei bordelli aperti giorno e notte, danno alla città l’immagine di una Capitale di guerra. Le strade sono percorse da una moltitudine di militari di tutti i Reparti, a cui si mescolano migliaia di smobilitati ancora in divisa. Giovani assuefatti alla violenza e privi di prospettive, che vivono alla giornata, cercando di evitare il ritorno nei paesi d’origine. (2)

Da parecchie fonti viene data per certa la partecipazione dell’ex Ufficiale degli Arditi, pluridecorato Ercole Miani, del quale ho già detto, all’assalto del 4 agosto. Con lui probabilmente c’è anche un’altra “pellaccia”, Tommaso Beltrani che gli sarà compagno prima nel “prelevamento” degli automezzi a Palmanova, e poi a Fiume, dove addirittura comanderà la “Disperata” addetta alla protezione di d’Annunzio.

Autorizza a crederlo il fatto che anche il suo nome risulta nello stesso elenco di metà settembre (quindi, quando anch’egli è fuori città, a Fiume) dei componenti del Direttivo fascista cittadino.

Ravennate, Tenente degli Arditi, decorato, è veramente un personaggio singolare, nella definizione di Mario Carli: “vero capobanda senza paura e senza disciplina, sdegnoso di portare i segni del grado sulle maniche, poiché li portava nella voce e negli occhi, e che spirava l’irregolarità da tutti i pori, da tutte le sdruciture della giubba e dei denti”.

Destinato a restare ben impresso nella memoria di chi lo conosce, pur in tempi nei quali simili personaggi “singolari” non mancano:

 

Era uno di quei tipi singolari, che si possono denominare “anime perdute”: un assieme di eroico e di sentimentale, di pazzo e di mistico, capace di giocar la pelle per un puntiglio, e di sparar diritto nella testa di chi non l’avesse seguito dov’egli avesse divisato di arrivare, magari all’inferno; incapace nell’istesso tempo di non togliersi di saccoccia l’ultimo centesimo, esponente di una bolletta cronico-permanente, per offrirlo al primo bisognoso.

Parlava con una specie di voluttà il largo e scapigliato dialetto romagnolo, con certe uscite tutte sue; aveva dei momenti di trasporto e di indicibile effusione, nei quali gli esplodevano fuori dei flebili: “at’ scioupess ‘na vena”, ‘e mi vecc” (“ti scoppiasse una vena, vecchio mio”), e questa era la frase della massima tenerezza. (3)

 

Ciò che colpisce, in questo caso, è che, come era accaduto a Milano poche settimane prima, dopo l’incendio de “L’Avanti”, da parte degli sconfitti sul campo, che pure sono più “forti” numericamente ed organizzativamente, non ci sia alcuna reazione.

E sì che, anche qui, i propositi più truci non mancavano. Sulla scrivania dello stesso Governatore militare Petitti di Roreto, si accumulano preoccupati rapporti degli Uffici informativi che riferiscono la frenetica attività di gruppi paramilitari marxisti che si stanno organizzando.

Si parla di una “Guardia Rossa Ciclista” che, ad imitazione di ciò che sta accadendo nel resto d’Italia, assicuri la possibilità di controllare il territorio e spostare velocemente, là dove la necessità lo richieda, consistenti gruppi di attivisti.

Ci sono poi le formazioni degli “Studenti Sovversivi”, che dovrebbero dare un supporto di cultura a questi Arditi rossi.

Tra gli organizzatori, si distingue, in particolare, il diciannovenne Vittorio Vidali, futuro stalinista di ferro, responsabile di svariati omicidi “su commissione” (meglio “su ordine del Partito”) negli anni successivi, compreso quello di Trotsky.

A fronteggiarli, la variegata compagine fascista, della quale ci si può fare un’idea pur nella malevola descrizione di un osservatore maldisposto:

E’ una massa particolare quella dei militanti fascisti, che riunisce categorie sociali comprese in un arco che dalla piccola borghesia si spinge fino ai confini del sottoproletariato. Sono tutti giovanissimi: ex Ufficiali di complemento, colletti bianchi assunti come precari dall’Amministrazione militare, smobilitati prigionieri della crisi economica del dopoguerra, braccianti impiegati nell’edilizia o nel porto, commercianti ambulanti, operatori di bassa qualifica nella Sanità o in servizi gestiti dal Comune, disoccupati. Non è semplice controllarli, ma costituiscono una massa d’urto formidabile. (4)

 

Niente grossi borghesi, industriali ed agrari, nelle file fasciste. Se in questo elenco una categoria manca, perché sfugge alle classificazioni marxiste, è invece quella degli uomini usciti dalla guerra, e, in particolare, di quelli che l’hanno combattuta in prima linea e con valore, facendone quasi una seconda natura.

Con simili “uomini di mano” disponibili, e con la simpatia di gran parte della popolazione (nel pomeriggio del giorno 4 si parlerà di oltre mille manifestanti insieme ai fascisti) è più che lecito ipotizzare che la vittoria delle squadre fasciste sarebbe certa.

[caption id="attachment_35726" align="alignright" width="300"] Squadristi sfilano per la città[/caption]

Bisognerà invece aspettare la primavera dell’anno dopo, e l’arrivo in città di un capo capace e carismatico come Francesco Giunta, perché essa si realizzi. Questo anche se, già nei giorni immediatamente successivi alla morte del povero Polla, tutta la Trieste fascista si mobilita in previsione dell’azione su Fiume che voci sempre più insistenti danno per prossima, sotto la guida di d’Annunzio.

Gli avvocati Sergio Dompieri e il già citato Giusto Piero Jacchia, il professor Ruggero Conforto e altri curano la parte organizzativa e politica del movimento, mentre nelle strade si distinguono ex militari e Arditi (in gran parte aderenti al Battaglione “Volontari Giuliani”) destinati a restare sconosciuti, anche se con un passato combattentistico di tutto rispetto, come Oreste Babuder, volontario irredento da Capodistria (e perciò noto come “Oreste Rozzo”), quattro medaglie d’argento e una di bronzo.

In tutti questi uomini, e soprattutto in quelli provenienti dalle terre che fecero parte dell’Impero Austro-ungarico e ancora non sono state restituite all’Italia, il sentimento antislavo è predominante, a testimonianza di antichi retaggi che si trasmettono di generazione in generazione.

Anche quando, al finire della seconda guerra mondiale, alcuni di essi faranno una scelta di campo antifascista, esso resterà evidente e predominante.

Questa la testimonianza, per esempio, riferita alla primavera del 1945, di Bruno Coceani, Capo della provincia:

Urgeva, dinanzi la prospettiva di una feroce conquista slava, chiamare a raccolta gli italiani. Non mi sottrassi a nessuno sforzo per menare a concordia pensieri ed animi.

Chiamai Oreste Rozzo, uno dei più decorati volontari della guerra di redenzione, amico fraterno di Ercole Miani. Trovo queste note nel mio diario, al 30 marzo:

“Colloquio con Rozzo: tutte le forze devono marciare parallele per schierarsi contro l’invasione slava. E’ questo il nostro fronte. Ogni giorno più si accentua il collasso della Germania. Scompare il pericolo di un’annessione al Reich. Bisogna che il Comitato di Liberazione, schiavo degli ordini di Milano, rettifichi la sua azione, subordinandola alla suprema necessità della difesa dei confini. Si rompano le punte delle fazioni. Prima l’Italia. Poi i Partiti. In nome dell’Italia chiedo una tregua di Dio” (5)

 

Le strade cittadine sono sempre più frequentemente percorse da cortei di giovani in camicia nera che somministrano “schiaffi e pedate” a chi non si scopre al passaggio del tricolore, con esiti che non vanno, comunque, esagerati:

Ovviamente, la violenza conseguiva notevoli risultati. I timidi e gli incerti aderivano, gli oppositori cedevano. Persuadeva, tra gli altri, coloro che, senza voler andare più a fondo nella questione, anelavano al ristabilimento dell’ordine pubblico.

Ma la violenza ed il tacito appoggio che essa riceveva dalle Autorità non bastano da sole a giustificare il successo dei fascisti. Lo si comprende meglio se si considera la organica debolezza dei suoi oppositori, del movimento operaio e della minoranza slovena in primo luogo. (6)

Giustificazione che un po’ si arrampica sugli specchi, perché trascura l’essenziale elemento che il Fascio, nello stesso periodo, fa anche politica, aprendosi alla società civile. Dà così vita ad un “Comitato pro Fiume”, al quale aderiscono anche i non mussoliniani, si propone, con la collaborazione di comuni cittadini, come “città-ponte” per i volontari in transito, intensifica la propaganda, e procede con l’invio di soccorsi alimentari raccolti tra i volenterosi.

Appena una settimana dopo l’ingresso del Poeta, Giovanni Giuriati indirizzerà al delegato del Fascio per Fiume, l’avvocato Piero Pieri, una lettera nella quale riconoscerà proprio il triplice ruolo della città di San Giusto, ed inviterà ad una pausa di riflessione per ciò che concerne l’invio di volontari:

Bisogna trattenere volontari e rimandarli indietro, perché la soverchia affluenza di uomini potrebbe danneggiare la nostra causa. Si può fare eccezione solamente per quelle persone che risultino utili alla nostra causa.

E’ necessario impiegare il maggior numero di persone nella propaganda in Paese e fra le truppe; oggi bisogna agitare e far sì che la Nazione tutta senta l’ora storica che attraversa. Il gesto compiuto a Fiume deve avere termine a Roma.

Ringrazio vivamente per il piroscafo di viveri arrivato ieri sera.

Saluti cordiali. Diffondete e fate diffondere le nostre notizie. (7)

 

Sicuramente “utili alla causa” sono elementi come i già citati Miani, Rozzo e Beltrani, che lasciano la città, insieme ad un nutrito gruppo di Arditi e volontari.

Chi resta combina l’attività a favore dell’impresa, con la politica di ogni giorno, che, per il movimento fascista, in questo settembre del 1919 vuol dire soprattutto organizzare la partecipazione al primo Congresso che si terrà a Firenze ad ottobre, dal quale tutti si aspettano un segnale di ripresa dopo la stasi che dura dall’inizio dell’anno.

Il legame col centro di Milano è ormai saldo e forte. Il fascismo triestino disciplinatamente si inquadra, con gli altri, nelle file mussoliniane, e orgogliosamente canta, per le strade:

“Se non ci conoscete / sentite o triestini / noi siamo gli squadristi / di Benito Mussolini

Se non ci conoscete / guardateci la veste / noi siamo gli squadristi / del Fascio di Trieste”

  NOTE
  1. Tiberio, Il fascismo a Trieste negli anni 1919-23, Udine sid, pag. 5
  2. Dario Mattiussi, Il Partito Nazionale Fascista a Trieste, uomini e organizzazione del potere 1919-1932, Trieste 2002, pag. 1
  3. Costanzo Ranci, Piume al vento, Milano 1922, pag.
  4. Dario Mattiussi, cit. pag. 11
  5. Bruno Coceani, Mussolini, Hitler, Tito, alle porte orientali d’Italia, Gorizia 2002, pag. 320
  6. Elio Apih, Avvento del fascismo a Trieste, Udine sid, pag. 21
  7. Miche Risolo, Il fascismo nella Venezia Giulia dalle origini alla marcia su Roma, Trieste 1932, pag. 6
    Foto 3: Squadristi triestini Foto 4: Squadristi sfilano per la città
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