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DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XXIV parte) – Gianluca Padovan

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«Erede diretta delle glorie dei violatori di porti che stupirono il mondo con le loro gesta nella prima guerra mondiale e dettero alla Marina italiana un primato finora ineguagliato, la Xa Flottiglia M.A.S. ha dimostrato che il seme gettato dagli eroi del passato ha fruttato buona messe»

Decima Flottiglia M.A.S., manifesto (50 x 82 cm, verticale)

 

 

Soldati Volontari e «banditi».

Ciò che è stato scritto in tempo di guerra, ovvero da chi era presente in quello specifico momento, ha un grande valore. Certamente quanto si propone è parte della propaganda della Decima, ma è altresì chiaro che costoro si sono presentati in prima persona Volontari, si sono battuti e molti sono morti.

Come si potrà leggere c’è chi non è morto per mano nemica, ma per mano di traditori che hanno tradito due volte: la prima perché sono passati al nemico, la seconda perché non hanno avuto il coraggio di battersi a viso aperto. Difatti, mai lo si dimentichi, costoro potevano agire perché non portavano divisa né, tantomeno, alcun segno di riconoscimento che li differenziasse a colpo d’occhio dalla popolazione civile in cui si mescolavano.

In questa parte si prosegue quanto cominciato nella XXII e XXIII parte, ovvero l’elencazione dei mezzi d’informazione della Xa Flottiglia M.A.S. Difatti Il Comandante Junio Valerio Borghese sa bene che la propaganda è fondamentale per poter fare affluire sempre nuovi volontari nei reparti e che, visto il clima interno in cui si dibatte la Nazione è fondamentale possedere i propri mezzi d’informazione: giornali, riviste e opuscoli.

 

 

Il Comandante Umberto Bardelli.

Opuscolo stampato il 28 luglio 1944 dalle Edizioni Erre, settimo di una serie di tredici. Composto da Mario Sanvito e R. C., ha 15 pagine di solo testo (12,5 x 17,4 cm) ed è composto da due articoli tratti da Il Pomeriggio del 13 luglio 1944 e da Regime Fascista del giorno seguente. La terza parte è la trascrizione, preceduta da breve commento, della lettera di Elena Zanga spedita a Serena Bardelli, figlia dello scomparso Comandante Bardelli, ucciso in imboscata a Ozegna da “parteggianti” armati (Mario Sanvito ed R. C., Il Comandante Umberto Bardelli, Decima Flottiglia M.A.S., Edizioni Erre, Milano 1944).

 

«Lettera a un bandito».

A proposito della vicenda occorsa al Comandante Umberto Bardelli e ai suoi Volontari, ecco la trascrizione di un chiarissimo documento di un Marò, Mario Tedeschi, pubblicato su Repubblica Fascista del 18 luglio 1944, che successivamente è divenuto un volantino fatto stampare dall’Ufficio Stampa della Decima Flottiglia M.A.S. di Milano, con sede in Piazzale Fiume n. 1. Il titolo è «Lettera a un bandito».

«Il marò allievo ufficiale del Battaglione “Barbarigo” Mario Tedeschi, catturato dai banditi ad Ozegna nell’imboscata in cui fu trucidato il comandante Bardelli con 9 suoi uomini e liberato poi, dopo 8 giorni di prigionia, ha scritto una lettera al capo della banda. Eccone il testo: // Credo, Piero, che non avrei accettato l’invito fattomi di scrivere quanto è passato in questi giorni dall’8 al 15, se al mio ritorno ad Ivrea non avessi veduto le fotografie dei miei compagni caduti nell’imboscata di Ozegna. Il viso sfigurato di Bardelli, morto da eroe; la sua bocca che le mani dei tuoi avevano lasciata spalancata dopo averne strappato i denti d’oro; la figura orrendamente deturpata del povero Fiaschi, ucciso con un colpo a bruciapelo nel cranio mentre già rantolava ferito; quei volti lordati oscenamente di fango; quelle divise lacerate dall’ansia del predone che frugava, hanno rinvigorito, se possibile, il risentimento dell’animo mio. Chi scrive queste righe, e lo riconoscerai dalla firma, è uno che ti ha dimostrato di non aver paura. Non sono quindi le ripetute minacce di morte, di arruolamento al «Battaglione San Pietro», come voi dite, che mi ispirano; ma è la ferita profonda lasciata nell’animo mio dall’aver veduto a quali punti di bassezza possono giungere gli Italiani. Lo slavo che alla sera dell’8, sulla piazza di Pont Canavese, ci prometteva di tagliarci prima il naso, poi le orecchie e, infine, il ventre, è molto superiore a voi che fingeste di trattare con Bardelli per far giungere i rinforzi e circondarci nella piazzetta della Chiesa, dove noi attendevamo con le armi scariche, fiduciosi della vostra parola. Venivamo dal fronte, dove avevamo combattuto non per un partito o per lo straniero, ma per l’Italia, così come voi stessi dite di fare: eppure furono degli Italiani che incolonnarono i 29 prigionieri per le vie di Pont Canavese, così come furono Italiani quelli che accompagnarono la sfilata percuotendoci e sputandoci in viso. È assai poco nobile, credimi, abbandonare all’odio e all’insulto stupido e bestiale di una popolazione accecata, dei soldati che hanno combattuto bene e si sono dovuti arrendere solo perché senza munizioni! Poi tentaste di convincerci a cambiar bandiera: e per sette giorni di fila fu un alternarsi di velate minacce e di botte propagandistiche; di menzogne sull’andamento delle guerra e sul comportamento dei nostri Comandi. Nessuno, del «Barbarigo», ha ceduto. Tu lo sai. Ma parliamo di voi, dei tuoi uomini, che qui si conoscono solo attraverso le voci di due propagande opposte. Il gruppo Piero è così composto: // 1) Una grandissima parte, formata per lo più di renitenti alla leva, che sta sui monti per paura di combattere; costoro, logicamente, non vanno in azione, ma sbrigano i servizi; 2) una parte risultante di individui che non possono scendere in pianura avendo commesso dei reati comuni nel periodo dal 25 luglio ad oggi; 3) una parte minima di individui che formano il nucleo combattente; parte in cui ho trovato qualche raro elemento che vorrei fosse con noi. La proporzione tra i combattenti e gli imboscati e dell’1 a 10. // A questo aggiungi che tutta la massa va avanti per forza d’inerzia, senza che sia possibile applicare una benché minima forma di disciplina. È stato un tuo amico che confessò ad uno di noi: «Se tentiamo di instaurare la disciplina qui restiamo in due». Questo gruppo di persone che financo nel vestire dimostrano la zingaresca essenza della cosa (ho visto uno dei vostri pavoneggiarsi di un berretto da gerarca fascista con su alcune penne rosse) vive distruggendo il patrimonio zootecnico della Valsassina, togliendo ai contadini burro e farina, prendendo (naturalmente in nome dell’Italia) tutto quello che vuole, ovunque lo trovi. E infatti vi vantate di non aver soldi in tasca, pur non mancando di nulla. Con simili combattenti mi diceste di voler rifare l’Italia, ma chiunque ragiona sa benissimo che la pace segnerà lo scioglimento improvviso dei reparti partigiani, dato che il 99% dei componenti altro non attende che quell’ora per tornare a casa, infischiandosene della situazione politica e dell’interesse nazionale. È evidente quindi che voi fate il gioco degli Inglesi, che voi proclamate di voler eliminare come i Tedeschi, e del Comitato di liberazione nazionale, composto di elementi più o meno bastardi che speculano sul momento. A rinforzare la cosa, noto infine che tutti i ribelli che ho incontrato vivono esclusivamente sulla propaganda di radio Londra, la quale li sorregge con menzogne che vengono tranquillamente bevute. Non fummo forse avvisati nel nostro periodo di prigionia che Londra aveva comunicato che Milano era stata violentemente bombardata e che uno sciopero generale era scoppiato a Genova, Milano e Torino? Allontanati da ogni contatto, i tuoi uomini guardano oggi con gli occhi che loro volle dare il nemico: credi, Piero, che questo sia bene per l’Italia? Non si deve forse proprio a questo la tremenda confusione di idee che ho notato fra voi, per cui combattete per Badoglio chiamandolo «bastardo»? Vi dite comunisti ossequiando i preti, vi chiamate liberi affidando il servizio viveri e il controllo dei rifornimenti ad un inglese, proclamate l’uguaglianza lasciando che il Comitato di liberazione vi abbandoni sui monti senza un soldo, appropriandosi dei vari chili di biglietti da mille lanciati dagli aerei, vi dite patrioti terrorizzando le innocue popolazioni con le requisizioni forzate e con i saccheggi. Questa l’impressione fotografica dei ribelli di Val Soana. Del periodo di prigionia non credo sia necessario parlare. È stato un alternarsi continuo di ansie e di calma, durante il quale siamo stati trattati con ipocrita cordialità. Il fatto che ci abbiate costretti in trenta in due stanzette, obbligati a lavare i vostri piatti, promessa ogni giorno la libertà, sono cose trascurabili di fronte al dolore provocato nel vedere quanto in basso sia caduta questa nostra Patria adorata. È per questo che noi, Piero, ci auguriamo di tornare presto al fronte. Ti sia ben chiaro però che mentre dall’imboscata di Ozegna tu non hai guadagnato che i pochi oggetti che avevamo indosso (ci toglieste persino la cinghia dei pantaloni) e il nostro denaro, noi abbiamo riportato il ricordo incancellabile della voce di Barbarigo che grida: «Barbarigo non si arrende! Fuoco!», additandoci così la via della vendetta e dell’onore. // Da Repubblica Fascista del 18-7-44» (già riportata in IV parte).

Un eroe della “X„ Leone Bogani.

Opuscolo stampato nel febbraio 1945 dalle Edizioni Erre, ottavo di una serie di tredici. Ha 22 pagine di solo testo (12,5 x 17,4 cm) ed è composto da più brani, il primo dei quali non reca né titolo né firma.

Sostanzialmente ricorda la cattura a tradimento e l’uccisione del Sotto Tenente di Vascello Leone Bogani a Torriggia, da parte dei soliti “parteggianti”, che non vestono divisa.

Seguono: leone bogani non è più… firmato in calce «Dal diario di un profugo, 28 Luglio - XXII»; uomini della “x” fra i banditi. “Tu mi fucilerai…” di Giulio Rossi e tratto da Sveglia! del 25 agosto 1944; Leone Bogani comanda il fuoco ai suoi assassini tratto da Regime Fascista del 2 agosto 1944. L’ultimo brano, senza titolo, è la lettera di un’amica che lo commemora tratta «Dal periodico “Ali„ del 3 settembre – XXII» (AA. VV., Un eroe della “X„ Leone Bogani, Decima Flottiglia M.A.S., Edizioni Erre, Milano 1945).

 

«Leone Bogani comanda il fuoco ai suoi assassini».

«decima flottiglia mas – reparto stampa // decima, a noi! // leone bogani comanda il fuoco ai suoi assassini». Questa è l’intestazione del volantino stampato fronte-retro a ricordo dell’episodio che deve rimanere fermamente inciso nella Storia d’Italia.

«Era un nostro amico. Quando, all’8 settembre, si compì l’ignominia d’Italia, egli non attese né un giorno né un’ora. Già tenente d’aviazione, non pensò al titolo di studio ed al grado e, come semplice milite, entrò nella Guardia della Rivoluzione. Poi tornò all’Aeronautica repubblicana, e in quei giorni oscuri di novembre vene da noi (felice di trovare nella redazione di Regime Fascista uno spirito «rivoluzionario e repubblicano»), perché qualcuno intervenisse a far cessare ogni magagna tipo… passato regime e perché gli fosse permesso di affrontare subito il nemico, invasore della sua patria adorata. Questo suo fuoco interiore, questa sua inesausta passione, lo fecero perfino tacciare d’indisciplina, tanto che egli preferì ed ottenne di passare alla Xa Mas, anche con la perdita di un grado, pur di trovarsi in mezzo a quei reparti che già contavano dei combattenti al fronte. E, nel marzo scorso, venne inviato alla scuola sommozzatori e ne uscì giorni fa, fierissimo, come pilota di mezzi d’assalto. I nostri lettori ricorderanno certo il suo nome fra i firmatari di una lettera che pubblicammo a fine giugno, lettera in cui il suo nobile ed altissimo patriottismo si ribadiva una volta ancora. Dal corso, in data 2 maggio, ci scriveva, fra l’altro: «Sto per terminare il corso che mi consacrerà pilota d’assalto. Figurati la mia gioia, dopo tanti mesi di ansiosissima attesa: potrò finalmente affrontare il nemico proprio sul mare, dove è cento volte più forte di noi! Ho tanto desiderio di venire a Cremona; voglio respirare una boccata d’aria veramente pura, come non se ne trova in nessun altro posto; un’aria che ha il magico potere di rinfrancare ed ogni tanto fa bene anche a chi di rinfrancamento non ha bisogno davvero…». Ed il 2 giugno successivo ancora: «… Ieri, in un incidente, abbiamo perduto il nostro comandante, tenente di vascello Domenico Mataluno, puro italiano e convinto fascista. Egli è caduto per insegnarci la manovra esatta per offendere, nel modo più fatale, il nemico. Era ottimo come comandante e come amico. È per noi una perdita gravissima; perché vicino a lui il mio cuore d’italiano palpitava più forte e più appassionatamente che mai. Il grave danno è che le persone migliori muoiono. È divinamente bello dare la vita per l’Italia, ma è anche divinamente bello poter godere, vivi e coscienti, l’attimo dell’immancabile vittoria. Qui noi facciamo continua propaganda e vediamo, con immensa gioia, che qualcuno non troppo fascista, di fronte alla infinita purezza del nostro entusiasmo, muta idea e viene a noi». Terminato il corso, Bogani, giovane ufficiale della classe 1920, fiorentino scanzonato, impulsivo, buono, audace, non ha che un desiderio: mettere a profitto contro le carene nemiche quanto ha appreso nelle dure lezioni pratiche, in tanti mesi. Ma, prima, chiede ai suoi superiori un breve permesso: l’odiato invasore avanza verso nord e la Toscana è minacciata. Già si combatte a sud della sua Firenze. Vuol correre a prendere la famiglia e portarla al sicuro dietro quel confine che la sua fantasia dà ancora per poco tempo alla Repubblica di Mussolini, in attesa del balzo della riscossa. «Voglio – egli dice partendo – che i miei vecchietti vedano sempre garrire il tricolore repubblicano e che possano leggere sui nostri giornali le mie… gesta». È partito ma non è tornato. Il sogno generoso del fanciullone è stato infranto non dall’acciaio e dal piombo del nemico, ma dalla cattiveria e dalla // malvagità di alcuni prezzolati traditori: sorpreso dai banditi presso Torriglia, mentre tornava al Corpo, si difendeva accanitamente per alcune ore, tenendo in scacco i fuorilegge col fuoco tempestivo del suo mitra e con le bombe a mano. Esauriti anche i sette colpi della pistola, era costretto ad arrendersi. Immediatamente giudicato colpevole di patriottismo, di fascismo e di difesa della divisa della Xa Mas, veniva condannato a morte all’unanimità. Che cuore possono avere queste belve, che non hanno sentito la grandezza di quel puro animo di ragazzo coraggioso ed entusiasta? Ma una via di salvezza c’è ancora per Bogani. Rinneghi il Fascismo, getti il distintivo, dichiari di non combattere più contro le bande e contro l’anglosassone e non gli verrà torto un capello. Salvarsi in questo modo equivarrebbe ad uccidersi spiritualmente; del resto, in Bogani, certi sentimenti non hanno mai generato crisi interne o dubbi di sorta: amare l’Italia, difenderla, morire per lei, erano postulati naturali per il suo spirito rettissimo. Il suo «no» è stato secco ed immediato. Ha chiesto un’unica grazia: poter scegliere un «muso non troppo brutto» che eseguisse la condanna e di poter comandare egli stesso il «fuoco». Quindi, il biondo eroe si accostò al muro, volse il viso verso l’arma spianata contro di lui, quasi a voler guardare in volto quella morte che uomini del suo medesimo sangue gli davano, si aperse la camicia sul petto e, nel silenzio assoluto di quel tragico momento, la sua voce si alzò limpida, sicura, squillante, come una diana di riscossa, quasi si trattasse di trascinare un plotone all’attacco: “Duce! Decima! Italia! Fuoco!”… Crivellato dal mitra di un venduto, il corpo del fanciullo Bogani cadde al suolo, mentre si ripeteva fra i colli il suo estremo saluto alla Patria amatissima. Leo, noi di Regime Fascista ti abbiamo ben conosciuto e tu resti uno dei nostri. Non è il momento di parole e di commemorazioni! Sappiamo che ti dispiacerebbe Ma ti promettiamo che sarai nel nostro cuore e che penseremo a te, intensamente, se la Patria non avrà voluto anche noi, il giorno magico, ineffabile della nostra vittoria. Ci dispiace soltanto che tu non abbia sentito il bollettino germanico di ieri: “In Italia, 8300 banditi uccisi e 7500 catturati”. Era dedicato a te!».

Cose Nostre S.A.F. Xa.

Voce del Servizio Ausiliario Femminile Decima, il giornaleCose Nostre S.A.F. Xa nasce con l’intento di essere pubblicato senza scadenza fissa e difatti in prima pagina reca scritto «esce quando esce». All’atto pratico, con ogni probabilità, dovrebbe essere l’unico numero uscito (1).

Il numero del 1° dicembre 1944 è composto da otto pagine e in fondo all’ultima colonna si può leggere: «Responsabile Vol. C.R. Fede Pocek / Stabil. Tipografico S.A.M.E. / Via Settala 22 - Milano» (Servizio Ausiliario Femminile Decima, Cose nostre, Comando S.A.F Xa M.A.S., 1 Dicembre, Milano 1944).

Si tratta di Fede Arnaud Pocek (Venezia 1921 – Roma 1997), iscritta al Partito Fascista, già responsabile del settore sportivo dei G.U.P. (Gruppi Universitari Fascisti), aderisce alla R.S.I. ed è arruolata dal Comandante Borghese in qualità di responsabile e guida del Servizio Ausiliario Femminile della Xa Flottiglia M.A.S. Nel sito Internet dell’Associazione Combattenti Xa Flottiglia MAS si legge: «Fede Arnaud era nella Xa Mas quando il 18 febbraio del ’44, a Cuneo, la banda partigiana di “Mauri” cattura il tenente di vascello Betti, il sottotenente di vascello Cencetti, il guardiamarina Federico Falangola e un marò, tutti del “Maestrale” che sta completando l’addestramento per trasferirsi – cambiando il nome in “Barbarigo” – sul fronte di Nettuno. Al comando è Umberto Bardelli che tenta di evitare lo scontro fratricida per liberare i suoi uomini: accetta la proposta di Fede Arnaud che sola, si avvia alla ricerca dei partigiani. Finalmente, in un paesetto di montagna, incontra una prostituta che accetta di accompagnarla in prossimità della loro base a condizione di non riferire la fonte dell'informazione. Localizzati i partigiani si fa catturare e condotta davanti al loro capo, esegue un perfetto saluto romano. L’uomo è Folco Lulli, un toscano sanguigno, buon attore cinematografico, che aveva lavorato con lei, allora giovane aiuto-regista, prima della guerra. Lulli non è comunista, apprezza il coraggio di Fede Arnaud, accetta il confronto delle opinioni e degli ideali e decide di rilasciare i quattro prigionieri perché raggiungano il fronte con i loro compagni» (http://www.associazionedecimaflottigliamas.it/servizio-ausiliario-femminile.html).

Scrive Roberto Roggero: «Proprio sul fronte di battaglia di Nettuno, con l’agguerrito battaglione “Barbarigo” della X MAS di Valerio Borghese, combattono anche le donne del gruppo “SAF Decima”. Un altro reparto femminile SAF combatte anche sulla costa baltica contro i russi, inserito nei battaglioni “Nebbiogeni”» (Roberto Roggero, Oneri e Onori. Le verità militari e politiche della guerra di Liberazione in Italia, Greco & Greco Editori, Milano 2006, p. 555).

Colpisce un articolo, a pag. 3, perché è intitolato difendete la lira!, a firma tos; un brano è decisamente significativo: «Difendere la lira è difendere la fiducia nello Stato, è difendere la produzione nazionale, è difendere e valorizzare il lavoro (…). È auspicabile che presto, abbandonati i sorpassati principii di una moneta-merce fondata sull’oro, si accolga il criterio della stabilizzazione del potere d’acquisto, sulla base del reddito del lavoro. Si parlerà allora di detronizzazione dell’oro e di moneta sociale» (Servizio Ausiliario Femminile Decima, Cose nostre, Comando S.A.F Xa M.A.S., 1 Dicembre, Milano 1944, p. 3).

Il brano rimanda, automaticamente, alla nazionalizzazione della Banca d’Italia, la quale è privata, nell’intento di toglierle il cosiddetto “diritto di signoraggio” statalizzandola.

 

Sulle imprese della Decima Flottiglia MAS si può consultare il sito dell’Associazione:

associazionedecimaflottigliamas.it

 

 

Note

 

1) Nel catalogo dell’ISEC è indicato come «Numero unico» (Marco Borghi, La stampa della RSI 1943-1945, Fondazione ISEC, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano 2006, p. 31).

Scrive Marino Perissinotto: «Nel marzo del 1944 nasceva con tutti i crismi dell’ufficialità il primo reparto militare femminile della storia d’Italia: il Servizio Ausiliario Femminile della Decima Flottiglia MAS, precedendo di pochi giorni la costituzione dell’analoga struttura organizzata dal Partito Fascista Repubblicano. Elitario ed autonomo, il SAF X^ formò con quattro corsi un numero limitato di volontarie. Donne in grigioverde, e donne marinaio, dunque. A costituirlo materialmente, ed a dirigerlo, fu Fede Arnaud, una giovane donna volitiva; ed il suo era un progetto, forse definito solo per linee di massima, che andava oltre alla guerra in corso, oltre al semplice vestire l’uniforme. Per dirla con parole dei nostri giorni, un “progetto donna”. A questo punto, non sorprenderà il lettore scoprire che le allieve della Scuola SAF si formavano attraverso assemblee aperte, che vi s’insegnava a svolgere qualsiasi mansione con pari dignità ed impegno, che si rifiutavano galloni ed onori. Più notevole il fatto che ad inventare questo Servizio Ausiliario furono donne giovanissime, poco più che ventenni; con risultati stimati ottimi anche dal fraterno rivale Servizio del Partito» (Marino Perissinotto, Il servizio ausiliario femminile della Decima Flottiglia MAS 1944-1945, Ermanno Albertelli Editore, Parma 2003, p. 9). Inoltre: «Negli ultimi giorni di guerra le Volontarie aggregate ai reparti del 1° Gruppo di Combattimento, in retroguardia durante la ritirata dal fronte del Senio, condivisero i rischi e le privazioni dei commilitoni maschi, ed anche la sorte di prigioniere delle forze armate alleate, che riconobbero loro lo status di militari» (Ibidem, p. 40).

 

 

N.B.: I bolli a corredo provengono da: Archivio di Stato di Milano; Tribunale Militare per la Marina in Milano (Repubblica Sociale Italiana), Procedimenti archiviati. Autorizzazione alla pubblicazione. Registro: AS-MI. Numero di protocollo: 2976/28.13.11/1. Data protocollazione: 29/05/2018. Segnatura: MiBACT|AS-MI|29/05/2018|0002976-P.

 

 

L'articolo DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XXIV parte) – Gianluca Padovan proviene da EreticaMente.


Neapolis: i miti e le origini – Luigi Angelino

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L' origine di un'antica città, perfino quando ci sono precise testimonianze storiche che ne attestano la fondazione, sono sempre intrise di miti e di leggende affascinanti, che stimolano l'immaginario collettivo e di cui non è possibile stabilirne la veridicità.

Per quanto riguarda i miti che circondano l'origine di Napoli, due fattori hanno giocato un ruolo predominante: la scarsità di reperti archeologici che si riferiscono alla sua fondazione e l'acclamata bellezza dei luoghi. Ciò ha favorito il tramandarsi della leggenda sulla sirena Partenope che, secondo la tradizione, sarebbe sfuggita dalla patria greca ed avrebbe trovato sepoltura nel Golfo di Napoli. Nel XII canto dell'Odissea si narra che Ulisse, nonostante fosse stato avverito dalla maga Circe, volle per forza ascoltare il canto delle sirene, ma prese adeguate precauzioni. Ordinò ai suoi uomini di mettere dei tappi di cera alle orecchie in modo che non ascoltassero, mentre lui si fece legare all'albero della nave, vietando ai suoi uomini di slegarlo, qualsiasi cosa avesse detto. La leggenda narra che le sirene rimasero oltremodo deluse e si suicidarono, in quanto non erano immortali: Leucosia fu cullata dalle onde, fino alla zona a sud di Salerno, dando il nome all'odierna punta Licosa; Ligea trovò la sua ultima dimora nel golfo di Santa Eufemia in Calabria, mentre Partenope fu trasportata dalle correnti marine sugli scogli di Megaride, dove ora si trova il Castel dell'Ovo.

Ma cerchiamo di fare chiarezza su questo passato misterioso di una delle città più famose del mondo. Nell'area napoletana sono state rinvenute molteplici tracce che attestano il culto nei confronti della sirena Partenope, la cui effigie risulta presente su antiche monete d'argento. Gli storici antichi che si sono interessati delle origini della città, tra cui emerge Strabone, pur cercando di conciliare mitologia e realtà, sono concordi sulla derivazione greca della città e precisamente identificano i suoi fondatori come provenienti dall'isola di Rodi. Secondo le teorie più accreditate, alcuni coloni greci verso il IX sec. a.C., giunsero sulle spiagge del litorale e fondarono un porto sull'isolotto di Megaride, sul quale oggi sorge il Castel dell'Ovo, e popolarono un piccolo abitato sull'attuale collina di Pizzofalcone, in collegamento con il porto sottostante mediante impervi sentieri ricavati nella roccia. Successivamente, quando tra il VII e il VI sec. a.C., Cuma estese il proprio dominio su tutto il golfo, la colonia fu completamente modificata, pur partendo dal sito iniziale. A tal proposito gli storici parlano di rifondazione media o rifondazione cumana. Probabilmente la rifondazione avvenne, a seguito dell'instaurazione della Tirannide di Aristodemo, alla fine del VI sec. a.C. e all'espulsione forzata di alcuni oligarchi da Cuma che vollero fondare una città uguale alla madrepatria. Neapolis, pertanto, rappresentò l'unico caso del mondo greco, in cui una città fu fondata nello stesso territorio della madrepatria, appunto la “metropolis” Cuma.

La città si estendeva nella zona che è attuamente compresa tra le attuali chiese di Sant'Aniello a Costantinopoli (Piazza Cavour), dei SS. Apostoli (San Lorenzo) e di Santa Maria Egiziaca (Forcella). In realtà la “nuova città” non inglobò subito il precedente insediamento urbano, ma sorse a circa 2 km di distanza da esso, per motivi di carattere logistico e per favorire le relazioni economiche e commerciali.

Nel contesto geopolitico della Campania preromana, le condizioni morfologiche del luogo, che comprendevano un promontorio circondato dal mare e separato da un pronunciato vallone dal territorio sottostante, rappresentavano un'ottima difesa contro gli attacchi che venivano dal mare e dall'entroterra, soprattutto da parte degli Etruschi, che in quel periodo erano i principali rivali dei coloni greci e che questi ultimi denominavano “Tirrenoi” (da cui deriva appunto l'appellativo di “mar Tirreno”). L' autonomia della colonia cumana fu molto spesso minacciata dalle continue lotte che le varie etnie ingaggiavano per ottenere la supremazia delle coste. Neapolis, comunque, si assicurò un rapporto privilegiato con l'Atene di Pericle, conqustando un ruolo egemone non solo nell'area osco-campana, ma nell'intero bacino internazionale del Mediterraneo. Lo storico Strabone attesta a Napoli una marcata influenza ateniese, riferendo dell'arrivo del celebre ammiraglio Diotimo, che raggiunse la città con la sua considerevole flotta, allo scopo di popolarla di coloni attici, calcidesi di Eubea e pithecusani, potenziandone il corpo civico e militare. Neapolis, inoltre, cementò i rapporti con Elea (l'attuale Ascea, in provincia di Salerno), sede della più importante scuola filosofica del tempo, patria di Parmenide e di Zenone, i primi teorici della metafisica dell' “essere”.

Altre interpretazioni storiche affermano che una svolta decisiva si ebbe quando nel 474 a.C., Gerone, tiranno di Siracusa, sconfisse gli Etruschi, inaugurando un periodo di stabilità e di pace ai coloni greci dell'intera Italia meridionale. Ciò fu la premessa per la fondazione di una nuova città: i coloni abbandonarono il vecchio insediamento sul colle, che non permetteva ulteriori accrescimenti, e fondarono “Napoli” su un altopiano non molto distante dal precedente luogo, corrispondente più o meno alla zona delle attuali cliniche universitarie. Allora questa zona si affacciava su una vasta spiaggia, elemento importantissimo per gli abitanti dell'antica Napoli, la cui attività principale consisteva nel commercio. Il nome “Neapolis” le fu attribuito per distinguerla appunto dalla vecchia “Palepolis”. La “Nuova città” si sviluppò molto di più dell'antico insediamento, anche grazie ai rapporti che i suoi abitanti riuscirono a stabilire con le altre città del Mediterraneo, facendo si che divenisse in breve tempo un fiorente centro di scambi. Le felici condizioni del sito ed un continuo aumento dei suoi abitanti la resero in breve tempo il centro più importante della costa campana, attirando nuovi cittadini anche dall'entroterra.

Successivamente, la bellezza dei luoghi, il clima mite e la facilità dei collegamenti, furono tutti elementi che attirarono l'interesse dei Romani, che, non a caso, denominarono l'area geografica “Campania felix”. Nel corso della seconda guerra sannitica, nella seconda metà del IV sec. a.C., Napoli strinse alleanza con i Sanniti e i Tarantini contro Roma, che aveva però già conquistato Capua. Nel 326 a.C., la città fu assediata dall'esercito romano guidato dal console Publilio Filone, e i Neapolitani si arresero dopo un lungo assedio, ma anche grazie ad uno stratagemma, che permise ai cittadini di etnia greca, più propensi ad un accordo con i Romani, di allontanare preventivamente gli alleati Sanniti, più ostili all'invasore. Roma lasciò alla Napoli conquistata un ampio margine di autonomie, consentendole di conservare costumi e lingua di origine greca, stringendo il cosiddetto “foedus Neapolitanum”. Quando nel 211 a.C., l'importante città di Capua fu punita dai Romani, per la sua alleanza con Annibale di Cartagine, il ruolo di egemonia di Napoli nell'area campana si consolidò ancora di più. Verso la metà del I sec. a.C., a Napoli cominciarono a formarsi notevoli corporazioni ed importanti scuole culturali, come quella del filosofo epicureo Sirone, dove studiarono anche Virgilio ed Orazio. Quando nel 49 a.C. scoppiò il sanguinoso conflitto tra Cesare e Pompeo, la città si schierò dalla parte del perdente e ne ebbe ripercussioni negative. Ma la nemesi storica fece si che, proprio da Neapolis, partisse la congiura per uccidere Cesare (vi sono testimonianze storiche che attestano che Cassio sia partito dal litorale napoletano, per compiere il famosissimo omicidio).

Nei primi due secoli dell'impero, i Romani vi fondarono le proprie residenze estive, che erano denominate “villae otii”: personaggi come Pollio Felice, Vedio Pollione e lo stesso Virgilio vi costruirono ville sontuose, contribuendo alla trasformazione degli usi e dei costumi degli abitanti di Neapolis. A Virgilio si deve l'attribuzione dell'appellativo “Pauseleipon” (dal greco, luogo che dà tregua al dolore) alla zona nord del golfo di Napoli, dove attualmente sorge appunto il quartiere di Posillipo, uno dei più panoramici e pittoreschi della metropoli. In epoca romana, quindi, la città assunse una dimensione considerevole, divenendo un importante centro culturale ed intellettuale, nonché luogo di residenza per aristocratici, a differenza della vocazione commerciale che aveva caratterizzato il precedente periodo greco. Napoli, in qualità di città “più greca dell'occidente”, fu scelta dall'imperatore Cesare Ottaviano Augusto, come “custode della cultura ellenica”, designandola come sede dei giochi isolimpici, sul modello dell'Olimpia greca. In tale contesto, la cancelleria imperiale favorì importanti ristrutturazioni ed innovazioni dell'area urbana, soprattutto con la costruzione di nuovi impianti sportivi. A seguito della tragica eruzione del 79 d.C., che distrusse le importanti città di Pompei, Ercolano, Stabia ed Oplonti, verso Napoli confluì un gran numero di profughi provenienti dalle zone colpite dal cataclisma.

Con l'avvento del Cristianesimo, arrivarono a Napoli numerose comunità dalle grandi metropoli del medio oriente, come Alessandria d'Egitto, Antiochia ed Efeso. Il primo vescovo napoletano fu Aspreno, secondo la leggenda ordinato dallo stesso San Pietro e poi canonizzato come santo. Successivamente, per la mancanza di “martiri” acclarati napoletani, si sceglierà come patrono della città, San Gennaro, vescovo di Benevento, decapitato nella vicina Puteoli (Pozzuoli) nel 305 d.C.. E' giusto ricordare che anche nella città campana numerose sono state le leggende formatesi intorno alla figura di Costantino, soprattutto in relazione alla fondazione di alcune chiese, come quella di San Giovanni Maggiore e di San Gregorio Armeno. In realtà si tratta solo di credenze popolari, in quanto Costantino non fu mai realmente cristiano, tollerando la religione cristiana soltanto per motivi di opportunità politica.

Nel periodo del crollo dell'impero romano d'occidente, il destino di Napoli è legato a quello di Roma: le popolazioni barbariche, che continuamente invadevano le fertili campagne meridionali, costringevano gli abitanti ad una costante politica di difesa. Nel 459 Napoli fu violentemente attaccata, ma non espugnata dai Vandali di Genserico, grazie anche alle nuovi fortificazioni sollecitate da Valentiniano III. Una terribile sciagura si abbattè nell'area campana nel 472, quando un'enorme eruzione del Vesuvio emise una tale quantità di cenere da destare preoccupazione in tutta l'Europa e perfino a Costantinopoli. Ed è emblematico che l'atto finale dell'impero romano d'occidente si sia consumato proprio a Napoli: nel 476, l'ultimo imperatore, Romolo Augstolo, fu deposto e poi fatto imprigionare da Odoacre, proprio presso castel dell'Ovo, in quel tempo villa romana fortificata. La deposizione del giovane Romolo Augustolo da parte del generale barbaro Odoacre segna, per convenzione, la fine dell'epoca antica e l'inizio del Medio-evo. Si tratta, in realtà, di una mera convenzione, in quanto già le strutture proprie dell'impero romano erano state sostituite da alcune istituzioni cristiane, come le diocesi, che in realtà supplivano al vuoto politico della decadente società del tempo. Lo stesso vescovo di Roma, assunto a “primate” della Chiesa d'Occidente, sarà definito da molti storici come “il fantasma dell'imperatore romano”. E vi è un'altra importante considerazione da aggiungere: formalmente l'Impero Romano d'occidente non è mai caduto. Nessun riconoscimento ufficiale Odoacre ricevette dall'imperatore romano d'oriente, e, successivemente, alcuni sovrani barbari governeranno in nome di quest'ultimo. Si dovrà arrivare all'800, con l'incoronazione di Carlo Magno, a capo del “Sacro Romano Impero”, per avere una parziale quanto effimera riunificazione dell'Europa occidentale. Come dirà Voltaire nel XVIII secolo, riferendosi alle conquiste di Carlo Magno, “non era né un impero, né romano, e per niente sacro”.

La città di Napoli, nei successivi circa sei secoli di dominio bizantino, conoscendo un fenomeno molto diffuso nel primo periodo dell'era cristiana, caratterizzato da generalizzata decadenza e da continue crisi economiche, subì un progressivo ridimensionamento, in quanto molti luoghi poco sicuri militarmente furono abbandonati dalla popolazione che si rifugiò all'interno delle mura, con conseguente degrado del territorio circostante.

Bibliografia di riferimento:

 - ALAIMO Giovanni, Origine di Partenope, vol.VIII, Napoli 2011, Edizioni del Delfino;
- CAPASSO Bartolommeo, Napoli greco-romana, ristampa dell'antica edizione del 1905, Napoli 1987, Edizione Berisio.
- DI MAURO Leonardo, VITOLO Gianni, Breve storia di Napoli, Napoli 2006, Edizione Pacini.
- HEATHER Peter, La caduta dell'impero romano, tradotto da S. Cherchi, Milano 2006, Ed. Garzanti.
- GHIRELLI Antonio, Storia di Napoli, Torino 2016, Einaudi editore.
- OMERO, Odissea, tradotta da Ettore ROMAGNOLI, Ravenna 2010, Edizioni ITACA;
- WILSON Peter H., Il Sacro Romano Impero, London 2006, Edizioni Penguin.

 

Luigi Angelino

L'articolo Neapolis: i miti e le origini – Luigi Angelino proviene da EreticaMente.

DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XXV parte) – Gianluca Padovan

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«Fascio eletto di spiriti eroici la Xa Flottiglia M.A.S. è rimasta fedele al suo motto: PER L’ONORE E LA BANDIERA»

X M.A.S., manifesto (50 x 82 cm verticale)

 

 

 

Grida di riscossa.

In questo contributo si conclude quanto cominciato nella XXII, XXIII e XXIV parte, ovvero la trattazione inerente i mezzi d’informazione della Xa Flottiglia M.A.S.

La propaganda, arma necessaria alla difesa del Paese, è stata ben gestita dall’apposito Ufficio della Decima. Come s’è già detto, la propaganda era indispensabile per fare affluire sempre nuovi volontari nei reparti, chiedere fondi ai cittadini per le armi e spiegare che cosa realmente stesse succedendo in Italia.

Quasi sempre riuscendoci, la propaganda della Decima cercherà in ogni modo di sottrarsi tanto alla censura della R.S.I. quanto a quella dell’alleato germanico da cui direttamente dipendeva.

 

 

Reggimento “S. Marco„.

Opuscolo non datato, con la copertina rossa (17 x 24 cm), dove nella prima campeggia la classica colonna rostrata romana di repubblicana memoria (Xa, Reggimento “S. Marco„, Stabilimento Industriale Tipografico, La Spezia s.d.).

Internamente ha 12 pagine ed è composto dei soli testi di undici canzoni. Due sono dedicate ai massoni Mameli e Garibaldi. Per quanto possa apparire “strano”, ancora oggi vi sono dei pigri benpensanti che negano l’evidenza dei fatti, cioè che i moti rivoluzionari ottocenteschi vennero diretti da massoni e tra le figure di spicco abbiamo proprio l’abigeo Garibaldi e il filoinglese Mazzini (1).

 

-Inno alla XA Flottiglia MAS,

-Inno di Mameli,

-Inno di Garibaldi,

-Inno Reggimento S. Marco (vecchio),

-Inno a S. Marco (nuovo),

-Giovinezza,

-All’armi siam fascisti,

-Giovani fascisti,

-Battaglioni “M”,

-La canzone dei sommergibili,

-Inno a Roma.

Inno alla XA Flottiglia MAS

Quando pareva vinta Roma antica

sorse l’invitta X.a Legione

vinse sul campo il barbaro nemico

Roma riebbe pace e onore.

 

Quando l’ignobil 8 di Settembre

abbandonò la Patria al traditore

sorse dal mar la Decima Flottiglia

e prese le armi al grido: «per l’onore».

 

Decima Flottiglia nostra

che beffasti l’Inghilterra

vittoriosa ad Alessandria

Malta, Suda e Gibilterra.

vittoriosa già sul mare

ora pure sulla terra

vincerai!

 

Navi d’Italia che ci foste tolte

non in battaglia ma col tradimento

nostri fratelli prigionieri o morti

noi vi facciamo questo giuramento:

 

Noi vi giuriamo che ritorneremo

Là dove Iddio volle il tricolore

Noi vi giuriamo che combatteremo

fin quando avremo pace con onore.

 

Decima Flottiglia nostra

che beffasti l’Inghilterra

vittoriosa ad Alessandria

Malta, Suda e Gibilterra.

vittoriosa già sul mare

ora pure sulla terra

vincerai!

 

 

Le nostre canzoni.

Opuscolo non datato di 32 pagine, composto di solo testo (12 x 16,8 cm). Il disegno in prima di copertina è firmato «D. Fontana». Contiene i testi di ventinove canzoni, tra cui figura anche Inno alla Xa Mas; l’ultima è La sagra di Giarabub (Xa Flottiglia MAS, Le nostre canzoni, s.d.).

Giarabùb (Al-Giaghbūd) è un’oasi della Libia nord orientale e uno dei suoi capisaldi principali è la Ridotta Marcucci. Nel giugno del 1940 il presidio composto da soldati italiani e libici comandati dal Maggiore (poi Tenete Colonnello) Salvatore Castagna è attaccato e assediato da truppe angloaustraliane. Il Comandante è ferito e preso prigioniero il giorno 21 marzo 1941 «e, subito dopo la cattura, è interrogato da un Generale australiano il quale, attraverso l’interprete, gli esprime tutta la sua ammirazione per la strenua resistenza opposta dal presidio. Dato che gli altri capisaldi resistono ancora, manifesta il desiderio di trattare la resa ma l’italiano risponde di aver giurato di resistere fino all’ultimo uomo e quindi non può accettare l’offerta» (Raffaele Girlando, Giarabùb immagini e commenti storici, Italia Editrice New, Foggia 2008, p. 15). Gli ultimi capisaldi combattono per tre giorni ancora e «gli ultimi scontri all’arma bianca sono animati dal Capitano Della Valle, dal Capitano Ercolini e dal Tenente Catania; questi ultimi due Ufficiali ammainano il tricolore e lo fanno a pezzi così da metterlo più facilmente in salvo. Giarabùb si arrende, infine, il 24 marzo 1941» (Ivi).

Si tenga sempre ben presente che il Soldato Italiano è stato tradito dai così detti “ufficiali superiori” o meglio da uno “stato maggiore” sempre ben distante dal fronte e spesso mai distante da Roma, corrotto e legato a filo doppio alla massoneria inglese e americana. Nonostante tutto il Soldato Italiano si è battuto con valore e con onore in ogni situazione. Anche e soprattutto quando gli era rimasto da difendere il solo Onore di Soldato e di Cittadino Italiano.

Salvatore Castagna così si esprime a proposito della correttezza delle informazioni: «Per la parte che mi riguarda direttamente, cioè la difesa di Giarabub, alcuni scrittori hanno cavallerescamente ammesso che, nell’ultimo periodo d’assedio (12 dicembre 1940 – 21 marzo 1941) reparti australiani effettuavano violenti infruttuosi attacchi intesi a sopraffare la resistenza dell’oasi. Altri, invece, fanno un breve cenno alle operazioni svolte in quel settore, asserendo che le forze australiane si limitarono a costituire un cerchio attorno alla guarnigione» (Salvatore Castagna, La difesa di Giarabub, Longanesi & C., Milano 1967, p. 13). Inoltre, proseguendo nella descrizione delle operazioni, conclude: «Con questo ho voluto dimostrare l’inesattezza di alcune asserzioni nemiche, secondo le quali gli italiani non riuscirono mai ad agire in quel settore. Quel che per i neozelandesi rappresentava un fatto sbalorditivo, per gli italiani era una normale missione» (Ibidem, p. 17).

 

 

Xa Inno del San Marco.

Opuscolo contenente lo spartito musicale di un’unica canzone, l’Inno del San Marco per l’appunto; ha 8 pagine (22,5 x 27,5 cm) (Decima Flottiglia M.A.S., Inno del San Marco, s.d.). A corredo si presenta il dettaglio d’una foto datata 11 luglio 1944 dove vi sono le truppe della Divisione San Marco a Grafenwöhr (Germania) (tratta da: Giorgio Pisanò, Gli ultimi in grigioverde, Vol. Secondo, Edizioni FPE, Milano 1967, p. 661).

 

Barbarigo Xa Flottiglia MAS.

Il sottotitolo recita: «Giornale di guerra de Barbarigo - Fronte di Nettuno». Il primo numero esce il 1° aprile 1944 ed è composto da due fogli (quattro facciate 22 x 32,5 cm). Nella prima pagina un unico articolo così comincia: «i primi / Sulle linee della I Compagnia è rimasta una croce su un mucchio di terra rossa italiana. Sono i due morti che non si sono potuti portare indietro, quelli presi da una granata nella buca e che sono rimasti sulla linea a fare buona guardia» (Battaglione Barbarigo, Barbarigo Xa Flottiglia MAS, s.d., p. 1).

 

Franchigia NP.

Giornale del Gruppo Nuotatori Paracadutisti della Xa Flottiglia M.A.S. Il primo e unico numero esce il 30 agosto 1944 ed è composto da due fogli (quattro facciate, 22 x 32,5 cm). In ogni caso la dicitura sotto il titolo ci tiene a specificare: «esce quando esce» e in alto a destra: «Numero unico per uso interno». L’articolo Ennepì millenovecentoquarantaquattro così comincia: «Fuori di retorica: qui si rifà la spina dorsale della Nazione; e se il compito si stima troppo arduo, per le nostre capacità, vi rispondo: abbiamo le spalle larghe e non rigettiamo una, nemmeno una, delle responsabilità che ci vengono da tale impegno» (Gruppo Nuotatori Paracadutisti, Franchigia NP, Numero unico, 30 Agosto, 1944, p. 1).

Al centro e in fondo, sempre alla prima pagina, si legge la trascrizione di un telegramma: «Da ufficio stampa decima a redazione “franchigia„ P. da C. 767 / concediamo nulla osta pubblicazione “franchigia„ sicuri che codeste colonne fedelmente rispecchieranno vita goliardica et carattere virile et coraggio provato degli np. Alt. / pasca piredda responsabile».

E questa è la sottoriportata risposta: «Da redazione “Franchigia„ a Ufficio Stampa Xa / Lieti nulla osta concesso, prova Vs / superiore comprensione, sentitamente ringraziamo promettendo abituale noncuranza Vs direttive, Alt / La Redazione» (Ivi).

Nel catalogo dell’ISEC è indicato come «Numero unico per uso interno» (Marco Borghi, La stampa della RSI 1943-1945, Fondazione ISEC, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano 2006 p. 38).

 

 

Cucaracia.

“Foglio” dei Marò della II Compagnia del Battaglione Sagittario, Xa Flottiglia M.A.S., costituito nel 1944. Si tratta del primo numero, ciclostilato, così specificato: «esce come e quando ci pare // N° 1 P;d.C. 845 – 10/12/44 XXIII° // redazione chi lo sa dove»; è composto da un foglio (due facciate) (II Compagnia Battaglione Sagittario, Cucaracia, Xa Flottiglia M.A.S., N. 1, 10 Dicembre, 1944, p. 1).

Il Sagittario, originato dalla compagnia Mai Morti di Trieste, è inquadrato nella Divisione Xa e successivamente viene trasferito a Solcano per essere impiegato contro il IX Corpus jugoslavo.

 

 

Il Risoluto

Il Battaglione Costiero Risoluti, costituito a Genova nel 1944 come Reparto Autonomo, aveva il compito della difesa costiera in Liguria. Pubblicava un proprio “foglio d’arma”: «Quindicinale del gruppo “Risoluti”. Foglio interno dei “Risoluti” della X flottiglia Mas. Tener duro e Picchiar sodo. Genova, Tipografia SA Ed. “Il Lavoro”, 1944-1945. Direttore Giorgio Melloni. Quindicinale» (Marco Borghi, La stampa della RSI 1943-1945, op. cit., p. 56). La citata pubblicazione dà come luogo di conservazione la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.

 

 

Quelli della Xa Flottiglia MAS

Giornale della Xa Flottiglia M.A.S. di stanza a Fiume. Il primo numero esce nel gennaio 1945 ed è composto da due fogli (quattro facciate, 22 x 32,5 cm). Il sottotitolo recita: «dove non basta il numero basterà l’impeto». Nella prima pagina c’è la Presentazione: «Finalmente!!! Però è stata una cosa terribile, venire alla luce. Non avete un’idea di quello che fu fatto perché non nascessi. Ma in barba a tutti gli strilli e gli spintoni, eccomi qua! Certo, non sono gran cosa. Sono un giornaletto un po’ racchio e patito, ma sfido io, con quel parto laborioso! Il guaio è che temo di rimanere figlio unico! Pazienza! Purché almeno io l’abbia spuntata. In ogni modo son felice d’aver visto la luce, per la soddisfazione di coloro che m’hanno concepito, e che nelle mie pagine hanno espresso sentimenti e punti di vista, non per la vanità di sentirsi scrittori ma per far conoscere il loro modo di vivere e di pensare, infondendo, se è possibile, il loro coraggio ai pavidi, la loro fede agli increduli» (Xa Flottiglia MAS, Quelli della Xa Flottiglia MAS, N. 1, Gennaio, Fiume 1940, p. 1).

 

Agendina del Marò.

Un discorso a parte lo merita questa particolare agenda creata appositamente per i Marò della Xa Flottiglia M.A.S. In prima pagina c’è scritto: «Xa / 1945 agenda per il marò de la decima flottiglia mas» (Xa 1945 Agenda per il Marò de la Decima Flottiglia MAS, 1945, p. 1). Con ogni probabilità è stato stampato alla fine del 1944.

Segue il calendario dell’anno 1945 su due pagine.

L’agenda contiene alcune parti di testo che servono anche e soprattutto come “prontuario informativo” per chiarire al soldato nazionale innanzitutto che cosa sia lo Stato per il quale combatte. Compaiono domande e consone risposte, come ad esempio «Cos’è lo Stato?», seguita da «Che cos’è la repubblica? La repubblica è quella forma statale in base alla quale il governo dello Stato è retto dal popolo, direttamente e per mezzo dei suoi rappresentanti».

Altre sono, ad esempio, le seguenti: «Perché è nata la Repubblica Italiana?», «Perché alla repubblica italiana è stato attribuito l’appellativo di sociale?», «Che cos’è la X Flottiglia Mas?», «Chi è il Comandante della Xa Flottiglia Mas?».

Successivamente si hanno informazioni a carattere storico per chiarire chi siano le persone alle quali si sono intitolate alcune Unità, oppure perché talune portino il nome che le identifica. Abbiamo, ad esempio: «colleoni / Bartolomeo Colleoni fu uno dei più insigni condottieri italiani. Egli militò successivamente sotto Braccio da Montone, Muzio Attendolo Sforza, il Gattamelata ed infine Francesco Sforza. Si distinse in maniera particolare nella terza fase della guerra tra Venezia e Milano. Nato nel 1400 la morte lo raggiunse nel 1467, quando divenuto ormai celebre in tutta l’Europa, era da vari anni capo delle forze della Repubblica di Venezia. Colleoni fu anche il nome di un incrociatore della nostra Marina appartenente alla classe “condottieri”. // Attualmente reca questo nome un gruppo d’artiglieria della decima Flottiglia Mas che prese parte con il Battaglione Barbarigo alla difesa di Roma» (Ibidem, pp. 51-52).

«lupo / È il nome di una torpediniera che nelle acque di Candia affrontò una formazione di 3 incrociatori nemici, riuscendo a portarsi a brevissima distanza e ad affondare col siluro una di queste. / Attualmente sta a designare il Battaglione secondogenito della Decima Flottiglia Mas. [etc.]» (Ibidem, p. 53).

«castagnacci / Al nome di questo eroico marinaio imolatosi nel corso dell’attuale conflitto, s’intitola un Battaglione della Decima, formato di equipaggi di M.A.S.» (Ibidem, p. 57).

Le pagine sono “allietate” da vignette umoristiche a colori.

 

 

Note

 

1) Libri sull’argomento ve ne sono parecchi. Uno per tutti, da prendere comunque con le dovute cautele: Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, BUR, Milano 2011.

N.B.: I bolli a corredo provengono da: Archivio di Stato di Milano; Tribunale Militare per la Marina in Milano (Repubblica Sociale Italiana), Procedimenti archiviati. Autorizzazione alla pubblicazione. Registro: AS-MI. Numero di protocollo: 2976/28.13.11/1. Data protocollazione: 29/05/2018. Segnatura: MiBACT|AS-MI|29/05/2018|0002976-P.

 

L'articolo DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XXV parte) – Gianluca Padovan proviene da EreticaMente.

DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XXVI parte) – Gianluca Padovan

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«… la sera dell’8 settembre, trovandomi al comando della Flottiglia a La Spezia, apersi la radio per captare il bollettino di guerra; come un fulmine a ciel sereno la notizia dell’avvenuto armistizio piombò sui nostri progetti, sulle nostre attività, sulle nostre speranze…»

Junio Valerio Borghese, Decima Flottiglia MAS, 1950

 

 

 

Tutt’oggi “suona” strano.

Avendo parlato della propaganda portata avanti dalla Decima M.A.S. si può tornare ai fatti del 1943: repetita iuvant! (1).

Dopo non essere entrati nel conflitto al fianco della Germania nel 1939, ma l’anno successivo e dichiarando guerra a una Francia già sconfitta, si capisce che le vicende non solo belliche presentano lati che la “storia ufficiale” s’è sempre guardata bene dall’affrontare.

Una sera Badoglio annuncia alla radio la firma dell’armistizio avvenuta già alcuni giorni prima a Cassibile. Ma ai soldati al fronte e in patria non viene dato alcuno specifico ordine. Solo la Regia Marina, e non tutta, riceve l’ordine di consegnarsi al nemico o di autoaffondarsi.

Il Comandante Junio Valerio Borghese conclude così il libro Decima Flottiglia MAS. Dalle origini all’armistizio, scritto quasi settant’anni fa da quei fatti: «Mi sembrò strano».

 

Antony Eden.

Cominciamo a ricordare chi fosse Antony Eden (Durhan 1879 – Salisbury 1977). Esponente di spicco del Partito Conservatore inglese, presso la Società delle Nazioni nel 1935 sostiene la necessità di sanzionare il Regno d’Italia a causa della guerra condotta contro l’Etiopia. Inoltre: «pervenne nel medesimo anno (dicembre) alla direzione del Foreign Office nel gabinetto Baldwin. Fautore di una politica di fermezza verso le dittature nazista e fascista, si dimise nel febbraio del 1938, rifiutando di appoggiare Neville Chamberlain nella sua politica di distensione e di negoziati diretti con l’Italia e la Germania. Segretario di Stato per i Dominions nel 1939, riprese la direzione del Foreign Office dalla fine del 1940 al luglio del 1945, assumendo inoltre, dal 1942, la presidenza dei comuni. Divenuto il maggior collaboratore di Churchill, viene considerato suo probabile successore alla testa del partito conservatore» (Rizzoli Larousse, Enciclopedia, Vol. 7, Bologna 2003, p. 345).

 

 

Le indagini di Elena Aga Rossi.

Parlando di Sir Robert Antony Eden, dei contatti diplomatici e dei sondaggi che si stavano conducendo per capire in quale modo ottenere l’uscita dell’Italia dal conflitto mondiale, Elena Aga Rossi scrive: «I “sondaggi” di cui sopra erano venuti da·numerosi italiani fuori d’Italia e presentati in promemoria al primo ministro da Eden (14): I) il ministro e il primo segretario della legazione italiana a Lisbona[1] si erano serviti di un intermediario romeno per esprimere all’ambasciata inglese e all’ambasciata polacca a Lisbona il loro interesse per una pace separata. II) Si era detto che il generale Birolli[2], governatore italiano del Montenegro, fosse favorevole a una pace separata. Questa informazione, che era vaga, proveniva dal generale Mihailovic[3], che era in contatto con il generale Birolli, e non era sicuro se la pace cui si faceva riferimento sarebbe stata tra l’Italia e gli Alleati o un’intesa esclusivamente locale tra l’Italia e il generale Mihailovic. III) Il console generale italiano a Ginevra[4] era ansioso di stabilire un canale di comunicazione da usare in caso di emergenza tra il governo inglese e una persona non nominata dell’entourage del principe ereditario (con tutta probabilità il principe Umberto stesso)» (Elena Aga Rossi, L’inganno reciproco. L’armistizio tra l’Italia e gli angloamericani del settembre 1943, Pubblicazioni degli Archivi di Stato – Fonti XVI, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali – Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, Roma 1993, pp.105-106).

 

Note alla trascrizione:

[1] Il ministro era Francesco Fransoni, che mantenne la carica fino al maggio 1943 quando fu sostituito da Prunas; il primo segretario era Renato Giardini, che mantenne tale carica fino al giugno 1943, quando fu sostituito da Francesco Silj.

[2] Il nome corretto è Pirzio Biroli.

[3] Il leader serbo Draza Mihailovic, nazionalista e filomonarchico, fu a capo di bande di partigiani cetnici; inizialmente appoggiato dagli inglesi venne da questi sconfessato nell’autunno 1943 in seguito alla loro decisione di sostenere i partigiani comunisti di Tito.

[4] Si tratta di Luigi Cortese.

Riferimento ai documenti:

14) Minuta di Eden al primo ministro del 2 dicembre 1942; PM/42/292 in CP 242.

 

 

12 dicembre 1942 e il duca di Spoleto.

Più avanti Elena Aga Rossi scrive: «Dieci giorni dopo (il 12 dicembre [1942. N.d.A.]) Eden era in grado di dare maggiori ragguagli circa l’approccio ginevrino (16):», poi riportando il testo del documento di Sir Robert Antony Eden:

«“Vengo ora a conoscenza che la “persona non nominata” è il duca di Aosta (cioè il duca di Spoleto fratello del defunto duca di Aosta[1]) che si dice sia disposto a guidare una rivolta armata contro Mussolini e il regime. Si dice che è fiducioso di poter contare sull’appoggio della marina italiana e di alcuni elementi dei bersaglieri, anche se non può fare assegnamento sull’esercito. Le forze aeree italiane, inoltre, sono completamente fasciste. Le garanzie chieste da (? a)[2] noi sarebbero:

  1. a) L’appoggio della RAF per affrontare le forze aeree italiane e tedesche.
  2. b) Uno sbarco concordato da parte di truppe britanniche e americane, coll’intesa che esse sbarcherebbero come alleati per collaborare al rovesciamento del regime e non come truppe di conquista e occupazione dell’Italia.
  3. c) Non deve essere fatta alcuna richiesta di consegnare la flotta italiana.
  4. d) Mantenimento della monarchia in Italia.
  5. e) Si devono dare garanzie secondo questi termini a nome di tutti i paesi alleati.

Sembra che il duca intenda organizzare e guidare la rivolta sotto la propria responsabilità con l’obiettivo di restaurare casa Savoia secondo linee costituzionali, con il principe di Piemonte sul trono. È mia opinione che questo approccio è probabilmente genuino. Ma la proposta non mi ha fatto grande impressione. È chiaro, per esempio, che noi troveremo una forza aerea ostile, nessun appoggio da parte dell’esercito tranne i bersaglieri (cioè al massimo circa 27.000 uomini), e forse nessuna collaborazione attiva da parte della marina. Il punto (b) per di più prescrive uno “sbarco concordato” che nell’ipotesi migliore presenta complessi problemi di coordinamento e di concomitanza e nella peggiore non può essere altro che un tranello. E la condizione secondo la quale tutti i governi alleati dovrebbero unirsi nella desiderata garanzia renderebbe quasi impossibile mantenere il segreto riguardo all’operazione. Ciononostante i vantaggi che si ricaverebbero dal poter contribuire a un crollo italiano sono molto grandi ed io ho dato istruzioni di mantenere aperto questo canale di comunicazione. Il duca di Aosta ha cominciato a discutere il suo piano con il principe di Piemonte e ad informare il nostro intermediario dei risultati. Non vi possono essere danni dall’ascoltare il risultato di questa discussione e per il momento non intraprendo alcuna ulteriore azione”. Il primo ministro [Winston Churchill. N.d.A.] annotò al margine “concordo” (17)» (Ibidem, p. 107).

 

Note alla trascrizione:

[1] Aimone, duca di Spoleto, era un ufficiale di marina, designato nel maggio 1941 re di Croazia; divenne duca d’Aosta nel novembre 1942 alla morte del fratello Amedeo. Questi era stato comandante delle truppe italiane in Etiopia dove venne fatto prigioniero dagli inglesi.

[2] Così nel testo; come anche in altri punti del documento, si tratta probabilmente di un suggerimento di alternative per l’eventuale pubblicazione del testo.

Riferimento ai documenti:

16) Minuta di Eden al primo ministro del 12 dicembre 1942, PM/ 42/303 in CP 242.

17) Nota manoscritta di Churchill in PM/42/303 come sopra.

 

 

L’accoppiata Badoglio – Pesenti.

Inoltre, sempre l’Autrice, scrive: «Ma questo non fu l’unico approccio fatto via Svizzera. Né il più importante. Anche il SOE, sembra di propria iniziativa, prese contatto con (? fu avvicinato da) un industriale italiano di nome Rusca[1] che era personalmente in relazione con il maresciallo Badoglio (18). L’8 gennaio 1943, sir Charles Hambro[2], scrisse al generale Ismay[3] accludendo il rapporto che viene riprodotto integralmente (19).

“Partiti antifascisti italiani

  1. Sin dal maggio 1942 il nostro rappresentante SOE a Berna è stato in contatto con i marescialli Badoglio e Caviglia in Italia. Il contatto è mantenuto attraverso un intermediario nel quale il rappresentante SOE a Berna ripone piena fiducia e col quale egli ha collaborato in altre occasioni per un lungo periodo. Egli è anche un amico del maresciallo Badoglio e i suoi genitori antifascisti non sono mai stati messi in dubbio.
  2. Egli riferisce che Badoglio è ora fermamente convinto che l’Asse non può vincere la guerra; egli non è più fedele alla Casa reale e vuole, al momento giusto, prendere il potere e costituire un governo militare. Badoglio e Caviglia hanno, insieme, un seguito potente e influente di elementi antifascisti in Italia e desiderano inviare un emissario nella persona del generale Pesenti[4] per discutere con il governo britannico un’azione coordinata dall’esterno e all’interno dell’Italia mirante al rovesciamento del regime fascista.
  3. La più recente informazione indica che un aeroplano con pilota è pronto a partire dall’Italia per portare il generale Pesenti in Cirenaica.
  4. Il maresciallo Badoglio ha chiesto per garanzia che si aiuti il generale Pesenti a reclutare un esercito tra gli italiani residenti all’estero e, se possibile, tra prigionieri di guerra ribelli.
  5. All’interno dell’Italia il maresciallo Badoglio è fiducioso di potere, al momento opportuno, essere a capo di vasti settori del popolo italiano, convinti che la Gran Bretagna vincerà la guerra e che solo collaborando veramente al rovesciamento del regime fascista sia possibile accarezzare una minima speranza di occupare un posto al tavolo della pace e di essere presi in benevola considerazione per quel che riguarda il futuro status internazionale dell’Italia.
  6. Questo approccio sembra al SOE di vitale importanza e viene perciò chiesto che i capi di Stato maggiore diano il loro consenso:
  7. a) al volo del generale Pesenti dall’Italia e b) a trattative con il maresciallo Badoglio sulla base della costituzione di un esercito italiano antifascista da parte del generale Pesenti.
  8. Il nostro corriere dall’Italia a Berna deve superare notevoli difficoltà per mantenere i contatti con entrambe le parti ed è perciò essenziale che si possa dare una risposta in un prossimo futuro. È stata chiesta una decisione per il 12 dicembre, data nella quale egli deve arrivare a Berna.
  9. Detto tra parentesi, il generale Pesenti ci dà piena libertà di scelta se, dopo il volo, la notizia deve essere resa di pubblica ragione o mantenuta per qualche tempo segreta”» (Ibidem, pp. 108-109).

 

Note riferite alla trascrizione:

[1] Luigi Rusca, condirettore amministrativo della Mondadori, aveva potuto recarsi spesso in Svizzera per motivi di lavoro e lì era entrato in contatto con elementi del SOE. Nell’aprile 1943 era stato internato in provincia di Potenza; fu poi liberato da Badoglio subito dopo il 25 luglio.

[2] Capo del SOE fino al settembre 1943.

[3] Il generale Hastings Lionel Ismay fu durante la guerra collaboratore diretto di Churchill come capo di Stato maggiore incaricato del collegamento tra il primo ministro e ministro della difesa, da una parte, e i vertici militari, dall’altra. Dal 1952 fu primo segretario generale della NATO.

[4] Il gen. Gustavo Pesenti, già comandante e governatore reggente della Somalia, era stato rimosso nel dicembre 1940 dall’incarico per aver proposto al duca d’Aosta di trattare un armistizio con gli inglesi.

Riferimento ai documenti:

18) SOE, History, vol III, pp. 828-830.

19) Memorandum SOE del 7 gennaio 1943, SIC.B/Special Ops./4.77A.

 

 

Colpo di stato all’italiana.

Si sottolineano gli intendimenti di Badoglio il quale «non è più fedele alla Casa reale e vuole, al momento giusto, prendere il potere e costituire un governo militare»; in pratica vede la possibilità di condurre un “colpo di stato” prendendo lui stesso il potere. Sulla “formula”, ovvero sulla “resa incondizionata”, quindi “senza condizioni”, ancora Elena Aga Rossi ha trascritto il seguente documento, datato 21 luglio 1943:

 

«Telegramma

Da: J.S.M. Washington

A: W.C.O. Londra

21 luglio 1943

Riferimento a NAF 295

Lo Stato maggiore degli Stati Uniti raccomanda ai capi di Stato maggiore congiunti di inviare la seguente risposta a NAF 295 al generale Eisenhower. Il comandante in capo alleato è autorizzato

(1) a fare i preparativi per estendere AMGOT sino a Roma.

(2) a trattare con gruppi militari o civili in Italia per realizzare la resa senza condizioni dell’Italia, ma non relativamente alla costituzione di un governo nel territorio occupato. Tranne che per funzionari di secondo piano, la scelta di italiani per il governo civile in Italia dopo la sua capitolazione sarà fatta dal presidente e dal primo ministro dopo aver ricevuto le raccomandazioni del comandante in capo alleato» (Ibidem, p. 280).

 

L’A.M.G.O.T. è l’Allied Military Government of Occupied Territories (Amministrazione Militare Alleata dei Territori Occupati).

 

Giacomo Carboni & Dwight Eisenhower.

È utile riportare anche il «Resoconto di Eisenhower ai capi di Stato maggiore congiunti sugli sviluppi dei contatti di pace con gli italiani, 28 agosto 1943», anch’esso contenuto nel lavoro di Elena Aga Rossi:

 

«Segretissimo // Da: Algeri // A: HQ Etousa (Azione) // Datato 28 agosto // Ricevuto 29 agosto // NAF 342 28 agosto 1943 // “Testo letterale corretto” // Indirizzi interni: per i capi di Stato maggiore congiunti // per i capi di Stato maggiore britannici // Firmato: Eisenhower // Riferimenti a: FAN 203 // 6056, FAN 202 // Con il testo dell’atto completo di resa, questo dà ricevuta di FAN 203. Gli sviluppi dal momento della prima conferenza di Lisbona sono i seguenti. Appena ricevuto il messaggio 6056, FAN 202, che ci informava dell’imminente trasmissione dei termini completi, il ministro britannico che aveva ricevuto tale messaggio si mise in comunicazione con Londra informando il governo che non vi era la sicurezza sul ritorno qui del generale C. e che i termini originari presentatigli a Lisbona avrebbero potuto essere accettati senza che lui tornasse. Il ministro britannico ha anche affermato che poiché era stata consegnata al generale C. una bozza della capitolazione militare, la situazione militare avrebbe potuto essere compromessa dalla presentazione dell’atto più completo nel breve periodo di tempo che restava prima del lancio di Avalanche. Ciò è particolarmente vero dato che la scarsità di tempo, la grande difficoltà nelle comunicazioni e la necessità della segretezza impediscono di continuare qualsiasi tipo di negoziati, salvo il più breve e il più semplice. Speriamo di riuscire a stabilire comunicazioni con il governo Badoglio a partire da oggi, 28 agosto, e di poter ricevere, entro le prossime 48 ore, un segnale della loro accettazione dei termini dello strumento breve (Ibidem, p. 292).

Il «generale C.» è il Generale Giacomo Carboni.

 

 

Note.

 

1) Vedere utilmente quanto già scritto nella XVIII parte.

 

Sulle imprese della Decima Flottiglia MAS si può consultare il sito dell’Associazione:

associazionedecimaflottigliamas.it

 

N.B.: I bolli a corredo provengono da: Archivio di Stato di Milano; Tribunale Militare per la Marina in Milano (Repubblica Sociale Italiana), Procedimenti archiviati. Autorizzazione alla pubblicazione. Registro: AS-MI. Numero di protocollo: 2976/28.13.11/1. Data protocollazione: 29/05/2018. Segnatura: MiBACT|AS-MI|29/05/2018|0002976-P.

 

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DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XXVII parte) – Gianluca Padovan

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«… l’Inghilterra, che, per quanto poté, non tollerò di soffrire nel 1940 i danni derivanti dalla pace separata della Francia e rispose facendo la guerra al governo di Pétain. Pétain, replicando agli attacchi di Churchill, dichiarò che questi poteva essere giudice degli interessi del suo Paese, non di quelli della Francia e ancor meno del suo onore. Ma l’Inghilterra rispose attaccando e distruggendo a Mers-el-Kébir la flotta francese, che aveva rifiutato di arrendersi; s’impadronì, nonostante la sanguinosa resistenza degli equipaggi, delle navi da guerra e delle grandi navi mercantili francesi che si trovavano nei porti inglesi; colò a picco l’incrociatore Rigault, cannoneggiò la corazzata Richelieu, bombardò Dakar e Marsiglia»

Sergio Nesi, Decima Flottiglia nostra…, 2008

Italia “alle ortiche”.

Per comprendere la situazione dell’Italia nel settembre 1943 e le conseguenze che ne derivarono nell’immediato futuro è utile prendere visione delle condizioni dettate dal così detto “armistizio corto” (Short Military Agreement), in pratica della resa incondizionata firmata dal Generale di Brigata Giuseppe Castellano per conto del Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio e quindi per conto del re Vittorio Emanuele III.

Stando ai testi che compongono l’Armistizio corto e l’Armistizio lungo, si capisce che si tratti, in realtà, di una capitolazione. O, se si vuole, di una resa incondizionata. Per quanto riguarda il significato delle parole si deve, prima di tutto, ricorrere al Vocabolario della Lingua Italiana per poi passare, uno per tutti, al Il Dizionario di Diritto Internazionale Bellico del 15 marzo 1941.

Si lascia poi ogni valutazione al Lettore, ma ricordando quanto già espresso nella VI parte: l’ingresso improvviso del regno d’Italia in guerra aveva causato la perdita del miglior naviglio mercantile (1).

Dal Vocabolario della Lingua Italiana.

- Armistizio: è la «Cessazione delle operazioni di guerra tra eserciti belligeranti, e quindi anche l’accordo con il quale due o più belligeranti convengono, attraverso i comandanti supremi delle rispettive forze operanti, di sospendere le ostilità, spesso per dar tempo allo svolgimento delle trattative» (Istituto della Enciclopedia Italiana, Vocabolario della Lingua Italiana, Vol. I, Roma 1986, p. 276).

- Capitolazione: si tratta dell’«Accordo, concluso fra i comandanti di forze armate belligeranti, con il quale un corpo di truppe o una piazzaforte si arrendono al nemico» (Ibidem, p. 615).

- Resa: è «L’azione, il fatto di arrendersi, come cessazione di ogni resistenza di fronte al nemico» (Istituto della Enciclopedia Italiana, Vocabolario della Lingua Italiana, vol. III**, Roma 1991, p. 1366). La resa può essere a condizioni, oppure incondizionata o a discrezione; in casi particolari con l’onore delle armi.

- Resa incondizionata: «quando il vinto trovandosi nell’impossibilità di dettare condizioni alla propria resa, si assoggetta a priori a qualsiasi imposizione del vincitore» (Istituto della Enciclopedia Italiana, Vocabolario della Lingua Italiana, Vol. II, Roma 1987, p. 821).

Dal Dizionario di Diritto Internazionale Bellico.

Il Dizionario di Diritto Internazionale Bellico del 15 marzo 1941 recita invece:

- Armistizio: «È l’accordo con il quale due o più belligeranti decidono di sospendere le ostilità. Tra le convenzioni fra belligeranti esso è il più complesso e il più usato, e se le norme convenzionali non compiutamente lo fissano, è però ben regolato dalla consuetudine. È da porsi prima di tutto in chiaro che con la cessazione delle ostilità in seguito ad armistizio non viene meno lo stato di guerra e di conseguenza rimangono intatti tutti i diritti e i doveri dei neutrali e dei belligeranti. Fissato così che l’armistizio non è una pace, esso si può distinguere in generale o parziale, a seconda che la sospensione delle ostilità sia stabilita per tutti i teatri di guerra, o soltanto per una parte molto più importante di essi (v. Sospensione d’armi o tregua); in genere al primo è connesso anche un’importanza politica (negoziati per la pace, per sedare una rivoluzione interna ecc.) che il secondo non ha. Questa distinzione ha grande importanza specialmente riguardo a chi spetti di concludere l’armistizio, nessun dubbio essendo che questo, qualora sia generale, può essere concluso solo dai Governi belligeranti o dai loro delegati, mentre, se è parziale, basta il comandante in capo delle forze armate o chi per esso. E che l’armistizio generale debba essere concluso dai Governi e dagli stessi ratificato invece che dai comandanti militari si spiega appunto con la preminente parte politica compresa in esso [etc.]» (Enrico Serra, Giuseppe Sperduti, Giancarlo Venturini, Walter Zannini -a cura di-, Dizionario di Diritto Internazionale Bellico, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, Milano 1941, pp. 42-43).

- Capitolazione: «È una convenzione fra belligeranti con la quale è stipulata la resa totale o parziale delle truppe. È un vero e proprio accordo, anche se talvolta la sua forma è orale, e come tale va distinto dalla semplice “resa a discrezione” (v.). La capitolazione stessa contiene in genere quali sono gli obblighi dei contraenti ed ogni altra indicazione al proposito, e solo nel caso di mancanza di contenuto specifico si deve ricorrere al significato che la pratica internazionale attribuisce a questo istituto. Alla data di entrata in vigore della convenzione, l’esercito o la fortezza o la nave che ha capitolato non solo ha l’obbligo di cessare ogni attività offensiva ma deve anche consentire che i difensori vengano fatti prigionieri di guerra. L’avversario ha il diritto di ricevere in consegna tutte le opere militari, le armi, le munizioni ecc. come e dove si trovano al momento della stipulazione e la distruzione da parte del capitolante è lecita solo sino al momento dell’entrata in vigore della convenzione e non più dopo [etc.]» (Ibidem, p. 64).

- Resa a discrezione: «Così si chiama l’arrendersi delle forze armate – tutte o parte – di un belligerante, senza concludere prima col nemico una capitolazione (v.). Chi si arrende a discrezione ha l’obbligo di gettare le armi e non può pretendere dal belligerante avversario un trattamento diverso da quello che le norme internazionali assegnano ai prigionieri di guerra. La volontà della resa a discrezione si manifesta in genere, con l’alzare la bandiera bianca o con altra idonea manifestazione. Il nemico, dopo essersi reso conto che il segnale è stato eseguito dietro ordine dell’autorità, e non è un atto personale di chi lo compie, ha il dovere di sospendere il fuoco» (Ibidem, p. 184).

- Sospensione d’armi o tregua: «Come esprime il nome, si tratta di una convenzione fra belligeranti (v.) allo scopo di far cessare temporaneamente le ostilità. In senso lato essa è compresa solitamente nell’armistizio (v.), anche perché le convenzioni dell’Aja non conoscono che quest’ultimo. Tuttavia la pratica e la dottrina fanno una distinzione fra armistizio e sospensione d’armi o tregua: quest’ultima consiste strictu sensu in una cessazione delle ostilità tra forze navali o terrestri o aeree nemiche, per un tempo brevissimo e circa un oggetto d’importanza locale oltreché momentanea [etc.]» (Ibidem, p. 195).

Il testo del Dizionario di Diritto Internazionale Bellico non contempla la semplice voce resa. In ogni caso si rammenti che cosa recita l’Armistizio Corto al punto n° 6: «Resa immediata della Corsica e di tutto il territorio italiano, sia delle isole che del continente, agli alleati [etc.]».

RESA INCONDIZIONATA: Armistizio Corto di Cassibile.

I “prodromi” sono già stati scritti nella VIII parte.

Il giorno 3 settembre 1943 sono presenti alla firma della resa incondizionata: «On. Harold Macmillan, Ministro Residente britannico presso il Quartier Generale delle Forze alleate; Robert Murphy, rappresentante personale del Presidente degli Stati Uniti; Royer Dick, Commodoro della Reale Marina britannica, Capo di Stato Maggiore del Comandante in Capo del Mediterraneo; Lowell W. Rooks, Magg. Gen. Dell’Esercito degli U.S.A. Sottocapo di Stato Maggiore, C-3, presso il Quartier Generale delle Forze alleate; Franco Montanari, interprete ufficiale italiano; Brigadiere Kenneth Strong, Sottocapo di Stato Maggiore, G-2, presso il Quartier Generale delle Forze alleate (testo tratto da: http://www.andreaconti.it/alternat/storia02.html).

testo dell’«armistizio corto» firmato dal generale castellano il 3 settembre 1943 a cassibile

Il testo è tratto dal lavoro di: Emilio Canevari, Graziani mi ha detto, Magi-Spinetti Editori, Roma 1947, pp. 328-330.

Comunque, il testo della resa incondizionata ritenuto valido all’epoca e quindi anche ai giorni nostri è in lingua inglese (2).

Sicilia, 3 settembre 1943

Le seguenti condizioni di armistizio sono presentate dal Generale Dwight D. Eisenhower Comandante in Capo delle Forze Alleate il quale agisce per delega dei Governi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna e nell’interesse delle Nazioni Unite e sono accettate dal Maresciallo Pietro badoglio Capo del Governo Italiano

  1. - Cessazione immediata di ogni attività ostile da parte delle Forze Armate Italiane.
  2. - L’Italia farà ogni sforzo per negare ai tedeschi tutto ciò che potrebbe essere adoperato contro le Nazioni Unite.
  3. - Tutti i prigionieri e gli internati delle Nazioni Unite dovranno essere consegnati immediatamente al Comandante in Capo alleato e nessuno di essi potrà ora o in qualsiasi momento essere trasferito in Germania.
  4. - Trasferimento immediato della flotta italiana e degli aerei italiani in quelle località che saranno designate dal Comandante in Capo alleato, con i dettagli di disarmo che saranno fissati da lui.
  5. - Il naviglio mercantile italiano potrà essere requisito dal Comandante in Capo alleato per supplire alle necessità del suo programma militare-navale.
  6. - Resa immediata della Corsica e di tutto il territorio italiano, sia delle isole che del continente, agli Alleati, per essere usato come base di operazioni e per altri scopi a seconda delle decisioni degli Alleati.
  7. - Garanzia immediata del libero uso da parte degli Alleati di tutti gli aeroporti e porti navali in territorio italiano, senza tener conto dello sviluppo dell’evacuazione del territorio italiano da parte delle forze tedesche. Questi porti ed aeroporti dovranno essere protetti dalle Forze Armate italiane finché questo compito non sarà assunto dagli Alleati.
  8. - Immediato richiamo in Italia delle Forze Armate italiane da ogni partecipazione alla guerra in qualsiasi zona in cui si trovino attualmente impegnate.
  9. - Garanzia da parte del Governo italiano, che se necessario impiegherà tutte le sue forze disponibili per assicurare la sollecita e precisa esecuzione di tutte le condizioni dell’armistizio.
  10. - Il Comandante in Capo delle Forze alleate si riserva il diritto di prendere qualsiasi misura che egli ritenga necessaria per la protezione degli interessi delle Forze alleate per la prosecuzione della guerra, e il Governo italiano si impegna a prendere quelle misure amministrative o di altro carattere che potranno essere richieste dal Comandante in Capo, e in particolare il Comandante in Capo stabilirà un Governo militare alleato in quelle parti del territorio italiano ove egli lo riterrà necessario nell’interesse delle Nazioni alleate.
  11. - Il Comandante in Capo delle Forze alleate avrà pieno diritto di imporre misure di disarmo, di smobilitazione e di smilitarizzazione.
  12. - Altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario che l’Italia dovrà impegnarsi ad eseguire saranno trasmesse in seguito.

Le condizioni di questo Armistizio non saranno rese pubbliche senza l’approvazione del Comandante in Capo Alleato. Il testo inglese sarà considerato il testo ufficiale (1).

Per il Maresciallo Pietro Badoglio, Capo del Governo italiano / F.to Giuseppe Castellano, Gen. di Brigata addetto al Comando Supremo Italiano / Per Dwight Eisenhower Generale dell’Esercito degli U.S.A. / Comandante in Capo delle Forze Alleate / F.to Walter B. Smith, Magg. Gen. dell’Esercito degli U.S.A. / Capo di Stato Maggiore (Emilio Canevari, Graziani mi ha detto, op. cit., pp. 328-330).

Successivamente alla firma dello Short Military Agreement, il giorno 29 settembre 1943, in acque maltesi e a bordo della nave da battaglia inglese Nelson, è firmato l’Atto Condizioni aggiuntive di armistizio con l’Italia, ovvero il cosiddetto “armistizio lungo”. Inoltre si discute la necessità che l’Italia dichiari guerra alla Germania.

Note

1) Ed ecco la prima parte di quello che diverrà il “punto n. 5” della “resa incondizionata corta”, testo è già stato trascritto nella XII parte.

A proposito dell’immediata perdita di parte del naviglio mercantile ecco che cos’hanno scritto Carlo De Riso e Roberto Fabiani: «Prima ancora di cominciare, la battaglia era già stata perduta a metà. Si sa che Mussolini decise il giorno dell’entrata in guerra in maniera cervellotica, con l’unico scopo di riuscire a sparare qualche fucilata prima che i tedeschi arrivassero a Parigi. Ma già da maggio avvertiva gli Stati Maggiori che a partire dal 5 giugno 1940 qualunque giorno era buono. In quel momento, il 35 per cento della flotta mercantile italiana si trovava fuori dal Mediterraneo: si trattava di 212 navi, ovviamente le migliori, le più veloci e adatte alla navigazione oceanica, che giravano il mondo per procurare al Paese valuta pregiata. L’avviso di “pericolo di guerra” con l’ordine di rientro venne diramato solo il 5 giugno, con la conseguenza che tutte quelle belle navi finirono internate in porti neutrali o catturate. Clamoroso l’episodio del piroscafo Rodi, rimasto in mani inglesi… a Malta. E anche questo, fra gli infiniti altri, va detto a gloria dello Stato Maggiore Marina» (Carlo De Riso, Roberto Fabiani, La Flotta tradita. La Marina italiana nella Seconda Guerra Mondiale, De Donato-Lerici Editori, Roma 2002, p. 95).

Vogliamo parlare d’idiozia oppure di tradimento? Alternative non ve ne sono.

2) Testo “valido” della resa incondizionata:

«The following conditions of an Armistice are presented by General dwight d. eisenhower, Commander-in-Chief of the Allied Forces, acting by authority of the Governments of the United States and Great Britain and in the interest of the United Nations, and are accepted by Marshal pietro badoglio, Head of the Italian Government:

  1. Immediate cessation of all hostile activity by the Italian armed forces.
  2. Italy will use its best endeavors to deny, to the Germans, facilities that might be used against the United Nations.
  3. All prisoners or internees of the United Nations to be immediately turned over to the Allied Commander-in-Chief, and none of these may now or at any time evacuated to Germany.
  4. Immediate transfer of the Italian Fleet and Italian aircraft to such points as may be designated by the Allied Commander-in-Chief, with details of disarmament to be prescribed by him.
  5. Italian merchant shipping may be requisitioned by the Allied Commander-in-Chief to meet the needs of his military-naval program.
  6. Immediate surrender of Corsica and of all Italian territory, both islands and mainland, to the Allies, for such use as operational bases and other purposes as the Allies may see fit.
  7. Immediate guarantee of the free use by the Allies of all airfields and naval ports in Italian territory, regardless of the rate of evacuation of the Italian territory by the German forces. These ports and fields to be protected by Italian armed forces until this function is taken over by the Allies.
  8. Immediate withdrawal to Italy of Italian armed forces from all participation in the current war from whatever areas in which they may now be engaged.
  9. Guarantee by the Italian Government that if necessary it will employ all its available armed forces to insure prompt and exact compliance with all the provisions of this armistice.
  10. The Commander-in-Chief of the Allied Forces reserves to himself the right to take any measure which in his opinion may be necessary for the protection of the interests of the Allied Forces for the prosecution of the war, and the Italian Government binds itself to take such administrative or other action as the Commander-in-Chief may require, and in particular the Commander-in-Chief will establish Allied Military Government over such parts of Italian territory as he may deem necessary in the military interests of the Allied Nations.
  11. The Commander-in-Chief of the Allied Forces will have a full right to impose measures of disarmament, demobilization and demilitarization.
  12. Other conditions of a political, economic and financial nature with which Italy will be bound to comply will be transmitted at later date.

The conditions of the present Armistice will not be made public without prior approval of the Allied Commander-in-Chief. The English will be considered the official text.

Marshal PIETRO BADOGLIO – DWIGHT D. EISENHOWER

Head of the Italian GovernmentGeneral, U. S. Army, Commander in Chief Allied Forces

By: GIUSEPPE CASTELLANO – By: WALTER B. SMITH

Brigadier General, Italian High Command – Attached to The Major General, U. S. Army Chief of Staff

Present:

Rt. Hon. HAROLD MACMILLAN British Resident Minister, AFHQ

ROBERT MURPHY, Personal Representative of the President of the United States

ROYER DICK, Commodore, R. N., Chief of Staff to the C. in C. Med.

LOWELL W. ROOKS, Major General, U. S. Army, Assistant Chief of Staff, G-3, AFHQ

FRANCO MONTANARI, Official Italian Interpreter

Brigadier KENNETH STRONG, Assistant Chief of Staff, G-2, AFHQ» (testo tratto da: http://www.andreaconti.it/alternat/storia02.html).

Sulle imprese della Decima Flottiglia MAS si può consultare il sito dell’Associazione:

associazionedecimaflottigliamas.it

N.B.: I bolli a corredo provengono da: Archivio di Stato di Milano; Tribunale Militare per la Marina in Milano (Repubblica Sociale Italiana), Procedimenti archiviati. Autorizzazione alla pubblicazione. Registro: AS-MI. Numero di protocollo: 2976/28.13.11/1. Data protocollazione: 29/05/2018. Segnatura: MiBACT|AS-MI|29/05/2018|0002976-P.

L'articolo DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XXVII parte) – Gianluca Padovan proviene da EreticaMente.

Stalin per 5 Minuti! – Gianluca Padovan

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«La letteratura su Stalin e la sua era è sterminata. Gli stessi studiosi dello stalinismo ammettono tranquillamente di non averne visionata neppure la metà. In questo mare magnum, ricerche serie e meticolosamente documentate coesistono con sciatte compilazioni di aneddoti, dicerie e montature, raffazzonate alla bell’e meglio»

Oleg V. Chlevnjuk, Stalin, 2015

Ha da venì baffone?

Tanto si scrive e meno si sa. Ma è poi così necessario sapere tanto? Ritengo che i dettagli possano essere utili e talvolta meritino persino il tempo che gli si dedica. In realtà nulla è utile se i punti principali non sono chiaramente esposti.

Oggi la “storia” è fatta di talmente tante parole che l’obiettivo rimane chiaro: non dare le informazioni basilari affinché si sappia che cosa è successo e soprattutto che cosa sta succedendo.

Ma non mi dilungo, perché i cinque minuti che la storia di “Stalin” merita passano in fretta. Faccio scattare il cronometro… mi raccomando leggete in fretta, tutto d’un fiato e… partenza!

La nascita di un nome: Soso.

La prima domanda da porsi è la seguente: quando principia la vicenda? Ma la risposta non è così scontata. Esaminiamone una “rosa”… di queste “possibilità”.

  1. Giuseppe Džugašvili nasce nel 1879 in Georgia (fonte: Nicholas V. Rjasanovskij, Storia della Russia, Garzanti Editore, Milano 1968, p. 564).
  2. Iosif Vissarionovič Dzugašvili, alias “Stalin”, nasce a Gori in Georgia nel 1879 e muore a Mosca nel 1953 (fonte: Rizzoli-Larousse, Enciclopedia, vol. 20, RCS, Milano 2004, p. 359).
  3. Maurice Pinai, invece, così scrive il nome e cognome di “Stalin”: Ioseph David Vissarianovich Djugashvili-Kochha. Anche riportato, ma tra parentesi: Giuseppe Vissarionovic Stalin (fonte: Maurice Pinay, Complotto contro la Chiesa, Linotypia-Tipografia Dario Detti, Roma 1962, p. 19 e seg.). Inoltre: «Djougachvili - che è il suo vero nome - significa figlio di Djou e Djou è una piccola località della Persia, dalla quale emigrarono verso la Georgia molti portoghesi, anticamente colà esiliati a causa della loro onestà tutt'altro che specchiata. È ormai definitivamente provato, però, che nelle vene di Stalin scorreva sangue ebreo, pur non avendo egli né confermato, né smentito le voci che erano cominciate a correre in proposito (in nota: Bernard Hutton: Rivista francese Constellation, n° 167 del marzo del 1962) (Ibidem, p. 31). Secondo altre fonti il significato del suo nome sarebbe “figlio di Giuda”.
  4. Gislero Flesch, studioso messo all’indice, ma indubbiamente più vicino ai fasti di “Stalin” degli altri autori qui citati dal momento che pubblica quanto segue nel 1942, così principia: «La scheda riempita dal colonnello di gendarmeria Sciabelski, il 17 giugno 1902, sul detenuto Josif Vissarionovič Giugašvili, arrestato per provocazione di sanguinosi tumulti, reca i seguenti connotati: “Statura 2 arscin, 4 versciok e mezzo [in nota: circa m. 1,62. L’arscin equivale a cm. 71,119; il versciok a cm. 4,445]. Corpulenza: media. Età: 23 anni. Segni particolari: secondo e terzo dito del piede uniti. Aspetto esteriore: volgare. Capelli: bruno-scuri. Barba e baffi: bruni. Naso: diritto e lungo. Fronte: diritta [?] ma bassa. Volto: lungo, abbronzato, segnato dal vaiolo”, per cui la polizia lo soprannomina il “Butterato”» (fonte: Gislero Flesch, Stalin alla luce della psicologia criminale, Casa Editrice del Libro Italiano, Roma 1942, p. 15).
  5. Lo storico contemporaneo Chlevnjuk dice invece che tal «Ioseb D=uga&vili (così all’anagrafe)» nasce il 6 dicembre 1878 a Gori in Georgia, ovvero un anno prima di quanto ufficialmente dichiarato da tanti (fonte: Oleg V. Chlevnjuk, Stalin. Biografia di un dittatore, Mondadori Editore, Milano 2016, p. 23). Inoltre: «La madre, Ekaterine o Keke (Ekaterina in russo) Geladze, figlia di servi della gleba, era nata nel 1856. Nel 1864, dopo l’abolizione della servitù, la famiglia si era trasferita a Gori dove, all’età di diciott’anni, Keke era andata in moglie a un calzolaio, Besarionis o Beso (Vissarion in russo) Džugašvili, di sei anni più anziano. I loro primi due figli morirono in tenera età; Ioseb (Soso) fu il terzo» (Ibidem, p. 24). In ogni caso le notizie di Chlevnjuk non sono prese direttamente dagli archivi, ma bensì tratte da altri autori. Comunque dal suo libro ne ricaviamo un po’ di più, su questo “Ioseb-Soso-Stalin”.

Un gioco tra compagni.

Qualcheduno afferma che la rivoluzione bolscevica fu un’avventura ben riuscita, un “bel gioco”.

Sarà vero?

Ognuno viva pure con le proprie convinzioni, io per primo.

Posso ricordare che nel 1918 i Membri del Consiglio dei Commissari del Popolo (primo Governo comunista di Mosca) erano 19, di cui probabilmente solo 3 non-ebrei. Ovviamente “Stalin”, che fa parte del Consiglio in qualità di “Commissario delle nazionalizzazioni”, non è tra questi ultimi tre (Maurice Pinay, Complotto contro la Chiesa, op. cit., p. 19).

I Russi, magari, dormivano pure e qualcheduno afferma che il “gioco” fu per loro salutare. Indubbiamente gli Zar non erano tra i governanti più illuminati della Terra e un po’ se la sono andata a cercare. Altrettanto indubbiamente la così detta “rivoluzione russa” è stata innanzitutto un genocidio costato alla sola Russia decine di milioni di morti ammazzati. Da questo gigantesco bubbone pestilenziale gli effetti deleteri nel resto dell’Europa e del Mondo non si sono fatti attendere.

Inoltre, proseguendo nei dati di fatto già pubblicati agli inizi degli anni Sessanta del XX secolo, si ricordi che molti “rivoluzionari” sovietici erano iscritti in Massoneria (http://www.ereticamente.net/2018/02/falce-e-maglietto-gianluca-padovan.html).

Lew Davidovic Bronstein, alias Trotsky.

Sul conflitto Trotsky – Stalin le chiacchiere sono infinite. Ma ecco, ancora una volta, il calzante Pinay:

«È risaputo ormai che l’antisemitismo ostentato da Stalin non era altro che una mascheratura dei suoi veri sentimenti. Lo sterminio di ebrei (trotskisti) da lui ordinato per consolidare e assicurare il potere fu portato a termine da altri ebrei. In realtà, quindi, la lotta tra l’ebreo Trotsky e l’ebreo Stalin non fu altro che una contesa tra bande ebree rivali per assicurarsi il governo comunista, da loro stessi creato; ossia una vera e propria lite in famiglia» (Maurice Pinay, Complotto contro la Chiesa, op. cit., p. 35).

Dai GULag ai Laogai.

Si ricordi che il leitmotiv del XX secolo, nonché di questo XXI, è che Stalin fosse georgiano purosangue e avesse vessato gli ebrei. In realtà Stalin era ebreo e in seno al gruppo ebraico di potere vi erano, come già detto, insanabili lotte. Ragion per cui Stalin riempì anche la Siberia di milioni di ebrei deportati innanzitutto dalle terre russe. Poi fu la volta degli ebrei polacchi quando le truppe sovietiche invasero la Polonia nel corso della Seconda Guerra Mondiale. E via così.

Per quanto riguardano ancora una volta le cifre dei morti ammazzati e l’élan avventuroso e sognatore di taluni “rivoluzionari”, Gianantonio Valli, uno scrittore “nostrano” con i piedi per terra, venuto a mancare da poco, riporta dati, cifre, nomi e cognomi (Gianantonio Valli, Giudeobolscevismo. Il massacro del popolo russo, Edizioni Ritter, Milano 2014, pp. 363-393).

Ecco, comunque, un paio di trascrizioni, utili a porsi leciti dubbi su talune “verità storiche”.

  1. Un gruppo di ebrei conservatori emigra a Berlino dopo il golpe bolscevico e pubblica il lavoro a più mani intitolato “La Russia agli ebrei”: «In essa Levin non cela, correttamente e onestamente, che “l’accertamento delle responsabilità ebraiche per la partecipazione al movimento bolscevico [provoca] solitamente negli ambienti ebraici irritazione e incomprensione» (Gianantonio Valli, Giudeobolscevismo. Il massacro del popolo russo, op. cit., p. 388).
  2. Deportazioni sovietiche dalla Polonia: «la deportazione, oltre agli Urali, in Siberia e nel Kazakistan, di 2.500.000 cittadini polacchi – cioè polacchi etnici, ebrei, bielorussi, ucraini, ecc. – tra i quali 1.000.000 ebrei migrati volontariamente o deportati (…). 400.000 di tali ebrei morirebbe durante il terribile viaggio e 300.000 nei campi» (Ibidem, pp. 415-416).

I “campi” sono i GULag, acronimo di Glavnoye Upravlenye Lagerei (Direzione principale dei campi, ovvero dei così detti “campi di lavoro”). Istituiti nel 1926 in Russia da “Djougachvili-Stalin”, sono rimasti attivi fino agli anni Novanta del XX secolo, “ospitando” milioni di prigionieri, molti usciti solo da morti. Non si dimentichi la favorevole impressione suscitata da questi “luoghi di rieducazione” nel presidente del Partito Comunista cinese Mao Zedong (Shaoshan 1893 – Pechino 1976), il quale a sua volta ha provveduto a istituire i campi di lavoro denominati Laogai. Pare che in essi siano transitati ad oggi circa cinquanta milioni di “birichini da rieducare”. Inutile dire che anche in tale frangente molti sono usciti solo con “i piedi in avanti”.

Attenzione, i Laogai sono ancora in funzione in questo XXI secolo!

Detto questo, ognuno può riconoscere o riscoprire in sé stesso una idea, una ideologia, l’élan giovanile che gli fa propendere per un colore piuttosto che un altro, o una fede religiosa o un semplice sentire. Bene, sfido chiunque a dimostrare che gli esempi del “baffone” (“Stalin”) e del “faccione” (“Mao”) fossero validi e da perpetuare nei decenni o nei secoli. In questo XXI secolo è ora che anche i nostri “storici” o presunti tali comincino a scrivere la Storia per quella che è stata.

Il “pezzo da novanta” Nikola Salomon Chruščëv.

Ma i crimini contro i popoli non cessano con l’esalazione dell’ultimo respiro del “baffone”. Ricordiamo ora il “compagno Salomon” successore di “Butterato-Stalin”. Nikola Salomon Chruščëv (Kalinovka 1894 – Mosca 1971), alias Nikita Sergeevič Chruščëv diverrà niente popò di meno che Presidente del Consiglio dei Ministri dell’U.R.S.S. e Segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Lo ritroviamo ovviamente citato anche da Pinay: «Nicola Salomon Kruscev, attuale capo del Partito Comunista Sovietico, membro del Politburò dall’anno1939 cioè dall’anno in cui Malenkov venne eletto membro dell’Orgburò. È fratello della moglie di Malenkov, ossia dell’ebrea Pearl-Mutter. Kruscev è quindi in realtà ebreo e si chiama Pearlmutter» (Maurice Pinay, Complotto contro la Chiesa, op. cit., pp. 33-34).

Difatti scrive Averardi nella sua Introduzione: «Come conciliare il socialismo con l’arcipelago Gulag? la libertà con i rinoceronti del dogmatismo? le laudi del culto di Stalin con il marxismo? e i milioni di morti ammazzati, comunisti e non comunisti, intellettuali e contadini e operai, con il mito della rivoluzione del ’17? Come spiegare che per altri venti anni questi crimini siano stati giustificati, spiegati, negati non dalle vittime impotenti ma da uomini liberi?» (Giuseppe Averardi (a cura di), I grandi processi di Mosca 1936-37-38, Rusconi Libri, Milano 1977, p. 14).

Passati i 5 minuti (era ora!).

Oggi qualcheduno rimesta sulla fine torbida di “Djougachvili-Stalin”, a cui andò di traverso la bottiglia di vodka, per inscenare l’ennesimo teatrino. Ma, siamo sinceri, a noi che ce ne cala di come morì? Ricordiamolo per quello che è stato: un criminale che ha avuto appoggi (tanti) e fortuna (anche troppa).

Ma, infine, anche un altro “alias” storico è trapassato e ce lo ricordiamo per la morte e la distruzione che portò e per l’intento di fare “terra bruciata” anche dell’Europa: si tratta di Temugin (o Temucin) alias Gengis khān (circa 1167 – 1227). Attenzione: si dice che costui, come “Stalin”, avesse un anello particolare: un rubino con la svastika, ma non per questo era un nazionalsocialista! E tantomeno un “brav’uomo”.

Scrive ancora Ghislero Flesch, a proposito dell’audace inclinazione del “nostro” Djou, alias “Kocha-Stalin”: «Torvo, laconico, incurante della vita (deviazione dell’istinto di conservazione, propria a molti criminali), diviene il predone temutissimo del Caucaso. Rivivono così in lui, operanti e moltiplicati, gli spiriti briganteschi del padre, per forza di una eredità criminale diretta omologa. Svaligiare uffici postali e gioiellerie e banche, assalire e uccidere, per far denaro in ogni modo e trasmetterlo alle casse del partito, sono imprese naturalissime per colui che Lenin, allora entusiasta, chiama il “georgiano leggendario”» (Gislero Flesch, Stalin alla luce della psicologia criminale, op. cit., p. 72).

Ora, sforati i tempi prefissati dei “5 minutini”, passiamo ad altro.

Ad altro di decisamente più pregnante e indubbiamente da ricordare.

Il grande sacrificio.

La “storia” che va per la maggiore è che, regnante “Djou-Stalin”, la Germania del III Reich attaccò fraudolentemente la Russia con la quale aveva stretto un patto. Scellerato per l’appunto? Ma in effetti che cos’è successo?

La realtà dei fatti storici è che la Russia si apprestava a invadere l’Europa. L’obiettivo di “Kocha-Stalin” era di fare di tutt’Europa un mondo slavo. Ma, ricordiamocelo, l’ideale panslavista non era certo suo.

Pertanto si arginò e si stroncò l’invasione russa che mirava a conquistare l’intera Europa.

Vanno ricordati i sacrifici della Germania e con essa l’Austria, del loro popolo, dei Soldati Italiani, nonché di tutti coloro che si batterono contro il bolscevismo anche e soprattutto nelle fila delle Waffen SS.

Non ci credete? Tre libri per tutti scritti dal russo Vladimir Rezun alias Viktor Suvorov parlano del piano di Stalin per conquistare l’Europa: “Il rompighiaccio”, “Il giorno M” e “L’ultima Repubblica”.

Si caldeggia vivamente le lettura dell’articolo «Come i Sovietici “persero” la Seconda Guerra Mondiale. La rivelazione del piano di Stalin per la conquista dell’Europa», pubblicato sul sito web della Federazione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale Italiana, recensito da Daniele W. Michaels e tradotto a cura di Gian Franco Spotti.

(http://fncrsi.altervista.org/La_rivelazione_del_piano_di_Stalin.htm).

Se qualcheduno pensa che oggi le cose siano cambiate perché Vladimir Putin è biondo si ricordi che appartiene alla Loggia massonica Golden Eurasia, mentre Angela Merkel appartiene alle Logge Golden Eurasia, Parsifal e Valhalla.

Se gli americani possiedono parecchi droni, i russi hanno i soldati per raggiungere (almeno sulla carta) Portogallo e Spagna da una parte, Italia (fino alla Sicilia) e Grecia da quell’altra.

Intanto la Russia ci vorrebbero riprovare per l’ennesima volta contro la Finlandia, ma il tenace e valoroso popolo Finlandese ha resistito e ci si augura che in eterno resista!

Il 22 giugno 1941.

Gianantonio Valli ci ha lasciato un libro chiaro e inequivocabile: “Operazione Barbarossa. 22 giugno 1941: una guerra preventiva per la salvezza dell’Europa”.

Dopo aver parlato nel dettaglio delle forze in campo, Valli scrive: «Al proposito già Suvorov (II) aveva concluso, con un certo humor nero: “Se l’operazione ‘Barbarossa’ fosse stata posticipata ancora una volta, per esempio dal 22 giugno al 22 luglio, Hitler non si sarebbe dovuto ammazzare nel 1945, ma prima. Esistono non pochi elementi a indicare che la data d’inizio dell’operazione sovietica ‘Groza’ (Tempesta) fosse il 6 luglio 1941”» (Gianantonio Valli, Operazione Barbarossa. 22 giugno 1941: una guerra preventiva per la salvezza dell’Europa, Effepi, Genova 2009, p. 45).

Per quanto concerne le “considerazioni strategiche” leggiamo serenamente altre informazioni attinte da Suvorov:

«“Non sappiamo dove sia nata la leggenda che il 22 giugno 1941 Hitler ha iniziato la guerra all’Est e costretto l’Unione Sovietica alla guerra. Se, al contrario, ascoltiamo coloro che in quei giorni, ore e minuti furono in effettivo stretto rapporto coi massimi capi sovietici, il quadro è tutt’altro: il 22 giugno Hitler ha scompaginato i piani di guerra sovietici perché ha portato la guerra nel paese nel quale il 19 agosto 1939 era stato partorito un altro piano. Ai capi sovietici Hitler non ha permesso di condurre la loro guerra, come avevano progettato, e li ha costretti a improvvisare e fare ciò cui non erano preparati: difendere il loro paese”» (Gianantonio Valli, Operazione Barbarossa, op. cit., pp. 77-78).

Oggi si taccia di “revisionista storico” chi cerchi di liberarsi dalle menzogne scritte da chi ha il potere del denaro e conseguentemente della carta stampata. In realtà i veri revisionisti sono coloro che hanno scritto a loro uso e consumo (o meglio hanno fatto scrivere a penne prezzolate) una storia artefatta e quindi fraudolentemente falsa.

Hans Rudel: Pilota d’Acciaio!

Il soldato tedesco più decorato della Seconda Guerra Mondiale (e probabilmente il Soldato più decorato sul campo nel XX secolo) è il pilota tedesco Hans Ulrich Rudel. Che cosa fece? Sul fronte russo compì circa 2530 missioni di volo, con circa 500 carri armati sovietici distrutti. E questo senza contare una nave da battaglia affondata e altro ancora.

Ecco che cosa scrive a proposito dei primi giorni dell’attacco tedesco denominato “Operazione Barbarossa” e sulle basi d’aviazione sovietiche piene di bombardieri statunitensi come i Martin.

«Fin dai primi voli notammo innumerevoli opere di fortificazione lungo la frontiera; spesso queste posizioni sono profonde centinaia di chilometri nell’interno della Russia; talvolta i lavori sono ancora in corso. Sorvoliamo aeroporti quasi approntati; su alcuni di essi i russi stanno terminando le piste di cemento; su altri già si vedono velivoli in attesa… non sappiamo bene di che cosa. Così, presso la strada di Witebsk, un vasto campo appare gremito di bombardieri Martin; ma tutti questi apparecchi sono fermi: i russi mancano di benzina o di personale. Vedendo sfilare sotto di noi a perdita d’occhio trinceramenti, strade militari ed aeroporti, non possiamo impedirci di pensare che è stata una gran fortuna l’aver preso l’iniziativa delle operazioni. È evidente come i russi abbiano organizzato le zone di frontiera quali basi per una offensiva contro l’Europa, cioè contro la Germania, che è ormai rimasta l’unica nazione forte da combattere in Europa Occidentale; se il nostro Comando Supremo avesse lasciato loro il tempo di terminare quei preparativi, sarebbe stato senza dubbio molto difficile, e forse improbabile, fermare il famoso “rullo compressore”» (Hans Rudel, Il pilota di ferro, Longanesi & C., Milano 1971, p. 22).

Così Rudel chiude il proprio libro di ricordi epici e dolorosi, con parole decisamente attuali:

«I fatti vi sono narrati per quello che valgono, con scrupolosa verità e con assoluta fedeltà. Dedico il libro ai morti di questa guerra e alla nostra gioventù, che sta soffrendo dell’orribile confusione del dopoguerra. Essa non deve perdersi d’animo. Ma aver fede nella Patria e fiducia nell’avvenire, perché solo chi si dà per vinto è veramente perduto».

NOTE

- Le due immagini di Iosif Vissarionovič Dzugašvili con la manina infilata nel cappotto sono state tratte da:

https://neovitruvian.wordpress.com/2016/02/22/la-mano-nascosta-che-ha-manipolato-la-storia/

- Le immagini d’epoca identificate come fig. 1, 2 e 16, provengono dal citato libro di Gislero Flesch, Stalin alla luce della psicologia criminale.

- Vedere inoltre uno scritto di Maurizio Blondet, dove si riprendono gli studi di Gianantonio Valli:

https://www.maurizioblondet.it/lenin-anche-massone-oltre-ebreo/

L'articolo Stalin per 5 Minuti! – Gianluca Padovan proviene da EreticaMente.

DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XXVIII parte) – Gianluca Padovan

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«La scelta di Arillo e degli altri ufficiali, sottufficiali e marinai che avevano aderito alla RSI, rispondeva a due motivi fondamentali: la reazione emotiva all’essersi sentiti presi in giro da Badoglio e dai vertici della Regia Marina. Secondo, il cameratismo che da tempo legava gli equipaggi italiani a quelli tedeschi che spesso sfociavano in rapporti umani stretti. Questi 400 uomini, costituirono il nucleo fondamentale della X Mas nella RSI»

Davide Del Giudice, Il Comandante Mario Arillo, s.d.

 

 

 

Da una resa incondizionata all’altra.

Nella parte precedente eravamo rimasti alla firma della resa incondizionata “corta”, ovvero dello Short Military Agreement.

Successivamente, il giorno 29 settembre 1943, in acque maltesi e a bordo della nave da battaglia inglese Nelson, è firmato l’Atto Condizioni aggiuntive di armistizio con l’Italia, ovvero il cosiddetto “armistizio lungo”. Inoltre si discute la necessità che l’Italia dichiari guerra alla Germania. Si riporta quindi anche il testo del secondo “armistizio”.

Curioso a dirsi, la gran parte delle persone che s’interessa delle vicende politiche dell’Italia nel XX secolo, oppure che si occupa di storia militare del XX secolo, non ha letto né il primo né tantomeno il secondo trattato di resa incondizionata del regno d’Italia.

In ogni caso, ad oggi, ben difficilmente si parla di “resa incondizionata”, ma bensì di “armistizio”!

Il testo è tratto dal lavoro di: Emilio Canevari, Graziani mi ha detto, Magi-Spinetti Editori, Roma 1947, pp. 330-340.

 

 

testo dell’«armistizio lungo» o «resa incondizionata» dell’italia firmato da badoglio a malta il 29 settembre 1943 con il titolo definitivo «condizioni aggiuntive di armistizio con l’italia».

«Poiché in seguito ad un armistizio in data 3 settembre 1943, fra i Governi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, agenti nell’interesse di tutte le Nazioni Unite da una parte e il Governo Italiano dall’altra, le ostilità sono state sospese fra l’Italia e le Nazioni Unite in base ad alcune condizioni di carattere militare; / e poiché, oltre queste condizioni, era stabilito in detto armistizio che il Governo italiano si impegnava ad eseguire altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario da trasmettere in seguito; / e perché è opportuno che le condizioni di carattere militare e le suddette condizioni di carattere politico, economico e finanziario siano, senza menomare la validità delle condizioni del suddetto armistizio del 3 settembre 1943, comprese in un atto successivo; / le seguenti, insieme con le condizioni dell’armistizio del 3 settembre 1943, sono le condizioni in base a cui i Governi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna e dell’Unione Sovietica, agendo per conto delle Nazioni Unite, sono disposti a sospendere le ostilità contro l’Italia sempre che le loro operazioni militari contro la Germania ed i suoi alleati non siano ostacolate e che l’Italia non aiuti queste Potenze in qualsiasi modo e eseguisca le richieste di questi Governi. / Queste condizioni sono state presentate dal Generale Dwight D. Eisenhower, Comandante Supremo delle Forze Alleate, debitamente autorizzato a tale effetto: / E sono state accettate senza condizioni dal maresciallo Pietro Badoglio, capo del governo italiano, rappresentante il comando supremo delle forze italiane di terra, mare ed aria, e debitamente autorizzato a tale effetto dal governo italiano.

  1. (A) Le forze italiane di terra, mare, aria, ovunque si trovino, a questo scopo si arrendono.

(B) La partecipazione dell’Italia alla guerra in qualsiasi zona deve cessare immediatamente. Non vi sarà opposizione agli sbarchi, movimenti ed altre operazioni delle forze di terra, mare e aria delle Nazioni Unite. In conformità il comando supremo italiano ordinerà la cessazione immediata delle ostilità di qualunque genere contro le forze delle Nazioni Unite ed impartirà ordini alle autorità navali, militari e aeronautiche italiane in tutte le zone di guerra di emanare immediatamente le istruzioni opportune ai loro comandi subordinati.

(C) Inoltre il comando supremo italiano impartirà alle Forze navali, militari ed aeronautiche, nonché alle autorità ed ai funzionari ordini di desistere immediatamente dalla distruzione e dal danneggiamento di qualsiasi proprietà immobiliare o mobiliare, sia pubblica che privata.

  1. Il comando supremo italiano fornirà tutte le informazioni relative alla dislocazione ed alla situazione di tutte le forze armate italiane di terra, di mare ed aria, ovunque si trovino, e di tutte le forze degli alleati dell’Italia che si trovano in Italia od in territori occupati dall’Italia.
  2. Il comando supremo italiano prenderà tutte le precauzioni necessarie per salvaguardare gli aerodromi, le installazioni portuali e qualsiasi altro impianto contro cattura od attacco da parte di qualsiasi alleato dell’Italia. Il comando supremo italiano prenderà tutte le disposizioni necessarie per salvaguardare l’ordine pubblico e per usare le forze armate disponibili per assicurare la pronta e precisa esecuzione del presente atto e di tutti i suoi provvedimenti. Fatta eccezione per quell’impiego di truppe italiane agli scopi suddetti che potrà essere sanzionato dal comandante supremo delle forze alleate, tutte le altre forze italiane di terra, mare e aria rientreranno e rimarranno in caserma, negli accampamenti o sulle navi in attesa di istruzioni dalle Nazioni Unite per quanto riguarda il loro futuro stato e definitiva destinazione. In via eccezionale, il personale navale si trasferirà in quelle caserme navali che le Nazioni Unite indicheranno.
  3. Le forze italiane di terra mare ed aria, entro il termine che verrà stabilito dalle Nazioni Unite, si ritireranno da tutti i territori fuori dell’Italia che saranno notificati al governo italiano dalle Nazioni Unite e si trasferiranno in quelle zone che verranno indicate dalle Nazioni Unite. Questi movimenti delle forze di terra, mare e aria verranno eseguiti secondo le istruzioni che verranno impartite dalle Nazioni Unite e in conformità degli ordini che verranno da esse emanati. Nello stesso modo, tutti i funzionari italiani lasceranno le zone notificate eccetto coloro ai quali verrà dato il permesso di rimanere da parte delle Nazioni Unite. Coloro ai quali verrà concesso il permesso di rimanere si conformeranno alle istruzioni del comandante supremo delle forze alleate.
  4. Nessuna requisizione, appropriazione, od altre misure coercitive potranno essere effettuate dalle forze di terra, mare ed aria e da funzionari italiani nei confronti di persone o proprietà nelle zone specificate nel capoverso n. 4.
  5. La smobilitazione delle forze italiane di terra, mare ed aria in eccesso del numero che verrà notificato, dovrà seguire le norme stabilite dal comandante supremo delle forze alleate.
  6. Le navi da guerra italiane di tutte le categorie, ausiliarie e da trasporto saranno riunite, secondo gli ordini, nei porti che verranno indicati dal comandante supremo delle forze alleate, ed ogni decisione in merito a dette navi verrà presa dal comandante supremo delle forze alleate. (Annotazione. Se alla data dell’armistizio, l’intera flotta da guerra italiana sarà stata riunita nei porti alleati, questo articolo avrà il seguente tenore: «le navi da guerra italiane di tutte le categorie, ausiliarie e da trasporto rimarranno fino a ulteriori ordini nei porti dove sono attualmente radunate ed ogni decisione in merito ad esse verrà presa dal comandante supremo delle forze alleate»).
  7. Gli aeroplani italiani di qualsiasi genere non decolleranno dalla terra, dall’acqua o dalle navi senza previ ordini del comandante supremo delle forze alleate.
  8. Senza pregiudizio a quanto disposto dagli articoli 14, 15 e 28 (A) e (D) che seguono, a tutte le navi mercantili, da pesca ed altre navi battenti qualsiasi bandiera, a tutti gli aeroplani e ai mezzi di trasporto interno di qualunque nazionalità in territorio italiano o in territorio occupato dall’Italia od in acque italiane dovrà, in attesa di verifica della loro identità e posizione, essere impedito di partire.
  9. Il comando supremo italiano fornirà tutte le informazioni relative al mezzi navali, militari ed aerei, ad impianti e difese, ai trasporti e mezzi di comunicazione costruiti dall’Italia o dai suoi alleati nel territorio italiano o nelle vicinanze di esso, ai campi di mine od altre ostruzioni ai movimenti per via di terra, mare ed aria e qualsiasi altra informazione che le Nazioni Unite potranno richiedere in relazione all’uso delle basi italiane o alle operazioni, alla sicurezza o al benessere delle forze di terra, mare ed aria delle Nazioni Unite. Le forze e il materiale italiano verranno messi a disposizione delle Nazioni Unite, quando richiesto, per togliere le summenzionate ostruzioni.
  10. Il governo italiano fornirà subito gli elenchi indicanti i quantitativi di tutto il materiale da guerra con l’indicazione della località ove esso si trova. A meno che il comandante superiore delle forze alleate non decida di farne uso, il materiale da guerra verrà posto in magazzino sotto il controllo che egli potrà stabilire. La destinazione definitiva del materiale da guerra verrà decisa dalle Nazioni Unite.
  11. Non dovrà aver luogo alcuna distruzione nè danneggiamento, nè, fatta eccezione per quanto verrà autorizzato e disposto dalle Nazioni Unite, alcuno spostamento di materiale da guerra, radio, radio localizzazione, o stazione meteorologica, impianti ferroviari, stradali e portuali od altre installazioni od in via generale di servizi pubblici e privati e di proprietà di qualsiasi sorta ovunque si trovino, e la manutenzione necessaria e le riparazioni saranno a carico delle autorità italiane («will be the responsability of the italian authorities»).
  12. La fabbricazione, produzione e costruzione del materiale da guerra, la sua importazione, esportazione e transito, è proibita, fatta eccezione a quanto verrà disposto dalle Nazioni Unite. Il governo italiano si conformerà a quelle istruzioni che verranno impartite dalle Nazioni Unite per la fabbricazione, produzione e costruzione, e l'importazione, esportazione e transito di materiale da guerra.
  13. (A) Tutte le navi italiane mercantili, da pesca ed altre imbarcazioni, ovunque si trovino, nonché quelle costruite o completate durante il periodo di validità del presente atto saranno dalle competenti autorità italiane messe a disposizione, in buono stato di riparazione e di navigazione, in quei luoghi e per quegli scopi e periodi di tempo che le Nazioni Unite potranno prescrivere. Il trasferimento alla bandiera nemica o neutrale è proibito. Gli equipaggi rimarranno a bordo in attesa di ulteriori istruzioni riguardo al loro ulteriore impiego o licenziamento. Qualunque opzione esistente per il riacquisto o la restituzione o la ripresa in possesso di navi italiane o precedentemente italiane che erano state vendute od in altro modo trasferite o noleggiate durante la guerra verrà immediatamente esercitata e le condizioni sopra indicate verranno applicate a tutte le suddette navi e ai loro equipaggi.

(B) Tutti i trasporti interni italiani e tutti gli impianti portuali saranno tenuti a disposizione delle Nazioni Unite per gli usi che esse stabiliranno.

  1. Le navi mercantili, da pesca ed altre imbarcazioni delle Nazioni Unite, ovunque esse si trovino, in mano degli italiani (incluse, a tale scopo, quelle di qualsiasi paese che abbia rotto relazioni diplomatiche con l’Italia) a prescindere dal fatto se il titolo di proprietà sia già stato trasferito o meno in seguito a procedura del tribunale delle prede, verranno consegnate alle Nazioni Unite e verranno radunate nei porti che saranno indicati dalle Nazioni Unite le quali disporranno di esse come crederanno opportuno. Il governo italiano prenderà le disposizioni necessarie per il trasferimento del titolo di proprietà. Tutte le navi mercantili, da pesca od altre imbarcazioni neutrali gestite o controllate dagli italiani saranno radunate in modo simile in attesa di accordi (arrangements) per la loro sorte definitiva. Qualunque necessaria riparazione alle sopraindicate navi se richiesta sarà eseguita dal governo italiano a proprie spese. Il governo italiano prenderà tutte le misure necessarie per assicurarsi che le navi ed i loro carichi non saranno danneggiati.
  2. Nessun impianto di radio o di comunicazione a lunga distanza od altri mezzi di inter-comunicazione a terra o galleggianti, sotto controllo italiano, sia che appartenga all’Italia od altra Nazione non facente parte delle Nazioni Unite, potrà trasmettere finché disposizioni per il controllo di questi impianti non saranno state impartite dal comandante supremo delle forze alleate. Le autorità italiane si conformeranno alle disposizioni per il controllo e la censura della stampa e delle altre pubblicazioni, delle rappresentazioni teatrali e cinematografiche, della radiodiffusione e di qualsiasi altro mezzo di inter-comunicazione che potrà prescrivere il comandante supremo delle forze alleate. Il comandante supremo delle forze alleate potrà a sua discrezione rilevare stazioni radio, cavi od altri mezzi di comunicazione.
  3. Le navi da guerra, ausiliarie, di trasporto e mercantili e altre navi ed aeroplani al servizio delle Nazioni Unite avranno il diritto di usare liberamente le acque territoriali italiane e di sorvolare il territorio italiano.
  4. Le forze delle Nazioni Unite dovranno occupare certe zone del territorio italiano. I territori o le zone in questione verranno notificati di volta in volta dalle Nazioni Unite, e tutte le forze italiane di terra, mare ed aria, si ritireranno da questi territori o zone in conformità agli ordini emessi dal comandante supremo delle forze alleate. Le disposizioni di questo articolo non pregiudicano quelle dell’art. 4 sopradetto. Il comando supremo italiano garantirà agli alleati l’uso e l’accesso immediato agli aerodromi e ai porti navali in Italia sotto il suo controllo.
  5. Nei territori o zone cui si riferisce l’art. 18, tutte le installazioni navali, militari ed aeree, tutte le centrali elettriche, le raffinerie, i servizi pubblici, i porti, le installazioni per i trasporti e le comunicazioni, i mezzi ed il materiale e quegli impianti e mezzi e altri depositi che potranno essere richiesti dalle Nazioni Unite saranno messi a disposizione in buone condizioni dalle competenti autorità italiane con il personale necessario per il loro funzionamento. Il governo italiano metterà a disposizione quelle altre risorse o servizi locali che le Nazioni Unite riterranno richiedere.
  6. Senza pregiudizio alle disposizioni del presente atto, le Nazioni Unite eserciteranno tutti i diritti di una Potenza occupante nei territori e nelle zone di cui all’art. 18, per la cui amministrazione verrà provveduto mediante la pubblicazione di proclami, ordini e regolamenti. Il personale dei servizi amministrativi, giudiziari e pubblici italiani eseguirà le proprie funzioni sotto il controllo del comandante in capo alleato a meno che non venga stabilito altrimenti.
  7. In aggiunta ai diritti relativi ai territori italiani occupati descritti negli articoli dal numero 18 al 20:

(A) i componenti delle forze terrestri, navali ed aeree ed i funzionari delle Nazioni Unite avranno il diritto di passaggio nel territorio italiano non occupato o al di sopra di esso e verrà loro fornita ogni facilitazione e assistenza necessaria per eseguire le loro funzioni.

(B) le autorità italiane metteranno a disposizione, nel territorio italiano non occupato, tutte le facilitazioni per i trasporti (transport facilities) richieste dalle Nazioni Unite compreso il libero transito per il loro materiale ed i loro rifornimenti di guerra, ed eseguiranno le istruzioni emanate dal comandante in capo alleato relative all’uso ed al controllo degli aeroporti, porti, navigazione, sistemi e mezzi di trasporto terrestre, sistemi di comunicazione, centrali elettriche e servizi pubblici, raffinerie, materiali ed altri rifornimenti di carburante e di elettricità ed i mezzi per produrli, secondo quanto le Nazioni Unite potranno specificare, insieme alle relative facilitazioni per le riparazioni e costruzioni.

  1. Il governo e il popolo italiano si asterranno da ogni azione a danno degli interessi delle Nazioni Unite ed eseguiranno prontamente ed efficacemente tutti gli ordini delle Nazioni Unite.
  2. Il governo italiano metterà a disposizione la valuta italiana che le Nazioni Unite domanderanno. Il governo italiano ritirerà e riscatterà in valuta italiana entro i periodi di tempo e alle condizioni che le Nazioni Unite potranno indicare tutte le disponibilità in territorio italiano delle valute emesse dalle Nazioni Unite durante le operazioni militari o l’occupazione e consegnerà alle Nazioni Unite senza alcuna spesa la valuta ritirata. Il governo italiano prenderà quelle misure che potranno essere richieste dalle Nazioni Unite per il controllo delle banche e degli affari in territorio italiano, per il controllo dei cambi con l’estero, delle relazioni commerciali e finanziarie con l’estero e per il regolamento del commercio e della produzione ed eseguirà qualsiasi istruzione emessa dalle Nazioni Unite relativa a dette o a simili materie.
  3. Non vi dovranno essere relazioni finanziarie, commerciali e di altro carattere o trattative con o a favore di paesi in guerra con una delle Nazioni Unite o coi territori occupati da detti paesi o da qualsiasi altro paese straniero, salvo con autorizzazione del comandante in capo alleato o di funzionari designati.
  4. (A) Le relazioni con i paesi in guerra con una qualsiasi delle Nazioni Unite, od occupati da uno di detti paesi, saranno interrotte. I funzionari diplomatici, consolari ed altri funzionari italiani e i componenti delle forze terrestri, navali ed aeree italiane accreditati in missione presso qualsiasi di detti paesi o in qualsiasi altro territorio specificato dalle Nazioni Unite saranno richiamati. I funzionari diplomatici, consolari di detti paesi saranno trattati secondo quanto potrà essere disposto dalle Nazioni Unite.

(B) Le Nazioni Unite si riservano il diritto di richiedere il ritiro dei funzionari diplomatici e consolari neutrali dal territorio italiano occupato ed a prescrivere ed a stabilire i regolamenti relativi alla procedura circa i metodi di comunicazione fra il governo italiano e suoi rappresentanti nei Paesi neutrali e riguardo alle comunicazioni inviate da o destinate ai rappresentanti dei paesi neutrali in territorio italiano.

  1. In attesa di ulteriori ordini ai sudditi italiani sarà impedito di lasciare il territorio italiano eccetto con l’autorizzazione del comandante supremo delle forze alleate e in nessun caso essi presteranno servizio per conto di qualsiasi paese od in qualsiasi dei territori cui si riferisce l’art. 25 (A), né si recheranno in qualsiasi lungo con l’intenzione di intraprendere lavori per qualsiasi di tali paesi. Coloro che attualmente servono o lavorano in tal modo saranno richiamati secondo le disposizioni del comandante supremo delle forze alleate.
  2. Il personale e il materiale delle forze militari, navali ed aeree e la marina mercantile, le navi da pesca ed altre imbarcazioni, i velivoli, i veicoli, ed altri mezzi di trasporto di qualsiasi paese contro il quale una delle Nazioni Unite conduca le ostilità oppure sia occupato da tale paese, saranno passibili di attacco o cattura dovunque essi si trovino entro o sopra il territorio o le acque italiane.
  3. (A) Alle navi da guerra, ausiliarie e da trasporto di qualsiasi tale paese o territorio occupato cui si riferisce l’art. 27, che si trovino nei porti e nelle acque italiane od occupate dagli italiani, ed ai velivoli, ai veicoli ed ai mezzi di trasporto di tali paesi entro o sopra il territorio italiano od occupato dagli italiani sarà, nell’attesa di ulteriori istruzioni, impedito di partire.

(B) Al personale militare, navale ed aeronautico e alla popolazione civile di qualsiasi di tali paesi o territorio occupato che si trovi in territorio italiano od occupato dagli italiani sarà impedito di partire, ed essi saranno internati in attesa di ulteriori istruzioni.

(C) Qualsiasi proprietà in territorio italiano appartenente a qualsiasi paese o territorio occupato o ai suoi nazionali sarà sequestrata e tenuta in custodia in attesa di ulteriori istruzioni.

(D) Il governo italiano si conformerà a qualsiasi istruzione data dal comandante supremo delle forze alleate concernente l’internamento, custodia o susseguente disposizione, utilizzazione od impiego di qualsiasi delle sopradette persone, imbarcazioni, veicoli, materiale o proprietà.

  1. Benito Mussolini, i suoi principali associati fascisti e tutte le persone sospette di aver commesso delitti di guerra o reati analoghi, i cui nomi si trovino sugli elenchi che verranno comunicati dalle Nazioni Unite e che ora o in avvenire si trovino in territorio controllato dal comando militare alleato o dal governo italiano, saranno immediatamente arrestati e consegnati alle forze delle nazioni unite. Tutti gli ordini impartiti dalle Nazioni Unite a questo riguardo verranno osservati.
  2. Tutte le organizzazioni fasciste, compresi tutti i rami della milizia fascista (M.V.S.N.), la polizia segreta (O.V.R.A.) e le organizzazioni della gioventù fascista saranno, se questo non sia già stato fatto, sciolte in conformità alle disposizioni del comandante supremo delle forze alleate. Il governo italiano si conformerà a tutte le ulteriori direttive che le Nazioni Unite potranno dare per l’abolizione delle istituzioni fasciste, il licenziamento ed internamento del personale fascista, il controllo dei fondi fascisti, la soppressione della ideologia e dell’insegnamento fascista.
  3. Tutte le leggi italiane che implicano discriminazioni di razza, colore, fede od opinione politica saranno, se questo non sia già stato fatto, abrogate, e le persone detenute per tali ragioni saranno, secondo gli ordini delle Nazioni Unite, liberate e sciolte da qualsiasi impedimento legale a cui siano state sottomesse. Il governo italiano adempirà a tutte le ulteriori direttive che il comandante supremo delle forze alleate potrà dare per l’abrogazione della legislazione fascista e l’eliminazione di qualsiasi impedimento o proibizione risultante da essa.
  4. (A) I prigionieri di guerra appartenenti alle forze delle Nazioni Unite, o designati da questi e qualsiasi suddito delle Nazioni Unite, compresi i sudditi abissini, confinati, internati, o in qualsiasi altro modo detenuti in territorio italiano od occupato dagli italiani, non saranno trasferiti e saranno immediatamente consegnati ai rappresentanti delle Nazioni Unite o altrimenti trattati come sarà disposto dalle Nazioni Unite. Qualunque trasferimento durante il periodo tra la presentazione e la firma del presente atto sarà considerato come una violazione delle sue condizioni.

(B) Le persone di qualsiasi nazionalità che sono state poste sotto sorveglianza, detenute o condannate (incluse le condanne in contumacia) in conseguenza delle loro relazioni o simpatie colle Nazioni Unite, saranno rilasciate in conformità agli ordini delle Nazioni Unite e saranno sciolte da tutti gli impedimenti legali ai quali esse sono state sottomesse.

(C) Il governo italiano prenderà le misure che potranno essere prescritte dalle Nazioni Unite per proteggere le persone e le proprietà dei cittadini stranieri e le proprietà degli stati e dei cittadini stranieri.

  1. (A) Il governo italiano adempirà le istruzioni che le Nazioni Unite potranno impartire riguardo alla restituzione, consegna, servizi o pagamenti quale indennizzo («payments by reparation of war») e pagamento delle spese di occupazione durante il periodo (di validità) del presente atto.

(B) Il governo italiano consegnerà al comandante supremo delle forze alleate qualsiasi informazione che possa essere prescritta riguardo alle attività («assets») sia in territorio italiano sia fuori di esso, appartenenti allo Stato italiano, alla Banca d’Italia, a qualsiasi istituto statale o parastatale italiano od organizzazioni fasciste, o persone domiciliate («residents») in territorio italiano e non disporrà né permetterà di disporre di qualsiasi tale attività fuori del territorio italiano salvo col permesso delle Nazioni Unite.

  1. Il governo italiano eseguirà durante il periodo (di validità) del presente atto quelle misure di disarmamento, smobilitazione e smilitarizzazione che potranno essere prescritte dal comandante supremo delle forze alleate.
  2. Il governo italiano fornirà tutte le informazioni e provvederà tutti i documenti occorrenti alle Nazioni Unite. Sarà proibito distruggere o nascondere archivi, verbali, progetti o qualsiasi altro documento od informazione.
  3. Il governo italiano prenderà ed applicherà qualsiasi misura legislativa o di altro genere, che possa essere necessaria per l’esecuzione del presente atto. Le autorità militari e civili italiane si conformeranno a qualsiasi istruzione emanata dal comandante supremo delle forze alleate a tale scopo.
  4. Verrà nominata una Commissione di controllo che rappresenterà le Nazioni Unite, incaricata di regolare ed eseguire il presente atto in base agli ordini e alle direttive generali del comandante supremo delle forze alleate.
  5. (A) Il termine «Nazioni Unite» nel presente atto comprende il comandante supremo delle forze alleate, la commissione di controllo, e qualsiasi altra autorità che le Nazioni Unite possano nominare.

(B) Il termine «comandante supremo delle forze alleate» nel presente atto comprende la commissione di controllo e quegli altri ufficiali e rappresentanti che il comandante supremo delle forze alleate potrà nominare.

  1. Ogni riferimento alle forze terresti, navali ed aeree italiane nel presente atto s’intende includere la Milizia fascista e qualsiasi unità militare o para-militare, formazioni e corpi che potranno essere prescritti dal comandante supremo delle forze alleate.
  2. Il termine «materiali di guerra» nel presente atto indica tutto il materiale specificato in quegli elenchi o definizioni che potranno di tanto in tanto essere pubblicati dalla commissione di controllo.
  3. Il termine «territorio italiano» comprende tutte le colonie e possedimenti italiani e ai fini del presente atto (ma senza pregiudizio alla questione della sovranità) sarà considerato includere l’Albania. Resta tuttavia stabilito che eccetto nei casi e nella misura prescritta dalle Nazioni Unite, i provvedimenti del presente atto non saranno applicabili né riguarderanno l’amministrazione di qualsiasi colonia o possedimento italiano già occupato dalle Nazioni Unite, o i diritti o poteri colà posseduti o esercitati da esse.
  4. Il governo italiano invierà una delegazione al quartier generale della commissione di controllo per rappresentare gli interessi italiani e per trasmettere alle competenti autorità italiane gli ordini della commissione di controllo.
  5. Il presente atto entrerà in vigore immediatamente. Rimarrà in forza fino a che sarà sostituito da qualsiasi altro accordo o fino a che non entrerà in vigore il trattato di pace con l’Italia.
  6. Il presente atto può essere denunciato dalle Nazioni Unite, con effetto immediato, se gli obblighi italiani di cui al presente atto non saranno adempiuti o, altrimenti, le Nazioni Unite possono punire contravvenzioni dell’atto stesso con misure adatte alle circostanze, quali ad esempio l’estensione delle zone di occupazione militare, od azioni aeree, oppure altra azione punitiva. / Il presente Atto è redatto in inglese ed italiano, il testo inglese essendo quello autentico ed in caso, di qualsiasi disputa riguardante la sua interpretazione, la decisione della commissione di controllo prevarrà.

Firmato a Malta il giorno 29 settembre 1943. / Maresciallo Pietro Badoglio, Capo del governo italiano / Dwight D. Eisenhower, Generale dell’esercito degli Stati Uniti, / Comandante in capo alleato» (Emilio Canevari, Graziani mi ha detto, op. cit., pp. 330-340).

 

 

E la vergogna abbia inizio!

Come già scritto nella VI parte, in ottemperanza alla resa si stipula l’accordo affinché la flotta italiana continui a combattere, ma assieme agli angloamericani.

In un documento di Supermarina datato 8 settembre 1943 e indicato come «promemoria» si legge che tre anni di guerra hanno provato la Marina Italiana e seguono le proposte, più che le indicazioni, per la consegna delle navi sia da guerra sia mercantili.

Alla fine del testo principale, tra parentesi, ecco che cosa è stato scritto: «Non è inopportuno rilevare che la Flotta italiana costituirebbe un apporto di enorme importanza per la guerra nel Pacifico: basti osservare che gli Anglo-americani possiedono in tutto solo sei corazzate simili per grandezza, potenza e velocità alle nostre tre “Roma” e che queste navi in tanto valgono in quanto sono armate da chi le conosce a fondo, trattandosi di organismi estremamente complessi. È probabilmente per questo che nell’ultimo periodo esse sono state ostentatamente risparmiate. Ed è quindi su questo che bisogna ‘far leva. È certo che, se fossero costrette a condizioni umilianti, le navi, nonostante ogni ordine in contrario, si autoaffonderebbero» (Francesco Mattesini, La Marina e l’8 settembre. II Tomo: Documenti, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma 2002, pp. 258-259).

 

Ora non resta che andare a leggere il trattato firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.

 

 

Note.

 

Sulle imprese della Decima Flottiglia MAS si può consultare il sito dell’Associazione:

associazionedecimaflottigliamas.it

 

N.B.: I bolli a corredo provengono da: Archivio di Stato di Milano; Tribunale Militare per la Marina in Milano (Repubblica Sociale Italiana), Procedimenti archiviati. Autorizzazione alla pubblicazione. Registro: AS-MI. Numero di protocollo: 2976/28.13.11/1. Data protocollazione: 29/05/2018. Segnatura: MiBACT|AS-MI|29/05/2018|0002976-P.

 

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DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XXIX parte) – Gianluca Padovan

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«Gli storici e gli pseudostorici che tanto spesso, in questi più che quarant’anni, si sono occupati della Xa hanno costantemente trascurato questo aspetto. Forse, negando al reparto un’autentica carica rivoluzionaria, pensavano di poterlo più facilmente inquadrare entro gli schemi di maniera che le storie scritte dai vincitori riservano agli sconfitti»

Guido Bonvicini, Decima Marinai! Decima Comandante!, 1996

L’onore non è di casa… in quella “casa”!

È utile ricordare che una delle “caratteristiche” di casa Savoia, ben nota in ambito europeo, è di iniziare una guerra con un alleato per poi terminarla al fianco dell’ex avversario, tradendo così gli accordi e la fiducia dell’alleato iniziale. Nella Guerra dei Nove Anni (1688-1697), o Guerra della Lega di Augusta, anche ricordata come Guerra della Grande Alleanza, il Ducato di Savoia si schiera con la Lega di Augusta costituitasi in funzione antifrancese, ma nel 1696 Vittorio Amedeo II di Savoia firma il Trattato di Torino con la Francia, alleandosi con essa e mantenendo inizialmente segreto tale Trattato nei confronti degli ex alleati. Nella Guerra di Successione Spagnola (1701-1714) il Ducato di Savoia è inizialmente alleato a Francia e Spagna, ma nel frattempo avvia accordi segreti con l’Impero d’Austria-Ungheria per poi allearsi ad esso. La prima conseguenza del “cambio di campo” è l’arresto immediato dei soldati piemontesi di stanza in Lombardia: una parte di essi è incarcerata e l’altra inglobata più o meno forzatamente nell’esercito francese. Di contro, il Ducato di Savoia ottiene cospicui finanziamenti dall’Inghilterra per la conduzione della guerra contro la Francia e a conflitto ultimato, sempre grazie all’Inghilterra, Vittorio Amedeo II di Savoia è nominato Re di Sicilia, isola “barattata” poi con la Sardegna.

Scrive lapidariamente Antonio Ciano: «Il Piemonte servo dei voleri della massoneria, indirizza da sempre la politica italiana» (Antonio Ciano, I Savoia e il Massacro del Sud, Casa Editrice Grandmelò, Roma 1996, p. 49) (1).

Si può considerare che la cosiddetta “unità d’Italia” avvenga solo ed esclusivamente perché l’Inghilterra, ovvero chi in tale Stato detiene il potere economico derivato innanzitutto dal possesso della Banca d’Inghilterra, la quale è sempre stata una banca privata al pari di quella d’Italia, desidera avere il controllo sul Mediterraneo. Questo è il punto fondamentale da sviscerare se si vuole capire la “storia d’Italia” dalla metà dell’Ottocento ai giorni nostri. Come scrive Angelo Forgione: «La massoneria inglese aveva come priorità politica la cancellazione delle monarchie cattoliche e la cattolica Napoli era ormai invisa alla protestante e massonica Londra che mirava alla cancellazione del potere papale. I Borbone costituivano principale ostacolo a questo obiettivo che coincideva con quello dei Savoia, anch’essi massoni, di impossessarsi dei fruttuosi possedimenti della Chiesa per risollevare le proprie casse. Massoni erano i politici britannici Lord Palmerston, primo ministro britannico, e Lord Gladstone, gran denigratore dei Borbone. E massoni erano pure Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Cavour» (Sito Internet: napoli.com; Angelo Forgione, La vera storia della spedizione dei mille. Come e perché l’Inghilterra decise la fine delle Due Sicilie, 4 febbraio 2011; https://angeloxg1.wordpress.com/2011/02/04/la-vera-storia-della-spedizione-dei-mille-2/).

Inoltre, per quanto riguarda Garibaldi: «La carriera massonica di Garibaldi culminò col 33° gr. ricevuto a Torino nel 1862, la suprema carica di Gran Hierofante del Rito Egiziano del Menphis-Misraim nel 1881. Il Grande Oriente di Palermo gli conferì tuti i gradi dal 4° al 33° e a condurre il rito fu mandato Francesco Crispi accompagnato da altri cinque fra massoni» (Antonio Ciano, I Savoia e il Massacro del Sud, op. cit., p. 55). Giuseppe Mazzini, quasi superfluo doverlo dire, era anch’egli massone e di alto grado, in stretto contatto con Albert Pike, generale sudista esautorato dal comando per crimini di guerra e capo, almeno sulla carta, della massoneria statunitense.

Per non dover ripercorrere, seppure in breve, l’intero iter politico di Casa Savoia e del regno d’Italia (argomento che da solo meriterebbe un trattato), si ricorda in ultimo che l’Italia sigla il 20 maggio 1882 il patto difensivo con Germania e Austria-Ungheria entrando a far parte della Triplice Alleanza. Tale patto è rinnovato più volte a seguito di varie vicende politiche e militari nel 1887, 1896, 1908 e 1912. Nel 1914 l’Italia dichiara la propria neutralità, non essendo obbligata ad entrare in guerra accanto ai due stati alleati, ma intrattiene accordi segreti con Inghilterra e Francia. Nel 1915 si schiera con le forze dell’Intesa, dichiara guerra all’Austria-Ungheria e solo nel 1916 contro la Germania, pur essendosi scontrata con soldati tedeschi già nei primi giorni di guerra (3 giugno 1915, sbarramento di Son Pòuses; 8 giugno 1915, Ponte Alto – Cortina d’Ampezzo): “misteri” all’italiana, o meglio e più correttamente “alla sabauda”.

Non dimentichiamo che il regno d’Italia non entra in guerra nel 1939 accanto alla Germania a seguito dei “fatti di Danzica” provocati dalla Polonia, ma attende l’anno successivo per attaccare alle spalle, in senso lato e in senso stretto, una Francia già sconfitta. Inoltre, ancora una volta, non si rispetta il volere del Popolo Italiano, trascinandolo nell’ennesimo conflitto non voluto dalla stragrande maggioranza della gente. Innegabilmente si apre così alla guerra tutto il settore mediterraneo e africano.

Leggi “sabaudo-fasciste” a profusione.

Un’altra delle caratteristiche di casa Savoia, perfettamente appoggiata dal Partito Nazionale Fascista, è stata quella di consentire un proliferare di leggi assolutamente inusuale per un qualsiasi stato civile. Piaga che si è perpetuata abbondantemente anche nel dopoguerra, scomparsi “regno” e “fascismo”. Sembrerebbe quasi che all’adagio “fatta la legge trovato l’inganno” si sia posto rimedio per rendere sempre tutto perfettamente regolare…. ma a seconda di come la faccenda venisse guardata e considerata. In pratica fatta una legge bastava vararne almeno una seconda e in perfetta antitesi.

Un chiaro esempio sono la «‘Legge Falco’ del 30 X 1930» e le così dette “leggi razziali” promulgate a partire dal 1938.

«LEGGI E DECRETI / Numero di pubblicazione 61. / REGIO DECRETO 30 ottobre 1930, n. 1731. / Norme sulle Comunità israelitiche e sulla Unione delle Comunità medesime. // VITTORIO EMANUELE III / per grazia di dio e per volontà della nazione / RE D’ITALIA / Visto l’art. 3, n. 1, della legge 31 gennaio 1926, n. 100; / In virtù della facoltà a Noi delegate con l’art. 14 della legge 24 giugno 1929, n. 1159; / Udito il Consiglio dei Ministri; / Sulla proposta del Nostro Guardasigilli, Ministro Segretario di Stato per la giustizia e gli affari di culto, di concerto con i Ministri per l’interno e per le finanze; / abbiamo decretato e decretiamo: / TITOLO I. / Delle Comunità. / CAPO PRIMO. / Della costituzione delle Comunità. / Art. 1. / Le Comunità israelitiche sono corpi morali che provvedono al soddisfacimento dei bisogni religiosi degli israeliti secondo la legge e le tradizioni ebraiche. / Esse curano l’esercizio del culto, l’istruzione e l’educazione religiosa, promuovono la coltura ebraica, amministrano le istituzioni israelitiche con fini di assistenza e beneficenza e di qualsiasi altra natura, che non abbiano organi propri, esercitano la vigilanza su tutte quelle aventi una propria amministrazione e provvedono in genere alla tutela degli interessi locali degli israeliti. / [etc.]» (Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, Parte prima, Anno 72°, Giovedì 15 Gennaio 1931, Anno IX, Numero 11, Roma 1931. In: Leggi e Decreti, Numero di pubblicazione 61, Regio Decreto 30 ottobre 1930, n. 1731. Norme sulle Comunità israelitiche e sulla Unione delle Comunità medesime, pp. 194-200).

Gli Articoli del RDL 30-X-1930, n. 1731, sono in tutto 69 e così si concludono:

«Art. 69. / Sono abrogate tutte le disposizioni contrarie al presente decreto / Entro due anni dalla sua entrata in vigore le Comunità dovranno procedere alla riforma dei propri regolamenti per metterli in armonia con le disposizioni del presente decreto. / Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserito nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, mandando a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare. / Dato a San Rossore, addì 30 ottobre 1930 - Anno IX / VITTORIO EMANUELE. /MUSSOLINI – ROCCO – MOSCONI. / Visto, il Guardasigilli: ROCCO. / Registrato alla Corte dei conti, addì 8 gennaio 1931 - Anno IX / Atti del Governo, registro 304, foglio 17. – FERZI.» (Ibidem, p. 200).

A corredo del presente contributo vi sono due immagini con il citato Regio Decreto Legge completo.

Alcune norme aggiuntive andarono a definire altre nuove leggi, tutte ancora oggi in vigore: D. L. n° 1297, 24 settembre 1931; D. L. n° 1561, 19 novembre 1931. Esse parificano i cittadini italiani di fede Ebraica ai diritti dei cittadini di fede Cattolica.

Per quanto riguarda invece il ricordo, per così dire celebrativo, il sito Internet di Artemida Aste riporta una medaglia commemorativa in diritto/rovescio: «d / VITTORIO EMANVELE III RE / BENITO MVSSOLINI CAPO / DEL GOVERNO / LE COMVNITÀ EBRAICHE / D’ITALIA A RICORDO DELLA/ LEGGE 30 X 1930 IX. Sopra a sinistra, corona; in basso a destra, fascio. r / SENZA / LA LEGGE / CIELO / E TERRA / CROLLE / REBBERO. Candelabro a sette braccia sopra alle Tavole della Legge. In esergo, stella di David. Sotto, nome dell’incisore: ARRIGO MINERBI. Cas. IX. 4. AE. mm. 72.00 Inc. Arrigo Minerbi-Johnson. RRRR. Questa rarissima medaglia fu emessa dalle comunità israelitiche italiane per ringraziare il Governo Italiano per la promulgazione della ‘Legge Falco’ del 30 X 1930, mediante la quale veniva data libertà e dignità di culto alla Religione Ebraica. Tale Legge costituiva un’autentica innovazione nell’intera Europa. La rarità della medaglia è probabilmente dovuta all’incetta che ne fu fatta nel dopoguerra per cancellare una testimonianza imbarazzante» (https://www.deamoneta.com/auctions/view/148/785).

Tutto ciò premesso è solo per fare notare come gli anni del XX secolo e fino al termine del secondo conflitto mondiale (tanto per non spingersi oltre) siano stati caratterizzati da scelte spesso in conflitto una con l’altra e da posizioni politiche e sociali spesso non chiare e conseguentemente deleterie per il Cittadino che ovviamente non le comprendeva appieno o affatto. Ma esse erano utili a chi governava per fare sostanzialmente quello che la “richiesta di mercato” (o meglio “di loggia”) al momento suggeriva come più opportuna.

Poletti da New York… con furore.

Ecco una delle tante conseguenze della resa incondizionata: «A capo dell’amministrazione militare alleata della Sicilia occupata viene nominato il colonnello dell’OSS Charles Poletti – noto massone, vice governatore di New York ed avvocato delle famiglie italo-americane[278] – che, giunto sull’isola, fa arrestare centinaia di persone» (Solange Manfredi, Psyops. 70 anni di guerra psicologica in Italia, come ci hanno manipolato messi l’uno contro l’altro mandato in guerra terrorizzato per controllarci meglio, Solange Manfredi, 2014, p. 105).

Alla nota N. 278 di questo passo di Solange Manfredi possiamo utilmente leggere: «Sergio Flamigni, 2005, pg. 30: “Poletti diventerà poi governatore di Napoli, Roma e Milano e continuerà ad avvalersi della collaborazione di Damiano Lumia (nipote del capomafia dell’intera Sicilia Don Calogero Vizzini) e del gangster Vito Genovese (insieme al quale Poletti praticava il ‘mercato nero’ intercontinentale tramite la società newyorchese Import-Export che dirigeva)”» (Ivi).

Commissione antimafia.

Scrive Benito Li Vigni: «Secondo la Commissione antimafia, “una seconda forma di legittimazione, certamente meno necessitata della prima, venne dalla protezione che il governo alleato conferì, soprattutto nei primi tempi dopo lo sbarco, al movimento separatista, che era l’unica organizzazione antifascista organizzata in Sicilia, ma con stretti rapporti con la mafia”. Nella prima Commissione antimafia vennero depositati i frontespizi di due documenti del consolato americano a Palermo, in data 21 novembre 1944 e 27 novembre 1944, che avevano come oggetto il primo: “Riunione di capi della mafia con il generale Castellano e la formazione di gruppi per favorire l’autonomia” e il secondo: “Formazione di gruppi per favorire l’autonomia sotto la direzione della mafia”. “L’ufficio dei servizi strategici americani nel Confidential Appendix Report of conditions in liberated Italy n. 11, con data 11 gennaio 1944, segnalava che: “Si potrebbe dire addirittura la quasi totalità dei suoi aderenti del tutto separatista, provengono dalle seguenti categorie: 1) l’aristocrazia… 2) i grandi proprietari fondiari latifondisti, anche se di origine plebea 3) i capi massimi e intermedi della mafia 4) professionisti mediocri o politici che sarebbero altrimenti condannati all’oscurità in un Paese avanzato… La confluenza di settori della mafia nel movimento indipendentista rafforzò tanto i separatisti quanto i mafiosi…”» (Benito Li Vigni, Sicilia 1943. Sbarco Americano, Mafia e Italia segreta, Sovera Edizioni, Roma 2014, p. 13).

 

Trattato di “resa incondizionata”.

Il 10 febbraio 1947 è firmato a Parigi il Trattato di Pace, imposto all’Italia e sulla cui validità sarebbe opportuno condurre oggi ampie e circostanziate indagini: innanzitutto per mantenere la coscienza, come Italiani del XXI secolo, su cosa si sia stati costretti a concedere e per quanto esso incida negativamente sull’attuale vita sociale ed economica.

Non si dimentichi, ad esempio, la prima parte dell’Articolo 1: «I confini dell’Italia, salvo le modifiche indicate agli articoli 2, 3, 4, 11 e 12, rimarranno quelli in esistenza il 1° gennaio 1938». Peccato che dagli Articoli 2 al 14 si parli dei confini e dei possedimenti che devono essere ceduti, mentre in altri si trattano le questioni degli Esuli Italiani (Articoli 19 e 20), poi ancora i confini con la Jugoslavia (Articoli 21 e 22), la rinuncia ai possedimenti africani (Articolo 23), ecc. Inoltre 11 dei 17 Allegati al Trattato riguardano i confini e le questioni ad essi concernenti.

L’Articolo 71 dispone: «1. I prigionieri di guerra italiani saranno rimpatriati al più presto possibile, in conformità degli accordi conclusi tra ciascuna delle Potenze che detengono tali prigionieri e l’Italia». A questo proposito leggere utilmente il lavoro pubblicato su Ereticamente: Prigionieri!

Un passo per tutti: «Nel giugno del 1954 l’ex partigiano Edgardo Sogno aveva denunciato in una conferenza stampa proprio D’Onofrio, accusandolo di essere a capo di un’organizzazione spionistica che vedeva mobilitati i deputati del PCI nel fornire all’URSS notizie militari ed economiche relative alla difesa dello Stato italiano. Poche settimane dopo da un archivio del ministero dell’Industria sarebbero misteriosamente scomparsi importanti documenti militari» (Alessandro Frigerio, Reduci alla sbarra. 1949: il processo D’Onofrio e il ruolo del PCI nei lager sovietici, Mursia, Milano 2006).

Dove trovare il “trattato”?

Il Trattato è stato pubblicato anche in: Effepì, Diktat. Il vergognoso “Trattato di Pace” imposto all’Italia dagli Alleati (Parigi, 10 febbraio 1947), Effepì, Genova 2005.

Nella Prefazione si legge:

«Non passa anno (meglio, mese) senza che giornalisti, storici, politici tessano le lodi degli Americani, ci invitino a reverenti genuflessioni di fronte a chi, a prezzo anche della vita, ci ha liberato e citino, come scaturigine di ogni benessere, una sorta di panacea economica, il Piano Marshall» (Ibidem, p. 20) (2).

La Decima ha pagato.

Si ricordano quindi le sorti di un Soldato Italiano per tutti:

«La X ha pagato. Stefano Baccarini di Enrico, n. 9-9-1910 a Firenze, aveva comandato la corvetta “Tifone”, autoaffondata nella notte del 22-5-1943 sulla spiaggia di Korbus (Tunisia) dopo un tentativo di forzare il blocco navale ed aereo nemico, ormai caduta anche Tunisi. Rimpatriato con una nave ospedale, fu destinato al comando di un reparto del reggimento “San Marco”. Rimase al suo posto. Capitano di corvetta fu, con la X MAS, al comando della compagnia “Nazario Sauro”. Soldato di assoluta onestà, credette nel patto sottoscritto con il Comitato di liberazione di Pola; fu tratto in arresto, deportato a Cocevie, torturato con ferocia e legato con filo di ferro, imprigionato entro una cisterna per mesi e mesi, quasi impazzì, perdette i denti, i capelli, fu ridotto ad una larva umana. Il 1° novembre 1949 venne consegnato, alla frontiera, vicino a Trieste, a due agenti dei servizi segreti italiani… Dopo molte sofferenze, decedeva, prematuramente, a Firenze il 7 ottobre 1966» (Luigi Papo de Montona, L’Istria tradita. Storia e tragedia senza la parola fine, Vol. 1°, Unione degli Istriani Trieste, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 1999, pp. 50-51).

1954: “Memorandum d’intesa”.

Le “faccende” non hanno comunque termine con il “diktat-capestro” del 1947.

A Londra, il 5 ottobre 1954, la Repubblica di Francia, il Regno Unito di Gran Bretagna e d’Irlanda del Nord e gli Stati Uniti d’America firmano con la Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia e la Repubblica d’Italia il “Memorandum d’intesa”, in base al quale il “Territorio Libero di Trieste” è restituito all’Italia (3).

In pratica all’Italia è restituita la “Zona A”, mentre la “Zona B”, comunque aumentata di superficie, passa alla Jugoslavia.

Mediante i cosiddetti “Accordi di Osimo”, o più precisamente il “Trattato di Osimo” del 10 novembre del 1975, l’Italia rinuncia innanzitutto e definitivamente alla “Zona B”.

Il “Trattato tra la Repubblica Italiana e la Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia” recita all’Art. 7: «Alla data dell’entrata in vigore del presente Trattato, il Memorandum d’Intesa di Londra del 5 ottobre 1954 e i suoi allegati cessano di avere effetto nelle relazioni tra la Repubblica Italiana e la Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia. Ciascuna Parte ne darà comunicazione al Governo del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, al Governo degli Stati Uniti d’America ed al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, entro un termine di trenta giorni a partire dall’entrata in vigore del presente Trattato».

Il trattato è sottoscritto per il Governo della Repubblica Italiana da Mariano Rumor (Ministro degli Affari Esteri) e per il Governo della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia da Milos Minic (Vice Presidente del Consiglio federale e Segretario federale degli Affari Esteri della RSF di Jugoslavia).

Attenzione: «In Italia gli Accordi sono stati pubblicati nel testo ufficiale francese ed in una traduzione italiana dichiarata esplicitamente “non ufficiale” in quanto il testo facente fede è unicamente quello in lingua francese» (Manlio Udina, Gli Accordi di Osimo. Lineamenti introduttivi e testi annotati, Edizioni LINT, Trieste 1979, p. 85).

1955: la risposta a un volantino.

Nel corso del 1944 l’Ufficio Stampa e Propaganda della Decima Flottiglia M.A.S. s’incarica di redigere i testi dei volantini, di farli stampare e distribuire (vedere utilmente I parte e IV parte). Per quanto concerne la resa incondizionata e nello specifico il tradimento della Regia Marina con la consegna delle navi da guerra e mercantili italiane all’angloamericano, ecco il testo di un volantino di 16,2 x 22,9 cm, stampato a caratteri neri su fondo giallo paglierino:

«Una flotta ed una volontà La nostra flotta che, contro la volontà dei marinai italiani, fu consegnata con la frode al nemico nel tragico settembre, subisce ora un’altra atroce violenza. È noto il comunicato americano che riporta la decisione di consegnare parte delle nostre belle e potenti navi alla Russia ed il tentativo di costringere gli equipaggi, – quelli che ancora non erano stati sbarcati coi più speciosi pretesti ma in realtà perché erano “fidati” agli anglosassoni – a schierarsi coi russi per combattere contro la Patria. // Grande dolore per noi soprattutto per la sorte dei marinai traditi per la seconda volta e lasciati nelle mani del nemico che ne vuol fare, contro ogni loro sentimento, strumento del suo piano di egemonia e sopraffazione. // Lo stesso nemico però, per bocca del giornalista francese Pertinax, alla radio americana, ha avvertito il fermento dei marinai nelle navi che saranno consegnate ai bolscevichi ed ha detto: “non è impossibile però che molti ufficiali e marinai italiani si rifiutino di prestar servizio per i russi”. // Frase molto diplomatica, ed adattata alle sensibili orecchie angloamericane; ma a noi non sfugge il vero significato; il nemico ha cominciato a capire che gli italiani non sono quelli di Badoglio e che i marinai d’Italia gli daranno del filo da torcere. // Sotto le insegne della “X mas” e del battaglione “Barbarigo” i soldati del mare rinascono alla loro vera vita. I traditori hanno potuto disperdere la potenza dei mezzi, ma non sono riusciti ad annegare lo spirito e l’onore dell’Italia».

Tra le numerose navi da guerra cedute agli avversari a seguito della sconfitta e del conseguente “Trattato di Pace”, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, figura anche la corazzata Giulio Cesare ceduta all’Unione Sovietica. Si tratta di una nave da guerra della ex Regia Marina Militare Italiana, salpata da Pola il 9 settembre 1943 per consegnarsi a Malta agli angloamericani.

Nel dopoguerra, prima della cessione, su perentoria richiesta sovietica la corazzata viene posta in riparazione e manutenzione, inizialmente nel cantiere navale di Taranto e in seguito anche in altri, tra cui quello di Genova. Tra numerosi ex appartenenti alla Xa Flottiglia M.A.S. vi è fermento e si vuole sabotare le navi in partenza; ad alcuni di loro questo comporterà l’arresto e il processo. Scrive Luca Ribustini a proposito dell’ex Giulio Cesare:

«Sebastopoli, Crimea del Sud. Alle ore 18.00 del 28 ottobre 1955, la più grande corazzata della flotta sovietica entra lenta e maestosa nel porto. Dirige, come di consueto, alla boa n. 12 ma quella sera, inspiegabilmente, il Comandante della flotta Viceammiraglio Viktor Parchomenko riceve l’ordine di ormeggiare alla boa n. 3. Era il Novorossiysk, così lo ribattezzarono i russi dopo averlo preso in consegna dagli italiani che dovettero cederlo nel 1949 come risarcimento di guerra a seguito delle clausole imposte dal Trattato di Pace» (Luca Ribustini, Il mistero della corazzata russa. Fuoco fango e sangue, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2014, p. 13).

Poche ore dopo: «Improvvisamente, in piena notte, alle ore 1.31 e 29” una spaventosa esplosione squarcia lo scafo della nave a prua all’altezza della 42a paratia, provocando una colonna di fuoco, fango e sangue alta trenta metri. I principali sismografi delle stazioni della Crimea, a Simferopoli, Sebastopoli e Odessa, registrano un[a] scossa» (Ibidem, pp. 20-21).

Muoiono poco più di seicento uomini dell’equipaggio e se ne salvano poco meno di cinquanta. La versione ufficiale fornita dalla Commissione d’Inchiesta sovietica è che l’esplosine è dovuta a una mina magnetica tedesca RMH rimasta inattiva dalla Seconda Guerra Mondiale e «sfuggita alla bonifica» (Ibidem, p. 24). In realtà tale mina non avrebbe potuto causare un danno così grave e la tesi secondo cui sia stata sabotata da incursori italiani è decisamente plausibile; i documenti prodotti nella citata pubblicazione sono assai interessanti e meritano d’essere letti.

In pratica la Decima avrebbe scritto la parola “fine” sulla vicenda.

Note.

1) Sul sito Ereticamente si sono pubblicati:

PERCORSI INIZIATICI ALTERNATIVI. Parte prima: le due colonne.

PERCORSI INIZIATICI ALTERNATIVI. Parte seconda: 6 settembre 1666.

PERCORSI INIZIATICI ALTERNATIVI. Parte terza: la Stella d’Italia.

2) Il Comitato Scientifico del Centro Studi “Historia Italica” ha pubblicato il Trattato, così commentandolo nell’Introduzione: «Inauguriamo la terza collana delle Edizioni Historia Italica intitolata “Documenti” con la pubblicazione del testo integrale del Trattato di Pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947; più precisamente si tratta della copia originale registrata presso le Nazioni Unite il 15 marzo 1950. L’importanza del documento riveste ancora oggi un peso storico assoluto, anche alla luce delle evoluzioni geopolitiche che il continente europeo ha subito dal dopoguerra ad oggi. Nel dibattito politico di questi ultimi anni è sempre più al centro della discussione la primaria questione della “Sovranità Nazionale” riguardo ai destini dell’Italia. Appare chiaro che con il termine Sovranità Nazionale si intende un concetto molto ampio che oltre ad aspetti economici e culturali, si estrinseca in gran parte nelle questioni militari ed in quelle geografico-amministrative. Non è nostra intenzione in questa sede entrare in diatribe politiche spesso sterili ed ideologicamente ridondanti ma ci teniamo a ribadire che taluni frangenti attuali sono frutto degli effetti del documento che andiamo a proporre. Infatti non scandalizziamo nessuno affermando che i servizi segreti statunitensi rivestono da sempre un’importanza vitale nel saper condizionare le scelte politiche dei governanti di turno, e l’egemonia atlantica sui nostri territori è anche il risultato della firma dello sciagurato Trattato di Pace. I politici italiani (con rare eccezioni) hanno sempre accettato questa situazione di sudditanza appagati dai privilegi di cui hanno potuto godere con la protezione e la tolleranza degli “Alleati”. Tutto questo ha un preciso punto di origine storico, cioè una data d’inizio che è divenuta poi anche tipologia di riferimento giuridico-istituzionale, come tutti quei fenomeni che caratterizzano la vita sociale dei popoli e delle nazioni. La storia di questa “repubblica”, l’atto di nascita formale, ha origine dall’Assemblea Costituente eletta il 2 giugno 1946. Tutto regolare secondo i principi giuridici del diritto costituzionale riconosciuto anche a livello internazionale? Non proprio. L’Assemblea Costituente eletta il 2 giugno 1946 non si poteva definire propriamente “legale” perché le elezioni vennero indette in regime di occupazione militare e quindi solo con il permesso e il controllo degli Alleati che, in base alla sottoscrizione dell’“armistizio lungo” avevano ancora pieno potere giurisdizionale sul territorio italiano. La nostra asserzione non è frutto di un ragionamento ideologico, ma è stata confermata da illustri giuristi costituzionali italiani e stranieri oltre che dallo stesso onorevole Andreotti che sul quotidiano “Il Tempo” del 14 aprile 2003, richiesto di un parere nel merito, non potè che confermare questa illegalità sostanziale. Da questo “equivoco” iniziale, da questa verità nascosta, da questa illegittimità sostanziale nascono tutti le successive ambiguità ed i compromessi che hanno attraversato e stanno attraversando la vita politica italiana da ormai 70 anni. La seconda anomalia legale è invece rappresentata proprio dal Trattato di Pace del 1947. Anche qui parliamo di chiare violazioni in quanto la ratifica del Trattato fu resa esecutiva con la delibera parlamentare dell’Assemblea Costituente eletta proprio in quelle condizioni di occupazione che abbiamo prima spiegato: voti favorevoli 262, 68 contrari, 80 astenuti. Interventi decisamente critici e contrari alla ratifica furono quelli di conclamati antifascisti di vecchia data quali: Vittorio Emanuele Orlando, Benedetto Croce, Ivanoe Bonomi e Francesco Saverio Nitti che misero in evidenza – rivolgendosi direttamente a De Gasperi (che fu il più accanito sostenitore della ratifica insieme al Ministro degli Esteri Sforza) nella sua qualità di presidente del consiglio dei ministri pro-tempore – la “cupidigia di servilismo” che lo animava e che avrebbe comportato una rinuncia permanente alla sovranità nazionale. Nel merito vogliamo anche ricordare alcuni particolari che in sede storica sono emblematici del clima precario in cui si svolsero avvenimenti di così grande valore e portata per il futuro della Nazione. La sera del 10 febbraio 1947 il Marchese di Soragna (reintegrato nei ruoli del Ministero degli Esteri grazie all’anzianità pregressa e, quindi, ritrovandosi “per caso” nella curiosa posizione giuridica di essere il più anziano), delegato dal Ministro degli Esteri Sforza, firmò il Trattato in nome e per conto del popolo italiano. Non disponendo ancora del Sigillo di Stato della Repubblica Italiana che ancora non esisteva, e allo scopo di dare autenticità alla firma, contrassegnò il documento con il proprio anello dotato dello stemma di famiglia di marchese e dichiarò che la propria firma doveva ritenersi valida secondo il diritto internazionale solo se l’Assemblea Costituente avesse ratificato il Trattato stesso. Altra curiosità storica particolarmente importante consiste nell’evidenziare che le credenziali con le quali la Repubblica Italiana lo accreditava come plenipotenziario per la firma del Trattato, erano riportate su carta pergamena che, per trasmettere valore autentico, mostrava l’apposizione del sigillo ufficiale dello Stato monarchico comprensivo di corona, scudo sabaudo e fasci littori. In questa sede ci preme anche sottolineare che il trattato è formalmente un atto di natura unilaterale imposto all’Italia, accettato dal governo e ratificato dall’Assemblea Costituente, in cui l’Italia (e non il Regime Fascista, come storicamente sarebbe stato più ovvio) riconosce “il principio di avere intrapreso una guerra di aggressione e pertanto le clausole hanno carattere punitivo, prevedono pesanti mutilazioni del territorio nazionale, rinuncia alle colonie, limitazioni della sovranità nazionale, divieti di armamento anche solo difensivo e altre restrizioni di cui ancora oggi risentiamo le conseguenze”; tale dicitura rafforza l’asserzione che con il Trattato si volesse volutamente punire la Nazione Italiana, non solo per gli eventi bellici pregressi, ma già condizionarne a livello geopolitico i destini futuri. Altre “anomalie” da evidenziare sono due articoli che rivestono una particolarità simbolica che legittima la tesi pregiudiziale di un “trattato capestro”. L’articolo 16, quello che impedisce all’Italia la punizione dei traditori in guerra ed a seguire l’articolo 17 che è stato riportato in Costituzione nella XII disposizione transitoria, norma che annulla nei suoi principi fondamentali il concetto “originario” della democrazia e che ha impedito ed impedisce la pacificazione tra gli italiani. A voler accodarsi a Benedetto Croce o perfino ad un Curzio Malaparte che ne “La Peste” ha affermato: “È certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra tutti son buoni, non tutti son capaci di perderla”, crescono tutti i risentimenti patriottici per la ratifica di un Trattato che ha svenduto la Patria e l’Onore. Una classe politica che ha trovato comodo accodarsi al carro del vincitore credendo così di poter trasformare la sconfitta militare in una “vittoria” ma che, viste le durissime condizioni imposte dai vincitori, ha pagato doppiamente l’onta patriottica dell’8 settembre, causando alla Nazione non solo pesanti rinunce territoriali ma, soprattutto, facendogli subire l’umiliazione morale di un articolo 16 che protegge i traditori, all’interno di un documento passato alla storia come “trattato di pace” ma che ha di fatto trascinato il paese Italia fuori dalla storia» (tratto dal sito Internet: historiaitalica.wordpress.com).

3) Il “Memorandum d’intesa” fa riferimento al Trattato di Pace del 1947, Allegato VII, il cui titolo è: «Strumento per il regime provvisorio del Territorio Libero di Trieste (vedi Articolo 21)».

Sulle imprese della Decima Flottiglia MAS si può consultare il sito dell’Associazione:

associazionedecimaflottigliamas.it

Il disegno e le quattro foto d’epoca sono tratti da fascicoli di: Caporilli Pietro, Novaro Enrico, Drago Silvio, 7 anni di guerra. Fotostoria del secondo conflitto mondiale visto dalle due parti in lotta, Ardita, Roma 1955-1958.

N.B.: I bolli a corredo provengono da: Archivio di Stato di Milano; Tribunale Militare per la Marina in Milano (Repubblica Sociale Italiana), Procedimenti archiviati. Autorizzazione alla pubblicazione. Registro: AS-MI. Numero di protocollo: 2976/28.13.11/1. Data protocollazione: 29/05/2018. Segnatura: MiBACT|AS-MI|29/05/2018|0002976-P.

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DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XXX parte) – Gianluca Padovan

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«Ben presto, da Spezia dapprima, e poi da tutta Italia, affluirono attorno a questa Bandiera Italiana – forse l’unica rimasta a riva dopo l’armistizio – dapprima centinaia, e poi migliaia e migliaia di giovani, tutti volontari per riprendere le armi e continuare il combattimento al grido: “Per l’onore d’Italia”»

Junio Valerio Borghese, La Xa Flottiglia MAS, Effepi, 2016

 

“Per l’onore d’Italia”.

Ventinove “piccole puntate” sull’epopea della Decima MAS è poca cosa a confronto di quanto meriti la Storia di questo Esercito Italiano composto di soli Volontari, uomini e donne.

In questa trentesima e conclusiva parte si cercherà di “tirare qualche somma”, ma soprattutto di ricordare coloro i quali la “storia italiana” ha già posto nel dimenticatoio.

Ma procediamo con calma.

Nel primo contributo sulla Decima s’è posta una domanda: «per quale motivo costoro hanno ritenuto di dover proseguire la guerra?», sottintendendo a partire dal giorno 9 settembre 1943.

Perché è arreso e vilipeso solo chi depone le armi con ignominia.

Ma al di là delle tante altre risposte che si potrebbero dare, io credo, una cosa ha giocato un ruolo determinante: l’essere consci che l’onore va sempre comunque tenuto alto e se cedimenti vi sono è bene riscattarlo. A qualsiasi prezzo. Perché la Storia, quella vera, non dimentica. Mai.

E quell’Onore la Decima Flottiglia M.A.S., ovvero questo Esercito Italiano composto di soli Volontari e Volontarie, l’ha riscattato.

Altrettanto certamente ci sono stati e ancora vi sono i detrattori, ma si tratta di “malanni” presenti in ogni tempo ed epoca, come la grandine.

E già il Comandante Borghese lo scriveva: «Nella canea imperante di insulti, di ingiurie, di calunnie di cui oggi gli italiani di ogni parte e partito si gratificano vicendevolmente, o di cui la Xa, col suo Comandante, riscuote la sua parte, si ritiene doveroso portare una nota coscienziosa e meditativa, esponendo con serietà, obiettività e lealtà l’operato della Xa – espressione dei sani intendimenti dei suoi oltre 20 mila volontari, per i quali ideali oltre duemila hanno dato la vita» (Junio Valerio Borghese, La Xa Flottiglia MAS, Effepi, Genova 2016, p. 11).

L’ambito di gioco.

La “storia ufficiale” è indubbiamente uno strumento tanto di conoscenza quanto di controllo delle masse, quindi una sorta di “persuasione occulta” dal momento che nelle scuole, negli istituti, nei licei e nelle università gli studenti “assumono” il medesimo programma ministeriale mediante i testi d’apprendimento appositamente composti e confezionati. La “pressione storica” viene esercitata ad ampio raggio dai così detti “organi d’informazione” i quali diffondono capillarmente sul territorio nazionale. E tale sistema non si faccia l’errore d’inquadrarlo nei soli e così detti “sistemi totalitari” (1).

Oggi, per quanto l’informazione sia controllata ad ogni livello, si ha la possibilità, con un minimo d’impegno, di farsi una propria opinione su taluni fatti storici triti e ritriti, ma riportati in modo falso e tendenzioso.

Vediamo ora, seppure per sommi capi, quali siano stati i prodromi del clima in cui il Comandante Borghese e la Xa Flottiglia M.A.S. si sono trovati ad operare.

La Storia d’Italia in breve forma.

Siamo a metà del XIX secolo. Il “super-massone” Napoleone Bonaparte ha già tradito un bel po’ di logge cercando di fare l’imperatore di mezza Europa, ma gli è andata male. O, meglio, ha erroneamente scritto i propri conti. Altro che “beniamino” della Francia e “liberatore” dell’Italia!

L’Inghilterra, da parte sua, continua a voler essere la padrona del Mediterraneo. Con la Francia fuori gioco, l’Austria che sta in cima all’Adriatico, ecco che la Loggia inglese, proprietaria della privatissima Banca d’Inghilterra, paga i massoni Savoia e a loro fa togliere di mezzo il florido Regno delle Due Sicilie. Florido sì, ma militarmente mal comandato e con ufficiali che afferiscono solo alle logge di fondazione inglese. Poi comanda ai Savoia: state al nostro servizio, tenetevi l’Italia, ma che sia male difesa e con un esercito adeguato alle sole repressioni popolari; l’importante è che si faccia sempre l’ordinato “gioco” (2). Così è ancora oggi, ma ben peggio di ieri.

E il XIX secolo termina con la “rivolta del pane” del 1898, con le cinque giornate di repressione milanese dove Fiorenzo Bava Beccaris fa sparare cannonate a colpo singolo e a mitraglia sulla gente; col nuovo secolo appoggerà Mussolini in Parlamento.

Sulla guerra di conquista del Corno d’Africa s’è già scritto su Ereticamente (3), quindi si passa alla guerra contro la Turchia (1911-1912), ricordata come “guerra di Libia”. Già, ulteriore passo per sgomberare il Mediterraneo su ordine della massoneria inglese, per quanto anche lo Stato della Chiesa, sempre pronto a farsi gli interessi d’altri e non quelli dei fedeli, ci abbia messo del proprio. Ma si sa, quelli erano “infedeli”. Come dimenticare che almeno fino alla metà del XVIII secolo le scorrerie turchesche erano la piaga delle coste italiane?

Prima Guerra Mondiale: quel che interessa ricordare è che Benito Mussolini, massone, prende i soldi innanzitutto dal banchiere polacco ebraico Giuseppe Leopold Toeplitz (4) per cambiare bandiera e giornale nonché fondare il Fascio d’Azione Rivoluzionaria Interventista. Da antimilitarista diviene quindi “guerriero” che vede il fronte con il telescopio: potere del denaro! I “capipopolo” di spicco, tutti massoni, fanno sentire la propria voce all’Arena Civica di Milano: Alceste De Ambris, Gino Luzzatto e Benito Mussolini. La guerra arricchisce le banche e gli industriali, ma ammazza, sconvolge e affama il Popolo Italiano (5). Nei libri di “storia italiana” si parla dei più di cinquecentomila civili italiani morti a causa della guerra? No!

Chi ricorda invece i centomila soldati italiani morti in prigionia e il fatto che i Savoia impedirono di rifornirli di generi di sussistenza anche attraverso la Croce Rossa fino ai primi mesi del 1918? Il re e il suo stato maggiore li consideravano disertori e al loro rientro in patria intentarono contro ognuno di loro il processo (leggere utilmente e scaricabile dal web: Attilio Loyola, La prigionia degli italiani in Austria, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1918).

Il Soldato Italiano venne vilipeso verbalmente dal proprio stato maggiore, soprattutto a seguito dello sfondamento di Plezzo-Caporetto, ma il principale responsabile è invece il generale Pietro Badoglio, in quel momento “ricoverato” in retrovia, a Kosi (6). Tutto lo stato maggiore sabaudo subisce comunque il contraccolpo dello sfondamento tranne, assai curiosamente, Badoglio: il solo a fare carriera e in modo sfolgorante.

Il fascio massone di “combattimento”.

A fine guerra, se vi fosse stato un capo degno, il Popolo avrebbe portato a termine una bella rivolta togliendo di mezzo i Savoia (come scordare quasi mezzo milione d’invalidi di guerra?). E questo senza cadere nelle fauci del comunismo sovietico, generatosi nel bund ebraico dell’est.

Ma a fare i “capipopolo” c’erano i massoni Gabriele D’Annunzio e Benito Mussolini, più pochi altri “compagni”.

A questo proposito mai si dimentichi che Mussolini è stato amico di Vladimir Il’ic Ulianov (alias Lenin), massone anch’egli (7), unendosi prima con la Balabanov e poi con la Sarfatti e sposandosi, per soprammercato, con la Ida Dalser e da cui ha avuto un figlio: Albino Mussolini, fatto miseramente morire nel manicomio di Mombello.

Terminato il disastroso conflitto-genocidio, il 21 marzo 1919 si fonda il Fascio di Combattimento di Milano nei locali dell’Associazione Commercianti ed Esercenti, a Piazza San Sepolcro. Un paio di giorni più tardi, il 23 marzo, l’adunata del neonato movimento non si svolge al Teatro Dal Verme, ma nella sala riunioni del Circolo dell’Alleanza Industriale, sempre in Piazza San Sepolcro, messa a disposizione da Cesare Goldmann (8): molti sono massoni.

Il “fascismo” tra alti e bassi e rispetto al governo savoiardo parecchie cose sensate e utili le ha fatte, ma mi verrebbe da pensare: “un po’ come quasi tutti i governi… tranne quelli dei Savoia”. Troppo ignoranti per fare qualche cosa di diverso dallo spremere il cittadino e basta.

Qualcheduno ha detto che Mussolini va ricordato per via della “Legge Falco” (di cui s’è parlato nella XXIX parte), qualcun altro ha detto che va ricordato per le “leggi razziali”. Io lo ricordo perché ha trascinato il Popolo Italiano in due guerre mondiali.

Certo, mica c’era solo lui, ma lui per primo poteva opporsi, andarsene, denunciare i fatti e comunque appellarsi al carisma proprio, affinché il Popolo non fosse la solita ed usuale carne da macello manovrata dagli stranieri.

Costui ha cavalcato il successo e innegabilmente ad una certa parte della massoneria ha fatto sempre comodo. Innanzitutto il varo della “legge contro le sette” calzava a pennello: i quattro quinti (almeno) del Gran Consiglio del Fascismo erano massoni e sempre massoni erano i personaggi di spicco tanto del fascismo quanto del comunismo. Così una parte poté bastonare l’altra, impunemente, “all’italiana”, approfittandosi del varo d’una legge e al contempo ignorandola. Ma non calcò mai la mano: difatti erano pur sempre “fratelli” e “compagni” tra loro. Ma la cortesia non è stata resa dai “sinistri” a fine guerra.

La Repubblica Sociale Italiana è stato un bell’esempio di Repubblica, peccato che fosse diretta anche da massoni, da traditori, da gente che doveva ancora una volta addensare la protesta popolare per meglio controllarla e farla naufragare. Difatti in piena crisi bellica la mossa del direttivo R.S.I. è stata di arrestare l’unica persona che stava combattendo contro gli invasori angloamericani e con un qual certo successo: Junio Valerio Borghese.

A proposito, generalmente si passa sotto silenzio che Mussolini e il suo entourage, sorvegliatissimo dai soldati tedeschi, dimora a Gargnano, sul Lago di Garda, a Villa Feltrinelli. Gli uffici li hanno sempre a Gargnano, a Palazzo Feltrinelli. Nel corso della guerra le aree gardesane vengono bombardate dagli angloamericani tranne, guarda caso, Gargnano. E poi, finiamola di chiamarla “Repubblica di Salò”, visto che il “direttivo” risiedeva tutto a Gargnano.

Per il conseguente dopoguerra il Popolo doveva solo rimanere “becco” e diviso, come da programma, nonché ignorante e mal diretto. Doveva vedere i propri figli scannarsi in piazza sotto tre bandiere disegnate e cucite dai veri nemici del Popolo.

Questo è sostanzialmente il quadro in cui si è trovata ad operare la Xa Flottiglia M.A.S.

La resa dei conti.

In tanti accusano, ancora adesso, Borghese di doppiogiochismo, d’essere stato al servizio della “marina del sud”, degli inglesi, degli americani, che ha venduto ad Angleton qualcosa… ma che cosa di preciso non si sa (9). Forse.

Borghese e la Decima hanno cercato, sempre e in ogni caso, di salvare l’Onore dell’Italia, combattere contro l’invasore, non scatenare la guerra civile fratricida, preservare la popolazione civile, cercare di salvare le fabbriche, indispensabili nella ricostruzione postbellica. Ma soprattutto salvare il Popolo e le terre dell’est dall’invasione delle truppe comuniste titine. E questo andando contro le disposizioni tanto della R.S.I. quanto dell’alleato germanico.

Borghese e i suoi ufficiali si sono preoccupati di salvare i propri uomini dalle rappresaglie di fine guerra.

Mussolini e i gerarchi che lo hanno seguito nella fuga si sono preoccupati solo ed esclusivamente di loro stessi.

Borghese si è arreso, indossando la propria divisa.

Mussolini è scappato con l’amante in una mano, la valigia nell’altra e con addosso la divisa tedesca, per camuffarsi.

Il resto lo si valuti serenamente e, una volta tanto, senza il fazzoletto nero, o giallo-nero, o rosso, oppure rosa, o bianco e sporco di muco, in tasca.

Volete sapere che cos’ha fatto la Xa Flottiglia M.A.S.?

Leggete i libri di quelli che vi hanno fatto parte: Borghese, Buttazzoni, Nesi, Bonvicini, Pasca Piredda…

Le loro pagine potranno anche essere considerate da taluni, ovvero di soliti detrattori, delle “storie di parte”, ma sono i resoconti di chi s’è effettivamente battuto e a viso aperto. Sono senza dubbio resoconti veritieri, a differenza di quanti hanno scritto a posteriori e magari senza avere nemmeno consultato un solo documento d’epoca.

La “storia ufficiale” non spiega che l’armistizio è stata una resa incondizionata e i trattati li subiamo a caro prezzo ancora oggi; non si dice che prima l’Inghilterra e poi l’America sono semplicemente venuti a riscuotere. Non spiega perché la faccenda bellica non s’è conclusa.

Attenzione: 114 sono le basi americane militari operative sul suolo italiano, il quale è da tali invasori utilizzato per lo stoccaggio di armi nucleari.

Noi, di fatto, siamo un popolo occupato da più di settant’anni e che oggi deve scomparire, soppiantato dagli stranieri che vengono qui scaricati a carrettate: il nuovo esercito che domani ci darà la caccia casa per casa.

Ma molti di costoro sono anche i nuovi “fedeli” che già occupano le panche delle chiese da voi disertate. Lo Stato Vaticano non può permettersi la crisi economica solo perché voi non continuate a sostenerlo con oboli e donazioni.

«Argomenti di mare».

Tanto per farsi i classici “due conti” sulla Regia Marina, ecco una voce che proviene dal passato, ovvero il trafiletto d’un giornale d’epoca che riporta i pensieri del sommergibilista e grande inventore subacqueo Angelo Belloni (10):

«ARGOMENTI DI MARE / I tre tradimenti della Marina regia / Merita di essere segnalato per la sua particolare importanza l’articolo comparso sotto questo titolo in Pomeriggio a firma di Angelo Belloni, per la impressionante e precisa documentazione di fatti connessi al tradimento continuo e metodico perpetrato dalla Marina regia negli anni che precedettero il conflitto e anche in piena guerra ai danni del Paese. Angelo Belloni sostiene con calore che è urgente segnalare e condannare pubblicamente quei fatti storici che si sono svolti in segreto perché altrimenti se ne perderebbe la documentazione, e chi come lui stesso ne è stato testimone ha il dovere di denunziarli, fornendone alla Repubblica la narrazione particolareggiata. I tre tradimenti della Marina regia sono: I) Il sabotaggio dei mezzi d’assalto, ossia la voluta limitazione dello sfruttamento strategico delle loro imprese da parte della flotta; II) La consegna della flotta al nemico dopo l’8 settembre; III) (In preparazione) Le azioni di guerra contro il Giappone, nostro alleato. Limitandosi a parlare della prima infamia, che più direttamente lo concerne, Angelo Belloni racconta con malcelato sdegno e amarezza come tutti i suoi tentativi e le sue pressioni al Ministero per ottenere un più deciso e audace impiego dei mezzi d’assalto da lui ideati, proposti, costruiti sperimentati e preparati in guerra, e uno sfruttamento strategico del successo da parte della nostra flotta ancora intatta fossero stati sabotati e resi infruttuosi dalla politica di resistenza passiva adottata dagli uomini che a Supermarina avevano in mano le leve del comando. Il Belloni era convinto che, poiché la flotta inglese era enormemente superiore alla nostra, bisognava attaccarla con mezzi d’assalto speciali, contemporaneamente in tutti i porti del Mediterraneo, la prima notte di guerra per ridurre al minimo le differenze di potenziale navale; poi, nei giorni successivi attaccare con tutta la flotta al completo la flotta nemica e fare piazza pulita, tenendo pronto un grosso corpo da sbarcare a Porto Said, chiave della potenza inglese. Con questa idea strategica in testa il Belloni inizia le prime esperienze e il primo tentativo coi suoi mezzi d’assalto nel gennaio del 1914. Nel 1935, quando per le sanzioni ci trovammo di fronte agli Inglesi, Angelo Belloni corre al Ministero e ripropone la ripresa di quelle esperienze e la creazione di una Scuola di Sommozzatori, cioè dei palombari autonomi, indispensabili per l’impiego dei mezzi d’assalto subacquei. Poiché l’allora Ministro della Marina Cavagnari tergiversava, il Belloni si rivolse al Duce. Così si iniziarono gli esperimenti a Porto Santo Stefano ma nel 1937 tutto fu sospeso. Perché? Intanto, anche per la Scuola Sommozzatori, non si era fatto ufficialmente nulla (a spese di un mecenate, Carlo Frua de Angeli, il Belloni aveva armato una goletta facendo una campagna di pesca dei coralli all’Argentario e istruendo così i primi sommozzatori). Nel settembre ’39, durante il periodo della “non belligeranza” il Belloni torna alla carica affannosamente, sempre più convinto della sua idea, armato solo contro la generale indifferenza, del suo grande amor di Patria. Finalmente quando già la guerra era iniziata, per intervento di De Courten, Cavagnari si decise a creare la Scuola dei Sommozzatori. Un po’ tardi, quando già l’occasione della prima sorpresa era già passata… E qui cominciò l’infamia: invece di preparare il numero necessario di mezzi sopracquei e subacquei, di sommozzatori e di aerosiluranti per una azione totalitaria in una sola notte, si cominciò con le piccole azioni isolate, non seguite da azioni di massa di tutta la nostra flotta. De Courten, spiegava al Belloni, furioso di questo modo di procedere, che così era necessario fare fino a quando non ci si fosse persuasi dell’efficacia del sistema e della capacità degli uomini della Decima, a cui erano stati affidati tutti i mezzi d’assalto. Così avvenne quello che il Belloni prevedeva: gli Inglesi se ne accorsero, ed escogitarono contromisure, e la flotta, quella flotta che sola avrebbe potuto, dopo un attacco totalitario di mezzi d’assalto raccogliere il frutto strategico, si era assottigliata. Venne finalmente l’ultima prova: ad Alessandria i nostri mezzi d’assalto, comandati da Borghese, affondano le corazzate inglesi “Queen Elisabeth” e “Valiant”. Questo è il momento di arrischiare tutto per tutto. Ma nulla si fece. La nostra flotta rimase, cauta, nei porti, mentre avrebbe potuto attaccare allora la flotta inglese decimata e avvilita dal colpo di Alessandria. Questi i fatti emozionanti e tragici che il Belloni racconta. Ma dietro questi fatti egli vide, e ne fa ora testimonianza rovente, il tradimento che serpeggiava e si annidava nei gangli vitali della Marina e del Paese. Non si doveva, perché non si voleva vincere l’Inghilterra. Tale era il destino di Casa Reale, oscuramente perseguito ai danni di questo povero Paese!» (Marina Repubblicana, 15 dicembre 1944).

Damnatio memoriae.

Qualcheduno non crede che in “italia” esista la così detta “damnatio memoriae” nei confronti di chi non s’è arreso.

Nel 2015 l’Ufficio Storico della Marina Militare ha pubblicato il ponderoso lavoro di Paolo Albertini e Franco Prosperini (11): Uomini della Marina 1861-1946. Dizionario biografico; 573 pagine formato 24x30 cm.

Il Capo Ufficio Storico della Marina Militare Cap. Vasc. Giosuè Allegrini nella Prefazione al volume scrive che questo «colma una lacuna avvertita nel mondo degli studiosi – soprattutto dagli interessati dalle vicende navali – che si è protratta per lungo tempo» (Giosuè Allegrini, Prefazione, in P. Albertini, F. Prosperini, Uomini della Marina 1861-1946. Dizionario biografico, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma 2015, p. 5).

Scrivono gli Autori: «Il dizionario tratta degli uomini di ogni grado, corpo e categoria – ufficiali, sottufficiali e marinai – e dei civili vicini alla vita della Marina, che si sono particolarmente distinti per azioni, pensiero, opere e carriera. Essi costituiscono quel patrimonio della Forza Armata che ha visto nel corso della vita nazionale una Regia Marina prima e successivamente una Marina Militare in continuità di azione, di spirito e di ideali» (P. Albertini, F. Prosperini, op. cit., p. 7).

Bene! (12).

In codesto dizionario, tra chi ha effettivamente combattuto, abbiamo numerosi incursori e sommergibilisti, ma tutti o morti prima dell’8 settembre 1943, oppure passati dopo tale data al nemico.

Trovo invece Aimone di Savoia Aosta, duca di Spoleto, quello che se l’è data a gambe levate senza fornire alcun ordine ai propri uomini: bell’esempio di ufficiale. Come molti altri citati nel libro, d’altra parte. E, questa, è purtroppo la “storia” che ancora oggi ha la pretesa di dover comunicare o insegnare qualche cosa.

Cerco invece e inutilmente gli Eroi della Decima che si batterono per l’riscattare l’Onore del Combattente Italiano e dell’Italia stessa.

Non trovo: Umberto Bardelli, Sergio Nesi, Mario Arillo, Leone Bogani, Carlo Vianello, Andrea Bernotti, Giovanni “Nino” Buttazzoni, gli equipaggi della “Missione Onore” (13) e tanti tantissimi altri. Praticamente tutti questi “altri” che non si sono arresi, che non sono passati all’avversario.

Una delle rare eccezioni, tra i tanti combattenti Volontari della Xa Flottiglia M.A.S. ad essere menzionato, è Junio Valerio Borghese (pp. 85-87). Trovo inoltre Angelo Belloni, già incontrato nella trascrizione dell’articolo Argomenti di mare, a cui sono dedicate un paio di pagine (pp. 56-57).

Cosa devo pensare di questa “storia italiana”? Forse che la guerra non è proprio ancora finita, dal momento che chi dovrebbe farlo non è in grado di scrivere la Storia per ciò che è stata… ma scrive per quello che il “popolino” deve imparare.

Quattro Eroi per tutti.

Si ricordano con foto quattro Eroi della Xa Flottiglia M.A.S. per tutti:

- Guardiamarina Mario Tului,

- Sotto Tenente Cesare Biffignandi,

- Guardiamarina Doda,

- Sottocapo Guareschi.

La Xa FLOTTIGLIA M.A.S. ha fatto paura allora e il solo ricordo ne incute anche adesso e se la morte sorride a tutti non si può che sorriderle a nostra volta.

Piaccia o meno la Xa FLOTTIGLIA M.A.S. rimane e rimarrà nella Storia d’Italia un bell’esempio.

Note.

1) Su Ereticamente vedere utilmente:

Epistemologia della menzogna (Parte prima. La disciplina dell’ottenebramento).

Epistemologia della menzogna (Parte seconda. La disciplina della confusione).

Epistemologia della menzogna (Parte terza. La disciplina dell’occultamento).

2) Su Ereticamente si sono pubblicati tre contributi inerenti la massoneria:

Percorsi iniziatici alternativi: le due colonne.

Percorsi iniziatici alternativi: 6 settembre 1666.

Percorsi iniziatici alternativi: la Stella d’Italia.

3) Su Ereticamente vedere il contributo sulla guerra savoiarda condotta nel Corno d’Africa:

A.O.I.: “a noi” oppure “ahi… noi”?

4) Su Ereticamente vedere il contributo: Compagni di gioco.

5) Su Ereticamente vedere il contributo: 24 maggio 1915: la tela del ragno.

6) Scrive Cilibrizzi: «La questione del silenzio dei cannoni e del rapido sfondamento del settore tenuto dal 27° Corpo d’Armata apparirà ancora più chiara quando avremo esaminata la quarta ed ultima accusa fatta a Badoglio. Tale accusa supera, per la sua eccezionale gravità, tutte le altre messe insieme. Si tratta, nientemeno, di questo: la notte del 23 e la giornata del 24 ottobre 1917, Badoglio non era la suo posto di comando (nota n. 221: Cfr. Luigi Capello, Note di guerra, Milano, Treves, 1926, Vol. II, pag. 199 e 201). Dove si trovava? Egli era nel villaggio di Kosi, luogo di riposo (nota n. 222: Cfr. Enrico Caviglia, La dodicesima battaglia – Caporetto, Milano, Mondadori, 1933, pag. 298)» (Ibidem, p. 72). Forse questo particolare di rilievo non lo si è ricordato, e non lo si ricorda, con sufficiente attenzione. Così riprende Cilibrizzi: «Sicché la sera del 23 ottobre, questo generale, pur sapendo che, durante la notte sarebbe stato iniziato il grande attacco nemico, non sentì il dovere di recarsi al suo posto tattico di comando, che si trovava sul Monte Ostri Kras, e andò invece, in un luogo di riposo. Ciò sembra addirittura inverosimile» (Ivi). Le successive considerazioni dell’Autore sono tutte da leggere (vedere in Ereticamente: Caporetto, repetita iuvant: «La disfatta di Caporetto. I responsabili tra storia e leggenda. Cadorna Capello e Badoglio»).

7) Su Ereticamente vedere il contributo: Falce e maglietto.

8) Così scrive Roberto Roggero: «Non è un caso che la storica adunata avvenuta in Piazza San Sepolcro il 21 marzo 1919, per la fondazione del Fascio di Milano, è patrocinata dall’ebreo massone Cesare Goldmann, il quale mette a disposizione di Mussolini il salone dell’Alleanza Industriale e Commerciale di Milano. Non lo è nemmeno il fatto che sono proprio alcuni massoni a finanziare la famosa Marcia su Roma del 1922. Del resto, non è un mistero che molti degli appartenenti alle alte sfere della gerarchia fascista fossero “Fratelli”: tra di essi Achille Starace, Italo Balbo, Roberto Farinacci, Emilio De Bono, Cesare Vecchi, così come lo era anche il grande avversario politico del fascismo, il comunista Giovanni Amendola. Lo stesso Mussolini riceve, anche se non con grande entusiasmo, nel gennaio del 1923 dalle mani del Gran Maestro della Gran Loggia, Raoul Palermi (di origini ebraiche), la nomina a Gran Maestro onorario» (Roberto Roggero, Oneri e Onori. Le verità militari e politiche della guerra di Liberazione in Italia, Greco & Greco Editori, Milano 2006, p. 573).

9) C’è chi nel tempo domanda e con noiosa insistenza notizie sugli accordi Angleton-Borghese. Bene, utilmente si può leggere il libro di Del Giudice, al capitolo Accordi per salvare l’apparato industriale, un passo per tutti: «(…) Se Borghese avesse accettato di cooperare con gli alleati e di schierare i suoi reparti in modo da impedire ai tedeschi di far saltare i porti, sarebbe stato sottratto ai partigiani, che intendevano fucilarlo nelle strade di Milano, e regolarmente processato dai suoi pari. Il pensiero di Angleton era logico e condivisibile, ma nettamente sorpassato dagli eventi, perché in realtà Borghese aveva preso quei provvedimenti, solo ipotizzati dall’OSS, a protezione di quei porti che proprio l’aviazione angloamericana continuava a bombardare incondizionatamente, uccidendo centinaia di cittadini disarmati» (Davide Del Giudice, Il Comandante Mario Arillo dai sommergibili ai Mezzi d’Assalto della X Flottiglia MAS, Associazione Culturale Sarasota, s.d., p. 207-208).

10) Nei “fatti di guerra” assai di rado si menzionano gli incidenti d’auto; ma qui ne abbiamo alcuni troppo sospetti:

- Angelo Belloni, coinvolto in grave incidente d’auto poco dopo la resa incondizionata, a seguito della decisione di seguire il Comandante Borghese.

- Antonio Legnani, nominato Sottosegretario di Stato per la Marina Repubblicana, muore in un incidente d’auto il 20 ottobre del 1943, a Lonato (Brescia); con lui viaggiava Ferruccio Ferrini.

- Junio Valerio Borghese, il 24 gennaio 1944, dopo la sua scarcerazione, rientrando a La Spezia con Cardìa al volante, l’auto rischia di finire in un burrone per l’improvvisa rottura dei freni.

- Pasca Piredda, gravemente ferita a seguito d’uscita di strada con la propria auto, il 9 dicembre 1944; salvata da Osvaldo Valenti.

- Nel dopoguerra, la Principessa Daria Olsoufieff Borghese muore in un incidente d’auto il 5 febbraio 1963. Per quanto riguarda suo marito: 26 agosto 1974, Junio Valerio Borghese muore dopo aver cenato nella proprietà spagnola del Barone von Knoblock: «fu colto da inaspettati dolori allo stomaco (…). La diagnosi fu di pancreatite acuta, condizione i cui sintomi sono pressoché indistinguibili da quelli di altre forme di intossicazione» (Sergio Nesi, Junio Valerio Borghese un Principe un Comandante un Italiano, Editrice Lo Scarabeo, Bologna 2004, p. 630). Luca Ribustini scrive invece: «Junio Valerio Borghese, il Principe Nero, morì all’improvviso, dicono avvelenato, proprio il giorno che l’ingegnere José Ignacio Rosende gli regalò alcuni mojorras (pesce tipico dell’Atlantico e del Mediterraneo – N.d.A.)» (Luca Ribustini, Il mistero della corazzata russa. Fuoco fango e sangue, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2014, p. 43).

11) Gli autori (testi tratti da: Paolo Albertini, Franco Prosperini, Uomini della Marina 1861-1946. Dizionario biografico, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma 2015, p. 575):

- Paolo Albertini: «Dopo aver lasciato il servizio attivo con il grado di contrammiraglio, ha svolto numerose missioni di osservazione elettorale in Africa e nei Balcani per conto dell’ONU, del Consiglio d’Europa e dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE). È stato rappresentante della Difesa in seno al consiglio direttivo del Museo della Liberazione di via Tasso, in Roma, nel triennio 2001-2003 e collaboratore della Commissione Italiana di Storia Militare per l’attività congressuale. Attualmente collabora per l’Ufficio Storico della Marina Militare».

- Franco Prosperini: «Lasciata la Marina Militare, ha lavorato nell’industria privata, nel cui ambito ha svolto attività connessa alle proprie specializzazioni. Dal 1962 collabora con opere e scritti di carattere professionale e storico con l’Ufficio Storico della Marina Militare, con riviste e con periodici militari e civili nel settore della Difesa».

12) Dal contributo DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: PROPAGANDA PER LA RISCOSSA (IX parte):

A proposito della sera dell’8 settembre Sergio Nesi ha scritto che Borghese ha chiesto all’ammiraglio Aimone, già duca di Spoleto, duca d’Aosta e cugino del Re, di essere ricevuto con urgenza. Costui dichiara di non sapere alcunché dell’armistizio: «Tra il duca d’Aosta, gli ufficiali che erano accorsi accanto a lui e il Comandante Borghese si intavolò allora una discussione sul da farsi. Mentre venivano fatte proposte del tutto empiriche e fantasiose, testimonianti il generale disorientamento, il Comandante Borghese fu pragmatico: “Armistizio significa che la guerra è momentaneamente sospesa. Può ricominciare o venire la pace. In ogni caso, il nostro solo e preciso dovere consiste nel restare con le armi al piede”. Il duca approvò in pieno. Poi ci pensò un attimo per poi esporre un suo fulmineo “distinguo”, quello che quel dovere, se andava bene a Borghese che era solo un ufficiale, non andava bene a lui. Stesse pure con le armi al piede con i suoi marinai, lui no. Lui era un principe di Casa Savoia e la sua posizione dinastica gli imponeva dei doveri che, sempre secondo lui, erano superiori a quelli militari. “In caso di emergenza – proseguì il duca – il mio dovere mi impone di accorrere subito a fianco al Re. Anzi, sarà opportuno che io sappia subito dove è il sovrano e dove possa raggiungerlo”. Ma dov’era il Re?» (Nesi Sergio, Junio Valerio Borghese un Principe un Comandante un Italiano, op. cit., p. 210). Il Re si era già dileguato assieme a Badoglio e con altri ufficiali e il giorno seguente, il 9 settembre: «Sua Altezza Reale l’ammiraglio di squadra Aimone di Savoia-Aosta era già in alto mare da oltre due ore» (Ibidem, p. 212).

13) Davide Del Giudice, Il Comandante Mario Arillo dai sommergibili ai Mezzi d’Assalto della X Flottiglia MAS, Associazione Culturale Sarasota, s.d., p. 203-205.

Le foto d’epoca a corredo del presente articolo sono tratte da fascicoli di: Caporilli Pietro, Novaro Enrico, Drago Silvio, 7 anni di guerra. Fotostoria del secondo conflitto mondiale visto dalle due parti in lotta, Ardita, Roma 1955-1958.

L'articolo DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XXX parte) – Gianluca Padovan proviene da EreticaMente.

Rileggendo la storia ignorata – Fabio Calabrese

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Dagli amici di “Ereticamente” in questi anni di collaborazione oserei dire intensa e ormai prolungata nel tempo, ho sempre avuto accordata la massima libertà di espressione che, se avete seguito con una certa regolarità la nostra pubblicazione lo avete visto, mi ha permesso di spaziare su una varietà di argomenti, dalla politica ai temi etici e religiosi, alla storia, all'archeologia, all'antropologia, alla narrativa fantastica e quant'altro.

Dalla Redazione, in quel tempo, ho ricevuto solo un paletto preciso e inderogabile: “Ereticamente” pubblica solo materiale inedito, non ripropone articoli già apparsi altrove. Io credo tuttavia di non violare questa consegna citando in un pezzo nuovo brani di un mio articolo precedente già edito.

Il fatto è che quando sono entrato in contatto con “Ereticamente” avevo già alle spalle anni di attività come intellettuale (se non è troppo presuntuoso definirmi tale) e polemista dell'Area, anche se nessuna delle testate precedenti con le quali avevo collaborato, mi aveva dato una “cassa di risonanza”, la possibilità di raggiungere un vasto pubblico di lettori come “Ereticamente”.

Qualche tempo prima di entrare in contatto con la nostra pubblicazione, avevo chiuso un'esperienza di collaborazione piuttosto prolungata con “Ciaoeuropa” di Antonino Amato, per nessun altro motivo se non che questa testata aveva cessato di esistere. Sinceramente, il fatto di non poter ripresentare a un pubblico più vasto materiale comparso in questa sede o altrove, per me ha costituito un problema, perché questi articoli, tra i quali non manca – credo – materiale valido, hanno in genere avuto una diffusione molto inferiore a quelli poi apparsi su “Ereticamente”.

Tempo addietro mi era capitato di ritrovare (quando si ha una produzione di scritti elevata, e per non intasare la memoria del computer, si è costretti a conservare file zippati dentro file zippati, l'hard disk finisce per diventare una specie di giungla) una cartella di articoli destinati a “Ciaoeuropa” che non avevano fatto in tempo a vedere la luce prima della cessazione delle testata. Due di essi non avevano perso di validità con il trascorrere del tempo e, essendo materiale rimasto inedito, non ho avuto problemi a riproporli su “Ereticamente”, Memorie controcorrente e Il trionfo della stupidità, ma si tratta di due su di una serie di articoli piuttosto numerosa.

La storia ignorata, invece, è stato un pezzo che è giunto alla pubblicazione, ragion per cui, io ora non ve lo riproporrò, ma vedremo insieme, invece di rileggerlo e di estrarne quello che, a distanza di anni, rimane il succo valido e importante del discorso.

Lo spunto per la stesura di questo articolo, che è del 2007 mi fu dato dalla circostanza che nel bollettino di una piccola casa editrice che vende on line (e che non appartiene all'Area) comparvero, con singolare coincidenza, le recensioni di tre libri di storia recente che nel loro insieme davano uno spaccato del tutto controcorrente degli eventi intercorsi tra la seconda guerra mondiale e la Guerra Fredda, si trattava di: Il telefonista che spiava il quirinale – 25 luglio 1943, di Paolo Palma (recensione di Paolo Acanfora), La resistenza demitizzata di Giampaolo Pansa (recensione di Francesco Fatica) e Compagno cittadino, il PCI tra via parlamentare e lotta armata di Salvatore Sechi (recensione di Carmine De Fazio).

(Le parti dell'articolo scritto allora che trascrivo senza variazioni, le metto in corsivo, “italic”, che a pensarci suona tremendamente ironico).

 

“Il telefonista che spiava il quirinale” non è un personaggio letterario, è Giuseppe Mangione, allora appunto telefonista del quirinale e che dopo la guerra acquisì una certa fama come sceneggiatore, che intercettò e trascrisse le conversazioni telefoniche del re Vittorio Emanuele III e del suo entourage attorno al luglio 1943. Le trascrizioni furono poi consegnate al noto esponente partigiano Rodolfo Pacciardi fra le cui carte sono state recentemente ritrovate.

Quello che ne emerge, è un quadro completamente diverso da quel che ci eravamo abituati a considerare di un episodio chiave della nostra partecipazione al secondo conflitto mondiale, quale fu quello del 25 luglio 1943, il “ribaltone” con cui fu soppresso il regime fascista, e che doveva preludere di lì a poco all'altro ed ancor più drammatico ed infamante “ribaltone”, l'armistizio ed il cambiamento di fronte dell'8 settembre.

Contrariamente a quel che ci è stato fatto credere così a lungo, l' “arresto” (ma di arresto non si trattò) di Benito Mussolini quando questi, dopo essere stato messo in minoranza nella seduta del Gran Consiglio del fascismo si recò dal re per presentargli le proprie dimissioni, non fu per nulla frutto di una decisione improvvisa di Vittorio Emanuele III, ma l'esito ultimo di una cospirazione accuratamente preparata, una congiura che ebbe la sua “anima”, la sua “eminenza grigia” nel ministro Acquarone, un personaggio che finora gli storici hanno considerato assolutamente di secondo piano.

 Per gli antifascisti di allora, di poi, di oggi, è sempre stato motivo d'imbarazzo il fatto che la “bieca” dittatura mussoliniana finisse in una maniera così “parlamentare”, con una votazione, ed ancora il fatto che dopo essere stato messo in minoranza dal Gran Consiglio, Mussolini si sia recato tranquillamente a offrire al re le proprie dimissioni”.

Qui mi è stato fatto rilevare, ho commesso un errore. Il 25 luglio Mussolini non si sarebbe presentato al re per dimettersi, ma semplicemente per relazionare sulla seduta del Gran Consiglio, come era prassi che facesse, tuttavia questo non cambia la sostanza delle cose, e le considerazioni che seguono, credo rimangano perfettamente valide.

E' stato questo il comportamento di un tiranno? O non piuttosto quello di un leale servitore dell'Italia con la coscienza tranquilla, il cui torto, semmai, è stato quello di non avvertire la fosca atmosfera da congiura da basso impero bizantino che altri gli avevano addensato attorno, come spesso accade alle persone sincere e leali che non sono in grado di comprendere fino in fondo la malizia altrui? Se invece Mussolini scelse consapevolmente di consegnarsi nelle mani di chi voleva distruggerlo, può averlo fatto solo nel tentativo di evitare che per l'Italia alla tragedia del conflitto si sommasse l'altra tragedia della guerra civile. In ogni caso, la sua statura morale ne esce ingigantita: un gigante circondato da una torma di squallidi gnomi intenti solo a cercare di trarre un profitto personale dalle sventure della patria.

In realtà questo libro aggiunge nuovi tasselli ad un mosaico che in gran parte conoscevamo già, così come sappiamo che all'uscita dal quirinale Mussolini non fu arrestato con un atto che avesse qualche parvenza di legalità, ma rapito e portato via in segreto su di un'ambulanza: è evidente che i cospiratori temevano una reazione popolare, e in tal modo confessavano involontariamente la popolarità di cui ancora godeva Mussolini a dispetto del disastroso andamento della guerra.

E non parliamo di altri fatti oscuri di quella tragica fine di luglio che sembrava anticipare sinistramente la guerra civile, come l'assassinio in un vile agguato di Ettore Muti “il più bello” e sicuramente uno dei più amati leader fascisti”.

Nuovi tasselli ad un mosaico che in gran parte conoscevamo già”, e a questo punto mi è sembrato opportuno inserire alcune considerazioni personali allo scopo di dare un quadro storico più completo. Noi sappiamo che all'indomani dello scoppio del conflitto, la corona e gli alti ambienti militari legati ad essa spinsero fortemente per l'entrata in guerra dell'Italia, e che fecero in modo di nascondere in tutte le maniere possibili a Mussolini  lo stato di impreparazione delle nostre forze armate. Particolarmente grottesca fu, ad esempio la decisione presa poco prima del nostro ingresso nel conflitto, di articolare le brigate del nostro esercito su due battaglioni invece che su tre: in questo modo se ne poté aumentare di un terzo il numero sulla carta, senza che i nostri effettivi crescessero di un solo uomo.

E' da ricordare che i Tedeschi, che ben sapevano che l'Italia era appena uscita da due impegni bellici consecutivi, la guerra d'Etiopia e quella di Spagna, dove da parte italiana si era contribuito a sostenere il franchismo con uno sforzo e un impiego di mezzi ben maggiore rispetto alla Germania, sconsigliarono l'entrata in guerra dell'Italia almeno fino al 1943.

C'è poi l'eccellente lavoro di indagine storica compiuto da Antonino Trizzino, pubblicato in libri che gli costarono un'interminabile odissea giudiziaria, Navi e poltrone, Settembre nero e Gli amici dei nemici (che già dal titolo ne evidenzia come meglio non si potrebbe il contenuto): da subito, fin dalla nostra entrata in guerra, i nostri alti comandi cominciarono a passare informazioni ai Britannici. Si aggiungano i sabotaggi e la disorganizzazione deliberata delle nostre Forze Armate; il quadro che ne emerge è estremamente chiaro. Si era voluta la nostra partecipazione al conflitto contando sulla sconfitta alla quale si collaborò attivamente, allo scopo di sbarazzarsi del fascismo: uno sporco, sporchissimo gioco condotto sulla pelle dei nostri soldati e delle nostre popolazioni, che non ha, non può avere nessun altro nome se non quello di TRADIMENTO.

Il secondo di questi testi, La resistenza demitizzata di Giampaolo Pansa, si inserisce in una vicenda che una decina di anni fa ebbe parecchia risonanza, poi è stata lasciata cadere nell'oblio fidando nella memoria corta della gente, in modo da non turbare la solita retorica resistenziale che, in perfetta malafede, continuano periodicamente a infliggerci.

Giampaolo Pansa è uno scrittore e uno storico con una formazione di sinistra, ma “disgraziatamente” è una persona onesta che ha preferito dire la verità piuttosto che raccontare le solite menzogne “resistenziali”.

Nel 2002, Pansa intraprese la stesura di un libro sui combattenti della Repubblica Sociale, I figli dell'aquila. Probabilmente allora ebbe modo di rendersi conto di cosa sia stata realmente la cosiddetta resistenza, un'orrida faida, un seguito di atrocità compiute sui “nemici” soprattutto dopo la conclusione della guerra quando questi ultimi, deposte le armi, non erano più in grado di difendersi. Avrebbe potuto – come tanti prima di lui – insabbiare tutto, far finta di nulla, continuare a raccontare le falsissime “verità” di regime. Invece ha deciso di rompere il muro dell'omertà.

Ne è uscito un libro, Il sangue dei vinti, che è diventato rapidamente un bestseller e scatenato gli alti lai delle vestali del macabro e bugiardo culto resistenziale. Come un altro testo, La grande bugia, La resistenza demitizzata si pone sulla scia de Il sangue dei vinti, come risposta alle repliche e accuse mossegli dai difensori d'ufficio della menzogna resistenziale.

Come La grande bugia, La resistenza demitizzata è dedicata soprattutto a smentire gli avvocati d'ufficio della resistenza, i ben pagati megafoni e leccapiedi del regime che vorrebbero tenere la grande bugia in piedi: Giorgio Bocca, Alessandro Curzi, Paolo Flores d'Arcais, Sergio Luzzatto, e altri esemplari del più lugubre bestiario di quanti vilipendono la storia e prostituiscono l'informazione.        

Chi mente sapendo di mentire, molto spesso finisce per darsi la zappa sui piedi, e così Pansa ha buon gioco citando un'affermazione di Giorgio Bocca, il più accanito di quanti vorrebbero confutarlo:

«Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. È una pedagogia impietosa, una lezione feroce».

Qui, a quanto replica Pansa e a quanto scrissi allora, c'è forse un particolare da aggiungere: in ogni caso non si trattò di AUTOlesionismo, ma di una brutalità che finiva per colpire chi non c'entrava nulla, come il ragazzino quindicenne dilaniato nell'attentato di via Rasella assieme alla pattuglia di ragazzi altoatesini arruolati nella Wehrmacht.

In poche parole, il solco di ostilità fra la popolazione e i Tedeschi e i combattenti repubblicani fu creato artatamente, con attentati che aveva lo scopo di provocare le rappresaglie secondo la logica del “tanto peggio, tanto meglio” da parte di chi mirava a fare “la rivoluzione” e non aveva alcuna preoccupazione di quanto questa logica aberrante sarebbe costata all'Italia in termini di morti e distruzioni.

Nel libro è contenuto un omaggio doveroso ad un uomo che ha cercato invano di raccontare agli Italiani la verità: Giorgio Pisanò, autore di volumi come Storia della guerra civile in Italia e Gli ultimi in grigioverde che, nonostante un'indiscussa competenza, serietà e probità come storico non riuscì a trovare un editore abbastanza coraggioso da pubblicare la verità sul periodo più buio della storia d'Italia, allora divenne egli stesso editore, e la cui tipografia fu distrutta per ben quattro volte da quattro attentati rimasti rigorosamente senza colpevoli e che non ebbero alcuna eco sui mezzi “d'informazione”.

Parlando di storia ignorata, il terzo libro, Compagno cittadino, il PCI tra via parlamentare e lotta armata di Salvatore Sechi si occupa di quello che è forse in assoluto l'aspetto più ignorato della nostra storia ignorata: gli impenetrabili misteri che avvolgono l'attività del PCI, il maggior partito comunista dell'Europa occidentale e che oggi, a distanza di più di un quarto di secolo dalla cessazione ufficiale di questa formazione, rimangono tali.

In questo caso, non si tratta per la verità di un testo organico ma di una raccolta di saggi, ma questo non muta in nulla la sostanza delle cose, che è semplicemente questa: il PCI ha sempre posseduto una struttura paramilitare segreta pronta a intervenire per instaurare con la forza anche in Italia un regime comunista non appena le circostanze di politica interna e soprattutto internazionale l'avessero reso possibile, quella cui si è ripetutamente alluso come “Gladio rossa”.

La prima cosa che Sechi e De Fazio sulle sue orme ci fanno notare, è l'estrema difficoltà che esiste ancora oggi nel raccogliere informazioni su questo argomento, stante il clima omertoso, il “muro di gomma” che ancora oggi circonda tutto ciò che riguarda il Partito Comunista, eretto con l'attiva complicità di giornalisti e sedicenti intellettuali di sinistra:

“Il “muro di gomma” che esiste sull’argomento sembra essere stato messo in piedi per nascondere qualsiasi tipo di ricerca della verità storica da intellettuali faziosi e direttamente controllati dalla struttura partitica. Questa componente rappresenta un altro elemento di critica di Sechi, quello cioè, che la sinistra in generale (il riferimento è al PCI ma anche al PSI) avesse sempre avuto dalla sua parte, gestendo con molta attenzione una cerchia di giornalisti, scrittori e intellettuali che avrebbero permesso una “scrittura”, appunto, della storia relativa a questi partiti soprattutto, poco veritiera o strettamente di parte”.

Una delle poche cose che appaiono sicure al riguardo, è che questa struttura non sarebbe potuta esistere senza la disponibilità di grandi quantità di denaro, di origine certamente illecita. La fonte principale sembra essere stato il sistema di tangenti imposto dal PCI alle aziende italiane che intendevano commerciare con i Paesi comunisti, ossia proprio quel sistema di “pizzo” mafioso che tutti conoscevano fino alla fine degli anni '80 e di cui l'inchiesta “mani pulite” non ha voluto trovare traccia:

“A fianco delle grosse capacità di gestione e mantenimento del sistema partitico, c’era un apparato che prendeva sostentamento dalle ingenti quantità di denaro che il PCI riusciva a cooptare dai grandi mercati internazionali e che, a dire dell’autore, ne faceva il punto di riferimento del mercato import-export verso e dai paesi europei sotto l’orbita sovietica e anche verso il mercato “rosso” orientale rappresentato dalla Cina.”.

All'esposizione di Sechi e De Fazio aggiungevo una mia considerazione: nell'ordinamento giuridico italiano c'è una legge, la legge Scelba, che proibisce ai partiti politici di dotarsi di organizzazioni paramilitari. Avete mai sentito parlare di un qualche PM che abbia proposto un'azione penale contro il PCI in base alla legge Scelba? Andiamo, sappiamo tutti contro chi, per colpire quale parte politica questa legge è stata fatta!

Recentemente mi sono dedicato a un esame attento della “nostra” costituzione in vista della stesura di una serie di articoli per i settant'anni di questo documento, “la più bella del mondo” secondo la sinistra. Bene, la legge Scelba non fa che riecheggiare da questo punto di vista l'articolo 18 che sancisce la stessa proibizione, che ha quindi ancora maggior rilevanza.

C'è una cosa ancora più ingiusta e insopportabile delle leggi ingiuste, la loro applicazione ingiusta e “strabica”, che di fatto stabilisce la suddivisione in cittadini di serie A (i “compagni”) cui è concesso tutto, e cittadini di serie B (noi) a cui non è concesso nulla, nemmeno di esprimere liberamente le loro idee.

La conclusione dell'articolo era contenuta in una frase che riporto ora, con la speranza dettata dalla volontà:

Il muro delle menzogne comincia a mostrare le prime crepe, ma non ci dobbiamo illudere: l'era degli inganni non è finita e non finirà né domani né dopodomani, ma un giorno la gente non ne potrà più di coloro che non hanno fatto altro che ingannarla, e sulla menzogna hanno fondato il loro potere”.

 

 

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Il Milite Ignoto illustrato al Popolo – Karl Evver

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Il Milite Ignoto illustrato al Popolo

Un mito portato in pittura

La vita di un uomo dalla madre alla morte in 14 stazioni dipinte da Karl Evver

21 ottobre/18 novembre MMXVIII

Palazzo Zanardi Landi
via Roma
Guardamiglio (LO)
La mostra è visitabile dal venerdì alla domenica
dalle 16.30 alle 19.

INAUGURAZIONE DOMENICA 21 OTTOBRE ORE 18

 

Il centenario della vittoria italiana nel primo conflitto mondiale viene celebrato quest'anno da prospettive soprattutto umanistiche e microstoriche, avendo nel frattempo la stessa civiltà europea mutato profondamente il proprio significato e la lettura che dà di se stessa.

Forse l'ultimo mito che la civiltà di allora ha espresso per dire se stessa, per tramutare in forza il proprio dolore, è quello — a ridosso del termine della guerra — del Milite Ignoto. L'Altare della Patria, a Roma, immensa e candida celebrazione monumentale di tale mito, è un esempio d'insuperabile magniloquenza che potrebbe far credere superfluo un nuovo avvicinamento per mezzo dell'arte a questa figura senza nome e senza volto.

Karl Evver non è di questo parere. Potentemente emozionato da questo simbolo della moltitudine di giovani uomini morti sulle nostre montagne per difendere quella che tutti chiamavano Patria, abituato a dare veste pittorica ai miti più sfuggenti, non nel segno della magniloquenza ma di una fede scabra e sofferta nell'eternità della condizione umana, ha immaginato la vita di uno di questi soldati e l'ha divisa in 14 stazioni.

In questa stagione in cui si perdono poche occasioni per esternare sentimenti di disaffezione nei confronti di questa ancestrale esperienza espressiva, Evver riconferma invece la sua fiducia nella pittura (e di questo, ritengo, bisogna essergli comunque grati), badando, naturalmente, a non rinchiudersi in banali ripetizioni del già fatto e del già visto (e ciò Evver sa e fa benissimo) : così scrive Carlo Fabrizio Carli nel testo critico che accompagna la mostra, che pare davvero, a dispetto della tragicità del tema, una riappropriazione ottimistica dell'intero cammino percorso dalla Nazione e la dimostrazione delle infinite possibilità dell'arte di onorare l'esistente e l'esistito, il mai esistito e il futuro.

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Tra l’incudine e il martello – Fabio Calabrese

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Questo quattro novembre cade una ricorrenza di quelle che la repubblica democratica ha democraticamente cancellato dal nostro calendario, non si sa mai che gli Italiani che da tre generazioni si è fatto di tutto per allevare come conigli, ricordino che i loro nonni e bisnonni sono stati invece dei leoni, vale a dire il centenario della vittoria italiana nella prima guerra mondiale.

La mia intenzione tuttavia, non è ora quella di stendere un articolo celebrativo ma di cercare di analizzare il reale significato di questo evento cruciale – nel bene e nel male – della nostra storia.

Va premesso il fatto che, a prescindere dalle implicazioni strategiche e politiche di questo conflitto, della sua insanguinata vittoria, del fatto che essa abbia ripagato o meno il sacrificio e la spaventosa emorragia di vite umane che ha comportato, una cosa che non può essere messa in discussione è il valore dimostrato dai nostri soldati, soprattutto nelle circostanze avverse: si pensi alla resistenza dei nostri alpini alla Strafeexpedition austro-tedesca del 1916, che bloccò, nonostante l'inferiorità di forze, l'offensiva nemica proprio quando era sul punto di sboccare nella pianura e prendere alle spalle l'intero fronte dell'Isonzo, oppure la durissima battaglia del Piave del giugno 1918, ma prima ancora, il sacrificio del Genova cavalleria e delle altre unità che a Pozzuolo del Friuli nell'ottobre 2017 si sacrificarono fino all'ultimo uomo per tenere fermo il nemico e permettere al grosso del nostro esercito di riparare oltre la sponda del Piave, facendo in tal modo sì che Caporetto fosse si una battaglia perduta, ma non l'annientamento dell'esercito italiano come forza combattente e la perdita della guerra.

In un paio di articoli già apparsi su “Ereticamente”, che in realtà sono il testo di una conferenza da me tenuta a Trieste alla Casa del Combattente, avevo parlato della nostra partecipazione alla prima guerra mondiale come di Una guerra sbagliata. Sbagliata in che senso?

Sbagliata innanzi tutto, condotta malissimo, dal punto di vista strategico. Basti pensare a questo: l'Italia entrò in guerra a fianco dell'Intesa il 24 maggio 1915. La guerra era scoppiata nell'agosto 1914, quasi dieci mesi prima, c'era stato tutto il tempo per rendersi conto che l'introduzione della mitragliatrice, delle trincee, dei reticolati, l'avevano congelata in un terribile impasse che richiedeva uno spropositato tributo di sangue per ogni metro di terreno conquistato. Ciò nonostante, Luigi Cadorna, cui era stato affidato il comando supremo dell'esercito italiano, assunse l'incarico avendo ancora in testa le campagne napoleoniche e ottocentesche, le battaglie risolte a fil di sciabola dalle cariche di cavalleria. Le sue direttive prevedevano una rapida avanzata nella pianura giuliana, cui avrebbero dovuto seguire l'attraversamento dei valichi alpini e una puntata su Vienna, sul modello della campagna d'Italia di Napoleone, escludendo che si dovesse ricorrere alla guerra di trincea.

Un piano simile si sarebbe forse potuto realizzare se si fosse agito con rapidità, cogliendo gli Austriaci di sorpresa prima che avessero il tempo di approntare difese, ma anche qui brillò l'inefficienza dell'Alto Comando italiano: la dichiarazione di guerra avvenne il 24 maggio: per ritardi burocratici e disorganizzazione, la prevista offensiva che diede il via alla prima delle sanguinosissime e sostanzialmente inutili battaglie dell'Isonzo, scattò a fine giugno. Un mese di tempo del quale gli Austriaci approfittarono per fortificare le loro posizioni rendendocele imprendibili.

Secondo quanto riferisce Franco Bandini nella storia della prima guerra mondiale pubblicata a puntate nel 1968 dalla Domenica del Corriere, Giulio Douhet, teorico del bombardamento aereo, e una delle migliori teste pensanti di quella generazione, espresse il giudizio che Luigi Cadorna ne capiva di strategia quanto una cameriera o un portinaio.

Si doveva arrivare a Vienna. Con un enorme dispendio di vite umane, si arrivò appena a Gorizia prima di essere travolti dal disastro di Caporetto. Quest'ultimo fu certamente una conseguenza del fatto che la fine delle ostilità sul fronte orientale aveva permesso agli austro-tedeschi di schierare nuove forze sul nostro fronte oltre che su quello occidentale, ma anche del logoramento subito dal nostro esercito in tre anni di offensive sostanzialmente inutili.

Le responsabilità di Armando Diaz, succeduto a Cadorna dopo Caporetto, furono poco minori di quelle del suo predecessore. Egli soprattutto non capì che dopo la battaglia del Piave del giugno 1918 in cui gli Austriaci avevano dato fondo alle ultime riserve, le loro forze erano ridotte allo stremo, e sarebbe bastata un'ultima spallata. Invece, per eccesso di prudenza, la battaglia finale di Vittorio Veneto tardò fino all'ottobre e sembrò un successo “in scia” di quelli che gli anglo-francesi avevano riportato sul fronte occidentale in luglio-agosto. In tal modo i durissimi sacrifici degli anni precedenti furono sostanzialmente vanificati: ci presentammo al tavolo della pace non come i vincitori di Vittorio Veneto ma come i vinti di Caporetto, con gli “alleati” occidentali che non avevano altro desiderio se non quello di concederci il meno possibile.

Proprio nel corso della discussione seguita alla mia conferenza, un ascoltatore, persona che, dato l'ambiente, di cose militari se ne intende, mi ha riferito questo giudizio pronunciato da Erwin Rommel che, avendo avuto gli Italiani come nemici nella prima guerra mondiale e come alleati nella seconda, di certo li conosceva:

“I soldati italiani sono dei leoni, gli ufficiali delle salsicce, i generali delle m.rde”.

Sbagliata dal punto di vista strategico, questa guerra lo fu forse ancora di più da quello politico. Da triestino, lo devo ammettere con rincrescimento: se la finalità era quella del completamento dell'unità nazionale, portare il risorgimento all'epilogo, possiamo dire che i risultati in cui si poteva sperare schierandosi da una parte o dall'altra, sostanzialmente si equivalessero, infatti, se il Trentino e la Venezia Giulia erano in mani austriache, Nizza, la Savoia e la Corsica erano sotto il dominio francese, e Malta sotto quello inglese, ma non c'è soltanto questo: c'era la questione delle colonie, allora considerate fondamentali per l'economia di un Paese, che ci poneva in diretto conflitto con Francesi e Inglesi, per non parlare del fatto che l'Inghilterra, che controllava il Mediterraneo attraverso l'asse Gibilterra-Malta-Alessandria, di fatto ci stringeva dentro le nostre acque territoriali. Le ragioni che avevano indotto l'Italia a stipulare nel 1882 la Triplice Alleanza con Germania e Austria-Ungheria non erano prive di fondamento, e rimanevano valide.

In più, schierarsi con l'Intesa significava aderire al fronte liberal-democratico-massonico, le forze che lavoravano per la dissoluzione dell'Europa. Poco prima del nostro ingresso nel conflitto, nella sede del Partito Nazionalista ci fu un rovente dibattito sull'opportunità da quale parte l'Italia si dovesse schierare. Le ragioni dell'Intesa furono rappresentate da Filippo Tommaso Marinetti, quelle della Triplice Alleanza da Julius Evola.

“Le sue idee sono lontane dalle mie quanto quelle di un esquimese”, disse Marinetti a Evola, ma a posteriori dobbiamo ammettere che tutti i torti, il barone siciliano proprio non li aveva.

Nel periodo precedente l'ingresso italiano nel conflitto, vi furono trattative con le due parti, e da parte austriaca fu promessa all'Italia la cessione del Trentino e la costituzione di Trieste in territorio libero, solo perché ci mantenessimo neutrali, era il “parecchio” che avremmo potuto ottenere praticamente gratis sostenuto da Giolitti e che fu sbeffeggiato dagli interventisti. Naturalmente è tutto da vedere che nel caso di una guerra conclusa in termini favorevoli agli Imperi Centrali, queste promesse sarebbero state mantenute, ma nel caso lo fossero state, e considerato poi quanto abbiamo perso in seguito agli eventi della seconda guerra mondiale: l'Istria, Fiume, gran parte della Venezia Giulia, si potrebbe dire che abbiamo combattuto la Grande Guerra, con le sue lunghe sofferenze, con la perdita di mezzo milione di vite dei nostri combattenti, con i suoi pesanti strascichi, per avere che cosa? Praticamente quasi soltanto l'Alto Adige, il Tirolo meridionale, una terra che non era e non è mai stata italiana, che nel secolo intercorso da allora ci ha dato qualche campione negli sport invernali, ma anche problemi e grane a non finire.

Tuttavia, lo sappiamo bene, l'intervento a fianco dell'Intesa fu imposto a un'Italia riluttante dove prevalevano i sentimenti neutralisti, dalla Corona, dal re Vittorio Emanuele III, non per motivi di interesse nazionale, ma per i legami che esistevano tra casa Savoia e la massoneria internazionale.

Noi non dobbiamo assolutamente pensare che l'esperienza risorgimentale attesti in qualche modo una posizione dei franco-britannici come “alleati naturali” dell'Italia e dell'unità italiana. Parliamo della Francia, la Francia di Napoleone III che nel 1848 soppresse la repubblica romana, che nel 1859 ci piantò in asso con l'armistizio di Villafranca e nonostante questo riuscì a ottenere la cessione di Nizza e della Savoia, che fino al 1870 fu l'ostacolo all'annessione di Roma. E non dimentichiamoci neppure che il primo episodio “risorgimentale” di una ritrovata coscienza nazionale italiana non fu una ribellione contro gli Austriaci, ma contro i Francesi, di Verona che si ribellò ai soprusi delle truppe napoleoniche, che risposero con la sanguinosa repressione ricordata come “pasque veronesi”.

Una delle ragioni per le quali l'unità nazionale è mancata per tanti secoli, è stata certamente la presenza dello Stato della Chiesa nel cuore della nostra Penisola, con i papi sempre pronti a chiamare in Italia invasori stranieri non appena qualcuno minacciasse di ricostruire l'unità italiana ponendo fine al loro staterello. Queste aggressioni sono venute soprattutto dalla Francia, non a caso chiamata dal papato “figlia prediletta della Chiesa”, da Carlo Magno che distrusse il regno longobardo quando era sul punto di trasformarsi in una monarchia nazionale, a Carlo d'Angiò, fratello del re di Francia, chiamato dal papa ad annientare la dinastia di Svevia, a Napoleone III che nel 1848 distrusse la repubblica romana, e fino al 1870 fu l'ostacolo all'annessione di Roma. Davvero, se la Francia è la “sorella latina”, è meglio essere figli unici.

L'Inghilterra è geograficamente più lontana da noi, e questo dovrebbe diminuire i contenziosi, ma non dimentichiamo la repressione garibaldina dei moti popolari di Bronte, lì c'era la ducea di Nelson, lì c'erano interessi inglesi da tutelare, e lo scollamento fra lo stato unitario italiano e le plebi meridionali, la rivolta popolare che gli storici hanno mistificato come brigantaggio, cominciò lì.

C'è un discorso che va fatto con molta chiarezza e sincerità: il risorgimento non fu una totalità unica: ci sono due fenomeni che si incrociano e si sovrappongono, uno è l'insorgenza spontanea delle nostre genti contro secoli di oppressione e dominazione straniera, un altro è il movimento di ispirazione liberal-democratico-massonica, teleguidato da Londra e Parigi, che a un certo punto di questa insorgenza si è impadronito. Io ho dedicato a questo aspetto della nostra storia un ampio articolo apparso su “L'uomo libero”, poi una conferenza, Le due facce del risorgimento, il cui testo è apparso su “Ereticamente” suddiviso in due articoli.

La cartina di tornasole che permette di distinguere l'un aspetto all'altro, è molto semplice da rilevare: noi vediamo che quando gli interessi dell'Italia e quelli della loggia vengono a conflitto, questi “patrioti” scelgono invariabilmente la loggia, dimostrando così quale è la loro vera “patria”. I Piemontesi che cedono a Napoleone III Nizza e la Savoia nonostante questi abbia tradito gli impegni presi a Plombiers, i garibaldini che reprimono il moto di Bronte, e che nel 1870 accorreranno in aiuto della Francia nonostante questa fosse l'ostacolo all'annessione di Roma. I governi della “destra storica” che fino a che non saranno sbalzati dalla rivoluzione parlamentare di Depretis, eviteranno di introdurre in Italia il minimo processo di industrializzazione, sempre per non mettersi in concorrenza con Francia e Inghilterra.

Può essere che da un certo punto di vista l'unità nazionale italiana mancata per tanti secoli, si debba considerare un effetto collaterale non voluto dell'azione sovvertitrice compiuta a livello internazionale dal movimento liberal-democratico-massonico, ma questo non ci obbliga ad alcuna gratitudine nei confronti di esso, anche perché i suoi interessi e i nostri interessi nazionali sono stati divergenti più spesso di quanto non si pensi, e questo lo dovemmo constatare in modo molto amaro alla pace di Parigi del 1919.

Il problema è però che se la prima guerra mondiale è stata una guerra sbagliata, una guerra “giusta” da combattere non c'era, schierarsi dalla parte degli Imperi Centrali si sarebbe probabilmente rivelato altrettanto sbagliato. Ci trovavamo insomma TRA L'INCUDINE E IL MARTELLO.

A Trieste oggi c'è molta gente che ha un atteggiamento nostalgico nei confronti dell'impero degli Asburgo, che coltiva la favola dell'Austria “Paese ordinato” e uso a trattare con equanime imparzialità i popoli del suo impero multietnico. Ciò, oltre che fondarsi sull'indispensabile ignoranza dei fatti storici, non è che l'espressione locale di quel sentimento diffuso un po' dovunque nella Penisola, per cui i lombardi ad esempio vorrebbero essere celti o longobardi o i meridionali Magni Greci o bi-siculi (delle Due Sicilie); si vorrebbe essere tutto meno che italiani, perché tre quarti di secolo di democrazia antifascista non hanno solo gravemente intaccato il senso di appartenenza nazionale, ma ci hanno ridotti ad avere nausea di noi stessi, ma, l'ho detto tante volte, non è di essere italiani che ci dobbiamo vergognare, è la democrazia antifascista che ci deve fare nausea e schifo.

I fatti storici ci dicono qualcosa di molto diverso: c'è una direttiva impartita da Francesco Giuseppe nel 1867 che impone nei territori italiani ancora sotto dominio austriaco, di favorire l'elemento slavo a discapito di quello italiano in vista di una loro progressiva slavizzazione.

Questa data del 1867 non è assolutamente casuale: si era da poco conclusa la guerra austro-prussiana (per noi terza guerra d'indipendenza) con la vittoria prussiana di Sadowa, che aveva portato all'espulsione dell'Austria dalla Confederazione Germanica e alla perdita del Veneto a favore dell'Italia.

L'imperatore austriaco aveva certamente compreso che si era determinata una situazione del tutto nuova con importanti conseguenze. La Confederazione era stata un surrogato del Sacro Romano Impero cui gli Asburgo avevano dovuto rinunciare nel 1806. Ora, separati da essa, gli austriaci di nazionalità tedesca erano una minoranza nell'impero multietnico percorso da spinte separatiste per ogni dove e, per tenerlo insieme, occorreva giocare al massimo sul divide et impera, sulla contrapposizione tra le varie nazionalità. Il primo passo fu l'elevazione dell'Ungheria in regno autonomo, unito all'Austria solo dalla persona del sovrano, poi occorreva accattivarsi gli Slavi, e favorendo gli Slavi meridionali a danno degli Italiani si prendevano due piccioni con una fava, poiché era chiaro che le spinte irredentistiche avrebbero sempre più attratto questi ultimi verso l'Italia. Nel 1859 se n'era andata la Lombardia, nel 1866 era stata la volta del Veneto, il resto era questione di tempo. Eliminando o riducendo a minoranza l'elemento italiano, si ancoravano queste terre alla corona asburgica.

Bisogna capire bene anche quali furono i retroscena della Triplice Alleanza. Bismarck sapeva bene che aver sconfitto l'Austria non bastava per arrivare all'unità tedesca, c'era un altro grosso ostacolo, la Francia di Napoleone III. La distruzione dell'impero germanico che metteva la Francia in sicurezza sul confine orientale era stata il capolavoro del cardinale Richelieu, ottenuta prima attizzando la guerra dei Trent'Anni, poi imponendo con la pace di Westfalia la trasformazione dello stesso in una blanda confederazione tra il mosaico degli stati tedeschi, un risultato che Napoleone III non poteva assolutamente permettersi di veder compromesso, e subito dopo Sadowa aveva iniziato ad agire in tal senso, facendo leva sull'antagonismo religioso fra i tedeschi meridionali cattolici e il nord protestante, assumendo un dubbio ruolo di protettore dei cattolici tedeschi.

Occorreva battere la Francia, ma per farlo era indispensabile non avere nemici nell'area germanica, quindi nei confronti dell'Austria arrivò la mano tesa dopo la legnata di Sadowa, in particolare appoggiando le ambizioni austriache di espansione nei Balcani.

Per l'Italia, ultima arrivata nel “concerto delle potenze” e che le ambizioni coloniali mettevano in contrasto con Francia e Inghilterra, la Prussia/Germania rappresentava l'unico alleato possibile. In sostanza, sia l'Italia sia l'Austria avevano convenienza all'alleanza tedesca, ma non è che reciprocamente si amassero, tutt'altro!

Nel 1907 il terremoto di Messina non mise solo in ginocchio la Sicilia, ma rappresentò un colpo durissimo per il gracile stato italiano. Allora, alla corte di Vienna qualcuno ventilò che quello fosse il momento adatto per una guerra contro l'Italia, per riprendersi quello che era stato perso nelle guerre risorgimentali. Non se ne fece nulla, ma la cosa si riseppe. L'Austria era – si disse – “un alleato coi denti di lupo”.

Al momento dello scoppio della prima guerra mondiale, noi non eravamo vincolati a intervenire al fianco degli Imperi Centrali, perché la Triplice Alleanza era puramente difensiva, mentre era stata l'Austria ad attaccare la Serbia, ma c'è un altro fatto di cui non si tiene conto: era stata l'Austria per prima a violare la Triplice Alleanza. Essa infatti prevedeva che a ingrandimenti dell'impero asburgico nei Balcani, “l'inorientamento” dell'Austria, come si usava dire, sarebbero dovute corrispondere rettifiche territoriali a favore dell'Italia, e in tal modo i nostri politici speravano di risolvere pacificamente il problema delle terre irredente. Bene, l'annessione austriaca della Bosnia Erzegovina non ci fruttò l'incremento territoriale neppure di un metro (il che, tra l'altro, rende molto dubbio che le promesse fatte a Giolitti per assicurare la neutralità italiana, in caso di un esito del conflitto favorevole agli Imperi Centrali, sarebbero state onorate).

C'è chi ha voluto vedere nel cambiamento di alleanze del 1915 una sorta di prefigurazione del cambiamento di fronte, del voltafaccia vergognoso dell'8 settembre 1943, ma si tratta di un paragone che non regge. Quest'ultimo fu davvero un atto infame e inescusabile che ha segnato di una macchia indelebile il nostro onore nazionale: buttarsi nelle braccia dell'invasore e dichiarare nemico, e colpire alla schiena l'alleato con cui fino al giorno prima si erano divisi “pane e morte”. Se non altro, da una certa soddisfazione constatare che esso non servì a salvare la monarchia sabauda, mentre in Giappone che continuò a combattere coerentemente dalla stessa parte fino alla fine, il trono imperiale è rimasto.

Sciolto bene o male il nodo austriaco con la scomparsa dell'impero asburgico e la riduzione dell'Austria alla piccola repubblica che è ancora oggi, dopo la pace di Parigi (non Versailles, Versailles è semplicemente il luogo dove fu consegnato il diktat alla Germania, diktat che era solo uno degli atti, anche se il più importante, che componevano l'elaborato piano “di pace”), rimanevano validi i motivi che ci avevano spinti a suo tempo a stipulare la Triplice Alleanza, anzi, i contrasti con gli “alleati occidentali” che al tavolo della pace ci trattarono nella peggior maniera possibile, si erano semmai acuiti.

L'alleanza con la Germania era nella logica delle cose, anche se ovviamente ci sarebbe voluto tempo, e l'affermarsi nello stato tedesco di una guida forte che la rimettesse in piedi dopo l'umiliazione della sconfitta. Possiamo anzi dire che con l'avvento del fascismo in Italia e del nazionalsocialismo in Germania, essa assume un significato più ampio, perché Italia e Germania formano un asse naturale, un perno della difesa europea contro la duplice minaccia, bolscevica a est, e liberal-massonica a ovest, perché Francia e Inghilterra, sia pure uscite formalmente vincitrici dal conflitto, ne sono di fatto esse pure ridimensionate al ruolo di proconsoli dell'ingerenza statunitense nel nostro continente.

Il discorso che abbiamo già visto, dell'obiettiva divergenza fra l'interesse nazionale italiano e quello del movimento liberal-democratico-massonico, con l'affermazione del fascismo, diventa più chiaro, drammaticamente chiaro. E' ormai accertato che a premere per il nostro intervento nel secondo conflitto mondiale furono in primo luogo la Corona e gli alti gradi militari che, anche questo è ormai accertato, fin dal primo giorno di guerra cominciarono a passare informazioni al nemico, non prima di aver inventato ogni artificio possibile per nascondere a Mussolini lo stato di impreparazione e disorganizzazione delle nostre forze armate. E' chiaro che casa Savoia il cui legame con la massoneria internazionale non era mai venuto meno, contava sulla sconfitta come mezzo per liberarsi del fascismo, e la vergogna dell'8 settembre 1943 non fu che l'ultimo atto di questo infame gioco.

Le finalità del fascismo e di quanti sostennero in buona fede il nostro intervento nel conflitto, erano ovviamente ben diverse: si trattava di fare dell'Italia una grande potenza, ma prima di tutto di completare l'unità nazionale riportando nel seno dell'Italia le terre che ancora mancavano: Nizza, la Corsica, la Savoia, Malta, sulla sponda orientale la Dalmazia che ci era stata negata a Parigi nel 1919, e se non fosse stato per l'impresa dannunziana non avremmo avuto neppure Fiume.

Il fatto che nel secondo conflitto la vittoria non ci arridesse, e anzi dovemmo subire la perdita di gran parte di quanto avevamo conquistato con tanto sacrificio nella Grande Guerra, non cambia ciò. Si vuole condannare il fascismo per questo? Allora per coerenza si dovrebbero ugualmente condannare il risorgimento e l'esistenza stessa dell'Italia come stato nazionale.

L'articolo Tra l’incudine e il martello – Fabio Calabrese proviene da EreticaMente.

Una Vittoria mutilata: le ragioni della Grande Guerra – Umberto Bianchi

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Quella della grande Guerra, è sempre stata una rievocazione “totalizzante” che ha, cioè, sempre coinvolto emotivamente tutti gli strati e le componenti ideologiche, politiche e sociali della società italiana ed europea, senza ambiguità di sorta, se non quelle a malapena sussurrate da un timido e malconcio pacifismo. Cosa questa, assolutamente non riscontrabile per quanto attiene, invece, l’ultimo conflitto mondiale, ove qualunque episodio celebrativo ha subito l’immancabile investitura ideologica, data dalla logica della guerra civile e della manichea contrapposizione Fascismo-Antifascismo, la cui spirale è durata sino ai giorni nostri.

Da quella Grande e terribile Guerra, da quel micidiale scontro tra masse d’acciaio in movimento, da quell’inedito cozzare di moltitudini, nel nome di una mai vista mobilitazione totale, uscì rafforzata la generazione dei Totalitarismi Occidentali, Fascista e Bolscevico. Ma uscì anche rafforzata e plasmata come non mai, quella coscienza di italianità che il Risorgimento, nella sua natura di rivoluzione liberale e borghese e perciò stesso, elitaria, non era assolutamente riuscito a conferire al nostro Paese. E qui, ci basti ricordare come andarono a finire i tentativi rivoluzionari di Carlo Pisacane e di Bakunin, per non parlare della pluridecennale guerriglia, (che ad oggi, si insiste prosaicamente, a chiamare “brigantaggio”) che la Calabria borbonica oppose al governo torinese del neonato Regno d’Italia.

Dalla Prima, Grande Guerra, uscirono i Mussolini, i D’Annunzio ed i Fasci di Combattimento, ma anche personaggi come Sandro Pertini e gli Arditi del Popolo (destinati a breve vita sul proscenio della politica italiana, sic!). Quella volta l’Italia si fece Nazione e, a conferma di questo rinnovato e radicato senso di appartenenza, all’indomani degli accordi di Parigi e di Berlino, di fronte alla tracotanza ed all’arroganza dell’americano Wilson, ma anche del francese Clemenceau e dell’insipienza del britannico Lloyd George, sulla questione delle promesse di concessioni territoriali all’Italia, tra cui quella irrinunciabile di Fiume, con uno spontaneo atto di forza guidato da D’Annunzio e da alcuni esponenti del Regio Esercito, ma anche da altri settori del nazionalismo italiano, Fiume venne occupata.

In barba a tutti quegli equilibri diplomatici, a quelle prudenze mediatorie, a quei distinguo ed a quegli atteggiamenti di irrisoria sufficienza che, sino a quel momento, avevano caratterizzato l’atteggiamento delle varie Potenze in campo con l’Italia. Quello di Fiume, fu l’episodio apicale, il punto di massimo consenso e di incontro del consenso nazionale attorno ad un tema comune, probabilmente mai registrato nella storia italiana. D’Annunzio, De Ambris, ma anche Marinetti, Mussolini, Gramsci e gli ambienti legati al nascente socialismo marxista, al pari di quelli espressione dell’insurrezionalismo anarchico, appoggiarono e condivisero senza riserve l’impresa fiumana, la Carta del Carnaro e le istanze che ne stavano alla base. Una Rivoluzione mancata, conclusa nel famoso “Natale di sangue” del 1920, sostituita da un’altra Rivoluzione, quella Fascista, anch’essa sostenuta da un forte consenso popolare, che non sarebbe però mai arrivato ai livelli di quello per l’impresa fiumana.

La Grande Guerra, quale fucina di un rinnovato senso di appartenenza nazionale, ma anche quale evento ben interpretabile sotto due ottiche opposte ma, in qualche modo, collimanti. Partendo dall’assunto base che la Prima Guerra Mondiale fu il punto d’arrivo di un processo storico iniziato con la Rivoluzione Francese ed i Risorgimenti Europei, essa può esser vista come il tragico atto finale della metastorica e geopolitica ambizione delle Potenze marinare e mercantili (Gran Bretagna ed Usa in primis, seguite dalla Francia…) di eliminare dallo scenario geopolitico quegli Imperi che, ad Est come ad Ovest avevano, per troppo tempo, mantenuto una funzione stabilizzatrice sul “kontinentalblock” euro- asiatico, frenando l’impetuosa espansione dell’economia capitalista globale, sorretta da un vertiginoso sviluppo tecnologico.

Due visioni del mondo opposte, l’ecumene imperiale della vecchia Cacania e dell’Impero Ottomano, poste lì a frenare i sussulti di una Modernità sovversiva, fatta di idee liberali e materialiste centripete volte a distruggere un equilibrio che gli accordi di Vienna, sembravano voler sancire per i secoli a venire. Il Primo Conflitto Mondiale rappresenta, pertanto, il crollo finale dell’ultimo residuo di un mondo impostato sull’autorità degli ordinamenti tradizionali, Impero e Monarchia. Al suo posto una congerie di contesti nazionali o multinazionali, sempre più soggetti alle capricciose e volubili volontà dei mercati e dei loro burattinai. Ma, a ben vedere, quella stessa narrazione ideologica di cui abbiamo poc’anzi illustrato i tratti salienti, potrebbe esser tranquillamente capovolta e portare, di presso, alle stesse conclusioni poc’anzi illustrate. La Rivoluzione Francese ed i vari Risorgimenti sorsero non tanto, in qualità di sovversive agitazioni, volte a cancellare l’autorità della Tradizione, quali portabandiera di un marcio modernismo ma, al contrario, esse furono la risposta ad un plurisecolare processo di decadenza che, proprio quei tanto blasonati ordinamenti tradizionali, esprimevano e cioè Chiesa, Impero e Monarchia.

A seguito di una plurisecolare contesa tra Ecclesia ed Imperium, che aveva notevolmente indebolito e fiaccato la costruzione geopolitica del Sacro Romano Impero, l’Europa tutta si era stabilizzata attorno ad una realtà fatta di Monarchie nazionali ed Imperi, che vedeva contrapposte le prime (Inghilterra, Francia, Spagna ed altre) in quanto costruzioni nazionali dotate di maggior omogeneità etnica, ai secondi, incarnati dalla monarchia Asburgica ed in seguito Austro-Ungarica, l’Impero Russo e lo Stato Ottomano, prevalentemente multietnici. Abitati da popoli che, sotto la spinta delle istanze identitarie espresse dal Romanticismo, tutte coniugate all’insegna della riscoperta delle radici, cominciarono a spingere per vedere riconosciuti i propri diritti di nazioni, gli Imperi si dimostrarono presto inattuali e non adatti a stare al passo con le nuove istanze espresse da una Modernità che, non sempre nascevano all’insegna del percorso ideologico tracciato dall’Illuminismo, anzi.

Se le tre Rivoluzioni di inizio Modernità, inglese, americana e francese, avevano scosso gli equilibri di un mondo sclerotizzato attorno ad ordinamenti incapaci a stare al passo con i tempi, il percorso ideologico tra il 18° ed il 19° secolo, rappresentò una deviazione dalle iniziali coordinate ideologiche illuministe. Il Positivismo, il Liberalismo, lo stesso Utopismo, furono ben presto affiancati da fenomeni di più radicale ed intensa portata ideologica. Il nostrano insurrezionalismo liberale, che accompagnò l’inizio del nostro Risorgimento dovette, ben presto, fare i conti con l’insurrezionalismo repubblicano mazziniano, in Germania con il nascente marxismo, mentre in Francia Proudhon e Blanqui, durante l’esperienza della comune del ‘ 48 si fecero portatori di un ideale di socialismo che debordava notevolmente da quello espresso in quegli stessi anni da Marx ed Engels, finendo con l’innestare con costoro una polemica, ad oggi, rimasta insoluta.

Ma, a dare la stura ad un qualcosa di nuovo ed inaspettato, furono le istanze vitaliste di Schopenauer, Nietzsche e Stirner che andarono a confluire in una visione di sintesi che trovò in George Sorel, e nel suo anarco-sindacalismo, una sintesi perfetta. Uno scenario questo, che fece da contorno e propellente ad un repubblicanesimo e ad un senso dell’appartenenza che, sempre più lontani andavano facendosi dalle istanze di un Rosmini, di un Gioberti o di un Cavour e sempre più andavano in direzione di quel futuristico Interventismo, che, inteso nella sua più completa accezione di paradigma esistenziale, ebbe nelle istanze dei Corradini, dei Federzoni, dei Salvemini, ma anche dei D’Annunzio, dei Marinetti dei Mussolini e dei Michele Bianchi (e dei suoi Fasci di Azione Internazionale, sic!) gli esponenti più in vista.
La Grande Guerra fu allora vista come Guerra di Liberazione, in primis da quello stato di minorità in cui la giovane nazione italiana era, in quegli anni, relegata. La stessa vicenda risorgimentale, nel massiccio e provvido aiuto britannico ai garibaldini, rientrava in uno scenario geopolitico animato dalla necessità della Gran Bretagna di fare della neonata Italia la sentinella ai propri interessi nel Mediterraneo, proprio in concomitanza con la costruzione del canale di Suez, che avrebbe fatto del Regno Unito, il controllore della maggior parte delle rotte del commercio mondiale.

Voglia di rivalsa, senso di identità, istanze di annessione territoriale, in un’epoca di potente sviluppo industriale e di domini coloniali europei, spinsero l’Italia ad abbandonare la bismarckiana Intesa con Austria e Reich germanico, in favore dell’alleanza con quelle talassocratiche Potenze che, nell’intenzione dei governi d’allora, avrebbero dovuto concederci chissà quali domini. Ma le cose non andarono proprio così. Il Globalismo mostrò il suo vero volto, infido e traditore e fu Fiume e tutto quel che venne dopo. Ovverosia la fine dell’Italia e dell’Europa ed il progressivo estendersi del dominio del Liberal-Capitalismo, a livello globale, anche sulla pelle di quelle stesse potenze che ne avevano così tanto, caldeggiato l’ascesa.

Ed allora, visto come sono poi andate le cose, chi aveva ragione? I Metternich ed i De Maistre o Mazzini, Garibaldi e Proudhon? Domanda provocatoria ma che, non può esimerci da una considerazione sulla direzione e sulla costitutiva doppiezza ed ambiguità del destino dell’Occidente, oggi come non mai, in bilico tra un suicida asservimento al dominio dell’elemento Tecno-Economico sull’umano e tra il suo rovesciamento a favore di un nuovo tipo di oltre-uomo, grazie a quella Techne a lui resa nella sua primigenia veste di sacro strumento di perfezionamento individuale. Ed allora, nel nome della ontologica doppiezza che caratterizza la vicenda d’Occidente tutto, a proposito della nostra domanda poc’anzi formulata, non possiamo non affermare la fondamentale giustezza di ambedue le posizioni, conservatrice e rivoluzionaria, in attesa di quella sintesi tra polarità opposte, che sola può farci sperare nel ritorno e nel riscatto dell’Europa e dell’Occidente.

Umberto Bianchi

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Mussolini Speaks – Francesco Lamendola

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Siete incerti se acquistare una enciclopedia del cinema o un dizionario dei film e state cercando di capire se potete fidarvi che sia un testo obiettivo e imparziale, e non servilmente sdraiato sulle posizioni del politicamente corretto, care alla odierna cultura dominante? Ebbene, c’è una maniera pratica e semplicissima per saperlo, che vi richiederà non più di tre o quattro secondi: a nessuno piace perdere mezz’ora o un’ora per capire che razza di prodotto abbia per le mani. Sfogliate l’indice o cercate la pagina che si riferisce a un film documentario del 1933, prodotto negli Stati Uniti d’America e, ovviamente, girato in lingua inglese: Mussolini Speaks. Era in bianco e nero, perché utilizzava i documenti cinematografici ufficiali del regine, e durava 74 minuti (un’ora e un quarto: un vero lungometraggio); la voce del narratore era quella dello sceneggiatore, il celebre scrittore, attore e sceneggiatore americano Lowell Thomas (1892-1981), autore di qualcosa come una sessantina di libri di grande successo. Se quel film c’è, allora potete fidarvi della equanimità dell’opera che state sfogliando. Se non lo trovate, vi diamo un consiglio: lasciate perdere; perché una enciclopedia del cinema o un dizionario dei film che si ostina a censurare un film documentario prodotto ottantacinque anni fa, non vale nulla. È roba compilata dai soliti servi di regime, gente che non vale niente, che non possiede la benché minima onestà intellettuale. Gente che continua a mettere i mutandoni agli affreschi di Michelangelo, come si faceva nel tardo 1500; oppure che copre i dipinti e le sculture che rappresentano dei corpi nudi, come si usa oggi, se viene in vista di Stato un presidente del consiglio iraniano. E mi raccomando, niente vino in tavola, per carità: costui potrebbe scandalizzarsi. Solo acqua: acqua e la deliberata, impudica ostentazione della propria autocensura.

Ma che cos’è questo Mussolini Speaks che pretendiamo di adoperare come se fosse una cartina al tornasole per verificare il grado di serietà e attendibilità di un dizionario dei film? Scommettiamo che non ne avevate mai sentito parlare; tranne, forse, nel caso che voi apparteniate a quell’1% scarso della popolazione che possiede un forte interesse per le cose del cinema e che, pertanto, si sia costruita una discreta cultura specialistica in materia. Altrimenti, questo “buco” nella vostra cultura di cinefili è abbastanza scusabile, visto che proprio i produttori del film, che erano, guarda caso, due ricchi ebrei americani del sistema hollywoodiano, Harry e Jack Cohn (il primo come produttore ufficiale e il secondo quale autore del montaggio), quando poi le vicende della politica internazionale misero l’Italia e il Tripartito, di cui essa faceva parte, in rotta di collisione con gli Stati Uniti, fecero il possibile e l’impossibile per far dimenticare quello che, a posteriori, non poteva che apparire all’opinione pubblica statunitense come un disgraziatissimo incidente. Come dire che gli scheletri nell’armadio non sono una specialità italiana, ma sono una merce che abbonda anche nelle migliori famiglie, e persino nei salotti buoni della democrazia che, allora non meno di oggi, pretende di porsi come il paradigma di tutte le democrazie del passato, del presente e del futuro.

Ecco cosa ne dice la voce di Wikipedia ad esso dedicata (abbiamo incorporato le note per comodità del lettore):

MUSSOLINI SPEAKS (Mussolini parla) è un film documentario del 1933 dedicato ai primi dieci anni del mandato di Benito Mussolini come Presidente del Consiglio dei ministri. Il film è narrato dal giornalista statunitense Lowell Thomas, che interpreta i discorsi del Duce. Il documentario include delle riprese della Marcia su Roma, del trattato di pace tra l'Italia e il Vaticano, e dei progetti ingegneristici inerenti all'Italia stessa e quelli riguardanti l'espansione coloniale in Nordafrica («New York Times review»).

«Mussolini Speaks» fu prodotto e distribuito dalla Columbia Pictures e incassò un milione di dollari negli Stati Uniti (Bob Thomas:«King Cohn. The Life and Times of Harry Cohn», Putnam’s Sons, 1967, p. 102). Gli americani infatti apprezzavano molto il dittatore per il suo anticomunismo, antisocialismo e l'immagine di governo efficiente trasmessa dal documentario (Gian Piero Brunetta, Cinema e fascismo: la soluzione del sette per cento, p. 53), tanto che nei commenti, Lowell definì Mussolini «un moderno Cesare» (Simonetta Falasca Zamponi, «Lo spettacolo del fascismo», Rubbettino Editore, 2003, pp. 93-94). Fu prodotto dai fratelli ebrei Harry e Jack Cohn (quest'ultimo fu il montatore delle scene), che dopo le leggi razziali fasciste e l'entrata in guerra dell'Italia contro gli Stati Uniti fecero di tutto per minimizzare e occultare la precedente simpatia per Mussolini che emerge dal documentario (Fulvio Carro, «L’America affascinata da Mussolini: ecco cosa pensavano del Duce», sul «Secolo d’Italia» del 04/11/2015).

 

La Columbia Pictures, dunque incassò un milione di dollari distribuendo questo film documentario nelle sale cinematografiche di tutti gli Stati Uniti. La vicenda di questa pellicola è indicativa di quale fosse l’atteggiamento nei confronti di Mussolini e del fascismo sia da parte degli ebrei americani, che già all’inizio degli anni ’30 controllavano una buona parte dell’industria cinematografica e della stampa del loro Paese, sia, più in generale, dell’opinione pubblica e della stessa politica americana; atteggiamento che era ampiamente diffuso anche in Gran Bretagna, a cominciare dallo stesso Winston Churchill, e che cominciò a mutare solo a partire dalla guerra d’Etiopia e dalle sanzioni decise dalla Società delle Nazioni, per poi rovesciarsi completamente dopo il 10 giugno del 1940. E se qualcuno dubitasse di quanto fossero popolari il Duce e il suo governo negli Stati Uniti degli anni ’30, basta che si informi sulle trionfali accoglienze riservate a Italo Balbo quando giunse a New York il 19 luglio 1933 con i suoi 24 idrovolanti, con la folla che gli riservò un trionfo persino superiore a quello che aveva tributato, sette anni prima, al pilota americano Charles Lindbergh, al termine della trasvolata atlantica da Parigi a New York senza scalo. Il sindaco O’Brien aveva detto a Balbo: Avete reso un servizio immenso a tutti i popoli della terra. Quando la folla si assiepò al Madison Square Garden di Long Island, lo stadio più grande degli Stati Uniti, capace di contenere 200.000 persone, non solo tutti i posti erano occupati, ma c’erano altrettante persone rimaste fuori, che la struttura non era stata in grado di accogliere. Pochi mesi dopo un italo-americano, Fiorello La Guardia, veniva eletto sindaco di New York anche sulla spinta di quel trionfo mediatico.

Ora, non ci sarebbe bisogno che quanti acclamarono Mussolini nel mondo, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Brasile (dove arrivò un’altra famosa trasvolata atlantica di Balbo), in Argentina, oltre, naturalmente, a tutti quelli – e furono la maggioranza – che lo acclamarono nella sua patria, facciano carte false per minimizzare o per negare di aver avuto tutto quell’entusiasmo, di aver pronunciato quei giudizi entusiastici, se non fosse sopravvenuto un giudizio storico che è solo il riflesso di un anatema politico e ideologico, decretato appunto dopo il 10 giugno del 1940. Quel che vogliamo dire è che se la cultura storiografica e, in generale, l’intellighenzia liberaldemocratica, sia americana, sia italiana, avessero la decenza di non giudicare Mussolini e il fascismo con il metro riservato agli sconfitti, ma si sforzassero di essere più equi, nel valutare le ombre e le luci di quell’uomo e di quel regime, ecco che potrebbero anche permettersi di non arrossire e di non farfugliare allorché qualcuno sbatte loro davanti documenti come Mussolini Speaks e chiede conto di quegli apprezzamenti lusinghieri. È solo il fatto che Mussolini è finito a Piazzale Loreto, e che il fascismo è uscito stritolato dalla Seconda guerra mondiale, quando si è giocata la partita decisiva per il controllo finanziario ed economico del mondo, e l’Italia l’ha malamente perduta (anche la Germania e il Giappone, più consapevoli della posta in gioco, l’hanno perduta, ma non così malamente, in senso politico e morale) che adesso costringe i rappresentanti della cultura democratica a sputare sulla sua memoria, proprio gli stessi che, a suo tempo, ne riconobbero i meriti e forse persino li esagerarono. Tralasciando gli intellettuali di formazione o di mentalità marxista (che pure, almeno in Italia, sono tuttora la maggioranza, anche se variamente travestiti, specie da cattolici), per l’evidente malafede della loro critica, proprio loro che erano nemici della democrazia ben più spietati dei fascisti, restano l’incoerenza e l’ipocrisia dei liberali, di qua e di là dell’Oceano Atlantico: dei Croce con la loro “calata degli Hiksos” e di tutti quelli che dipingono il fascismo come il Male Assoluto, e Mussolini come la quintessenza del Male, senza poter spiegare perché, a suo tempo, dicevano e scrivevano su di lui cose completamente diverse. Si prenda il caso degli storici anglosassoni delle ultime due generazioni: dell’inglese Denis Mack Smith, per esempio, o dell’australiano Richard J. Bosworth, autori di voluminosi e popolarissimi volumi nei quali si sono sfogati a riversare tutta l’acredine possibile verso Mussolini e il suo movimento, non senza qualche sfumatura autenticamente razzista, specie il secondo, nei confronti del popolo italiano, giudicato come notoriamente inaffidabile e fanfarone. Ma sarebbe questo il loro giudizio, se Mussolini fosse morto improvvisamente verso il 1935 e se non ci fosse di mezzo, fra loro e la loro prospettiva, la Seconda guerra mondiale? A noi sembra evidente che Mussolini piaceva, e piaceva molto, sia alle classi dirigenti anglosassoni, sia all’opinione pubblica; che incominciò a piacer di meno quando, con la guerra d’Etiopia prima, indi con la guerra di Spagna, infine con la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Gran Bretagna il 10 giugno 1940, e agli Stati Uniti l’11 dicembre 1941, egli mostrò di voler passare dalle parole ai fatti anche sul piano della politica estera, il che ne fece un concorrente che andava eliminato. Fu solo allora che inglesi e americani si “accorsero” che il fascismo era cattivo: quando mise in crisi gli equilibri internazionali, insieme alla Germania e al Giappone; vale a dire quando mise in pericolo lo strapotere angloamericano sul mondo, sia a livello finanziario ed economico, sia a livello politico e militare. Finché si occupava solo o principalmente degli italiani, il Duce andava bene: faceva viaggiare i treni in orario, e soprattutto aveva il grande merito di aver stroncato sul nascere una deriva di tipo leninista; ma quando il modello corporativo si affacciò come una terza via economica e sociale a livello mondiale, e quando l’espansione italiana in Africa e nel Mediterraneo intaccò le posizioni acquisite dagli anglosassoni (che non gli perdonarono mai la conquista dell’Etiopia; mentre gli inglesi da parte loro occupavano illegalmente l’Egitto, Stato in teoria indipendente e sovrano), solo allora egli divenne un nemico da abbattere. Le leggi razziali c’entrano in questo mutamento di giudizio, ma non nel senso che le anime belle liberaldemocratiche amano, oggi, immaginare: semplicemente, fu l’Internazionale ebraica, che fino a quel momento era stata favorevole al regime (il fascismo dei primi anni, specialmente, era pieno di nomi ebrei), gli dichiarò guerra. Ed ecco la coda di paglia di personaggi come i fratelli Cohn a Hollywood; ecco l’imbarazzo della Columbia Pictures per il film celebrativo del 1933; ecco il terrore di Winston Churchill all’idea che i diari di Mussolini cadessero nelle mani sbagliate e fossero resi di pubblico dominio (che tipo di accordo c’era stato fra i due, oltre all’ammirazione non celata dell’inglese verso l’italiano?).

Un discorso perfettamente analogo, anzi, perfino più severo, si può rivolgere agli esponenti della cultura e della politica italiane di questi ultimi sette decenni. Essi hanno campato di rendita sul facile terreno dell’antifascismo, eretto da giudizio storico e politico (di per sé, almeno teoricamente, rivisitabile) a sentenza morale e metafisica inappellabile e definitiva: essendo stato il fascismo il Male Assoluto (giudizio fatto proprio, alla fine, persino da Gianfranco Fini e da altri esponenti della parte politica che si richiamava all’eredità fascista), bastava darsi da se stessi la patente di vigili custodi dell’Antifascismo, per iscriversi di diritto nel circolo dei Buoni e, naturalmente, per candidarsi a governare sia la politica italiana, sia il mondo della cultura. E così è stato; col risultato che per settant’anni non è stato possibile neanche accennare un discorso onesto sul fascismo, sia pur per farne il (tardivo) necrologio. Oggi, in Russia, si parla del comunismo, che è crollato meno di trenta anni fa, con una maggiore libertà e onestà di quanto non si faccia, in Italia, col fascismo, che è stato distrutto da più di settanta. La verità è che nel mondo, e specialmente  negli Stati Uniti, dove erano espatriati tanti antifascisti durante il Ventennio (ed erano ben poca cosa, di fronte a milioni di italiani emigrati all’estero, compattamente filo-fascisti) l’antifascismo godeva di pochissimo credito perché lo vedevano in tutta la sua impotenza e il suo velleitarismo. Fu dopo il 25 luglio del 1943 che quei personaggi, i Salvemini, gli Sturzo, eccetera, vennero tirati fuori dalla naftalina e rispediti in Italia, a fare da vassalli delle potenze occupanti. Inglesi e americani si servirono di essi, ma in cuor loro li disprezzavano. Ne avevano preso le misure, osservandoli prima e dopo la caduta del fascismo. Avevano visto ciò che in Italia nessuno può azzardarsi a dire e che loro stessi per ragioni di convenienza s’inibirono di dire: cioè che Mussolini, in confronto a quei nani, era stato un gigante.

Nota Biografica dell'Autore:
 
Francesco Lamendola è nato a Udine nel 1956. Laureato in Materie Letterarie e in Filosofia, è abilitato in Storia, Storia dell’Arte e Psicologia Sociale. Insegna nell’Istituto Superiore “Marco Casagrande” di Pieve di Soligo e ha pubblicato una decina di volumi, tra cui “Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C.”, “Il genocidio dimenticato. La soluzione finale del problema herero nel sud-ovest africano”, “Metafisica del Terzo Mondo”, “L’unità dell’Essere”, “La bambina dei sogni e altri racconti”, “Voci di libertà dei popoli oppressi.” Collabora e ha collaborato con numerose riviste storico-scientifiche e letterarie, su cui ha pubblicato 4.000 articoli. Ha tenuto conferenze per la Società “Dante Alighieri” di Treviso, per l’”Alliance Française”, per l’Associazione Italiana di Cultura Classica, per l’Associazione Eco-Filosofica, per l’Istituto per la Storia del Risorgimento e per varie Amministrazioni Comunali, oltre alla presentazione di mostre di pittura e scultura.  

Si ringrazia per la collaborazione Andrea Cometti di Accademia Nuova Italia

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Pavolini dopo l’8 settembre: è davvero un enigma? – Francesco Lamendola

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C’è una domanda, che assume quasi le dimensioni epiche e drammatiche di un enigma, la quale non cessa di tormentare, apparentemente, gli storici del periodo fascista e i biografi di Alessandro Pavolini, che fu, come è noto, ministro della Cultura Popolare dal 1939 al 1943 e poi segretario del Partito Fascista Repubblicano, dal 1943 sino alla fine, cioè alla sua fucilazione, a Dongo, il 28 aprile 1945. La domanda è questa: come poté l’intellettuale Pavolini, il raffinato Pavolini, il dolce Pavolini, diventare una specie di belva assetata di sangue dopo l’8 settembre 1943, incarnando il peggio del regime fascista repubblicano? Infatti sulle sue qualità umane, la probità, la serietà, la dedizione, la mitezza, e sulla sua caratura intellettuale, di scrittore, di giornalista, di critico cinematografico e di promotore della cultura, sono praticamente tutti d’accordo; o meglio: sono tutti d’accordo fino all’8 settembre del 1943. È come se fosse balzato fuori un altro Pavolini a partire da quella data, o, per essere più precisi, a partire dal 17 settembre del 1943, quando rientrò in Italia e si istallò a palazzo Wedekind, a Roma, in qualità di segretario del neonato, o del risorto, Partito Fascista Repubblicano, dopo che Mussolini si era fatto convincere da Hitler a riprendere in mano il potere sotto la protezione tedesca e di tentare la ben difficile operazione di riesumare un cadavere, il fascismo, che la sera del 25 luglio 1943, alla notizia della sua sfiducia e del suo arresto da parte del re, era morto di morte fulminea e pressoché indolore.

A partire da quel momento, a dire degli storici e dei biografi, la personalità di Pavolini, personaggio indubbiamente talentuoso, ma tutto sommato, fino ad allora, di seconda fila, subisce una specie di mutazione genetica; si scatenano nella sua mente chissà quali mostri, chissà quali fantasmi; in breve: l’uomo dai gusti raffinati, ambizioso, sì, ma, nello stesso tempo, complessivamente modesto, che aveva fatto carriera all’ombra di Galeazzo Ciano; l’uomo che i suoi amici intimi definivamo come “dolce”, incapace di violenza, alieno da ogni estremismo, insomma un fascista moderato, forse sedotto, come altri della sua generazione (era nato a Firenze nel 1903), dal mito di quella guerra mondiale cui non aveva fatto in tempo a partecipare, e perciò smanioso di azione, nonché tormentato, come appare dai suoi romanzi e racconti, da una vena crepuscolare decisamente malinconica e ultraromantica alla Jacopo Ortis; l’uomo che non era riuscito a sfogare del tutto quella carica di aggressività mediata dalla letteratura, né nelle facili imprese squadriste nella sua Firenze dei primi anni del fascismo, né nella guerra d’Etiopia, cui aveva partecipato al fianco del suo protettore Ciano, magnificandone i prodigi di valore aereo, ma mostrandosi anche lui stesso coraggioso e sprezzante del pericolo, dopo il ritorno di Mussolini al potere nel 1943 tirò fuori la sua seconda natura, o la sua natura fino ad allora ben nascosta: sanguinaria, brutale, fanatica e ciecamente vendicativa. Insomma dal bonario dottor Jekyll, a quel punto, sarebbe venuto fuori, chi sa come (misteri del cuore umano!, sospirano i nostri Paul Bourget in sedicesimo e i nostri piccoli Freud a un tanto il chilo) il feroce Hyde, un mostro assetato di sangue: tale è la similitudine che tira in ballo uno dei suoi biografi, Arrigo Petacco, nel suo libro che, peraltro, non è dei peggiori – vogliamo dire: non è dei più faziosi - fra quanti sono stati scritti per rievocare la figura dell’ultimo segretario del Partito fascista.

E tuttavia, ci permettiamo di obiettare: quella domanda è davvero ben posta? È proprio vero che Pavolini ha subito una inspiegabile mutazione nei giorni del settembre 1943? È proprio vero che egli era stato così mansueto prima di quella scadenza, e così spietato dopo? E, più in generale, è proprio vero che egli, nel periodo di Salò, fu quella belva assetata di sangue che ci viene descritta dalla storiografica e dalla saggistica dominanti? Questi interrogativi sono tanti più interessanti, e tanto più urgenti, in quanto, a ben guardare, dal modo in cui si pongono tali domande, e dalla prospettiva che si adotta per tentare di rispondere, dipende non solo il giudizio storico sulla persona di un singolo individuo - il quale, ripetiamo, in fin dei conti, è stato una figura secondaria nella storia del fascismo, che ebbe un ruolo abbastanza marginale nella fase iniziale del movimento e un ruolo dirigente, sì, ma pur sempre in qualche modo subordinato, durante il regime, e che Mussolini stesso aveva esautorato qualche mese prima del 25 luglio 1943, togliendogli il ministero della Cultura Popolare e relegandolo alla direzione del Messaggero – ma su tutto il fascismo dell’ultima stagione, quello di Salò. Si tratta cioè di capire, o almeno di tentar di capire, attraverso le scelte di Pavolini nel periodo 1943-45, il punto di vista e la temperie morale che guidò le scelte di tanti altri giovani italiani, i quali, spesso rimasti estranei al fascismo, o in posizioni di seconda e terza fila, dopo l’8 settembre fecero una scelta decisa e irrevocabile, legando il loro destino a un regime chiaramente morituro, che nessuno, purché lucido di mente, poteva illudersi che avrebbe potuto sottrarsi alla resa dei conti finale. A noi sembra di poter dire che quasi nessuno degli studiosi italiani ha valutato con sufficiente onestà e obiettività quelle scelte e quelle persone; per non parlare dei giornalisti e degli scrittori i quali, pur non essendo dei veri studiosi, hanno voluto ugualmente  pronunciare il loro giudizio, sprezzante e durissimo, su quella generazione di italiani, e specialmente di giovani - lo stesso Pavolini, l’8 settembre del 1943, non aveva ancora compiuto quarant’anni – i quali salirono a bordo di una nave che stava affondando e lo fecero in piena consapevolezza, sapendo cioè di andare incontro al disonore, alla morte e anche a qualcosa di peggio, la damnatio memoriae. Pertanto ci pare che sia giunto il tempo, ormai da un pezzo, di guardare con maggiore serenità e imparzialità alla generazione di Salò e di provare a comprendere, non necessariamente a condividere e ad approvare, il dilemma in cui si trovarono quei giovani, liberandoci, per prima cosa, dagli stereotipi della cultura militante antifascista e democratica, a causa dei quali, per oltre settant’anni, non è  stato possibile parlare di tali cose con un minimo di pacatezza. Non è certo un caso, infatti, che la sola storia della repubblica di Salò scritta con organicità e con un certo sforzo, peraltro insufficiente, di obiettività. sia uscita dalla penna di uno storico non italiano, l’inglese Frederick William Deakin; a parte l’ultimo volume della biografia di Mussolini di Renzo De Felice, Mussolini l’alleato, vol. III, La guerra civile 1943-1945, che, come è noto, fece scandalo e suscitò altissimi lamenti da parte della cultura politicamente corretta, già solo per il fatto di aver usato, fin dal titolo, l’aborrita espressione guerra civile.

Scriveva, dunque, Arrigo Petacco nella sua biografia Pavolini. L’ultima raffica di Salò (Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1982, pp. 157-158):

 

Anche Pavolini si rivela molto attivo in questa corsa alla successione di Mussolini. Ritiene, non a torto, di poter godere della protezione di Goebbels, ma è anche consapevole di possedere le qualità indispensabili (fede, ardimento, preparazione culturale) per ridare vita in Italia ad un movimento fascista capace di riscattare l’onta badogliana.

È in quella fredda estate baltica che matura quella sua trasformazione che sarà motivo di sorpresa e di sgomento per quanti lo conoscevano. Il tenebroso mister Hyde, che forse già si nascondeva nelle profondità del suo animo, emerge con violenza allontanando l’immagine del bonario dottor Jekyll. Nel suo lucido delirio egli abbozza in quei giorni il progetto letterario di restituire al fascismo la purezza e l’entusiasmo della “prima ora”, riesumando i vecchi, intransigenti ideali dello squadrismo che il regime imborghesito ha, a suo parere, avvilito e deluso.

Scherzi dell’età: come capita a molti quarantenni quando rievocano i loro vent’anni (che sono sempre belli, meravigliosi, perché il filtro della memoria ha cancellato tutto ciò che è sgradevole) Pavolini ora si crogiola nell’illusione di far rivivere un mondo che non è mai esistito. Dello squadrismo che ha vissuto giovanissimo, egli ricorda solo i momenti eccitanti dell’azione, dell’avventura, del “tutti per uno, uno per tutti” che la sua fantasia ha mitizzato. In questa sua trasposizione onirica della storia, i ceffi da galera che all’inizio degli anni venti manganellavano, incendiavano, rubavano, uccidevano – tanto che lo stesso regime li aveva poi messi in disparte – assumono ora le sembianze di puri eroi ingiustamente puniti. Solo richiamando costoro sarà possibile, egli sostiene, restituire al fascismo la sua antica purezza.

Con quest’idea fissa come un’ossessione, Alessandro Pavolini attende la chiamata nel suo malinconico esilio di Koenigsberg. “In Germania” racconterà più tardi Edmondo Cione, un filosofo approdato a Salò, “Pavolini sosteneva la necessità di un’epurazione sanguinosa, specie contro i fascisti che a parer suo erano stati dei traditori”. Auspica, insomma, un lavacro di sangue purificatore; è convinto che per far risorgere lo spirito dello squadrismo sia necessario gettare sull’altare le teste mozzate di coloro che hanno tradito il regime dopo averne goduto i privilegi… Prima fra tutte, quella del suo amico Galeazzo Ciano.

Siamo al prologo di un dramma shakespeariano.

 

Questa pagina di prosa offre un buon esempio, a nostro avviso, di come non vanno impostate le questioni storiografiche. Il richiamo a Jekyll e Hyde non appartiene al mondo della ricerca storica, e neppure alla psicologia, ma semplicemente alla (cattiva) letteratura, perché in esso la conclusione è già insita nella premessa: pessimo metodo per cercare la verità. E il bello è che Petacco addebita a Pavolini una velleità romantica e letteraria: restituire al fascismo la purezza della prima ora. Quando poi tira fuori gli scherzi dell’età e l’andropausa, ovvero la nostalgia dei quarantenni per i loro vent’anni, al lettore viene ammannito un piatto ancor più discutibile: una psicologia da portinaie. Ed è Petacco, non Pavolini, che continua a ragionare secondo schemi letterari: uno per tutti e tutti per uno lo ha pescato dal bagaglio delle sue letture adolescenziali, da Dumas e probabilmente anche di Salgari. Però ci presenta queste banalità come acute intuizioni psicologiche: la regressione all’infanzia, tipica dei caratteri insicuri e conservatori, spaventati dal nuovo eccetera, eccetera; buon per noi che non sfodera anche il carattere sadico-anale e altre amenità del genere pseudo psicanalitico. E quando scrive che Pavolini auspica un lavacro di sangue purificatore, e che è convinto che per far risorgere lo spirito dello squadrismo sia necessario gettare sull’altare le teste mozzate di coloro che hanno tradito il regime dopo averne goduto i privilegi, è ancora lui, Petacco, che fa della letteratura, o meglio ancora del teatro, secondo gli stereotipi del Grand-Guignol. Pavolini come un novello Saint-Just? Certo, potrebbe anche essere. Ma perché non partire dall’interpretazione più semplice, più lineare, più plausibile, senza scomodare né Stevenson, né Dumas, né I giacobini di Federico Zardi o addirittura Shakespeare? Forse Pavolini voleva semplicemente ripulire il Partito fascista da traditori e opportunisti: cosa perfettamente logica, in quelle condizioni. Se no, chi glielo faceva fare di accettare un incarico così pericoloso? Lui pensava, e non a torto, che il 25 luglio era stato possibile perché Mussolini era stato troppo generoso con la fronda interna e aveva trattato con i guanti i suoi ex compagni di un tempo, che brigavano e trescavano col re e con i nemici del regime (si tenga presente che Pavolini era stato mandato in Germania, nel 1934, proprio per informarsi sulla notte dei lunghi coltelli e stendere una relazione sull’eliminazione di Ernst Röhm e dei vertici delle SA, destinata allo stesso Mussolini).

E qui viene fuori, inevitabilmente, il discorso sul processo e la fucilazione di Ciano, entrambi fortemente voluti da Pavolini. Certo, è molto italiano, cioè molto sentimentale, rinfacciare a Pavolini la sua “ingratitudine” e vedere in quell’episodio la sua disumanità, la sua sete di sangue. Ma perché non vederci la prova del fatto che Pavolini metteva il bene del partito - che per lui, in quel frangente, era tutt’uno con la salvezza della Patria – al di sopra degli affetti privati? Perché non vedere una dimostrazione del suo senso del dovere, che gli faceva posporre i vincoli di amicizia personale a ciò che riteneva doveroso verso il popolo italiano, che aveva già immolato tanti suoi figli per la difesa della Patria? Che c’entra questo con l’ingratitudine? Tutti sanno che Dante, quand’era priore di Firenze, votò, come gli altri, per l’esilio a Sarzana del suo amico fraterno Guido Cavalcanti, che vi contrasse la malaria della quale, poco dopo, sarebbe morto; e tutti sanno che non solo pose all’inferno, ma rivelò al mondo il peccato di sodomia del suo amato maestro Brunetto Latini: eppure nessuno si è mai sognato di tacciare Dante d’ingratitudine o disprezzo dell’amicizia. Semplicemente, per Dante il bene della Patria veniva prima dei suoi affetti privati, che pure ebbe forti e nobili. Perché usare due pesi e due misure, quando si tratta di Pavolini? Ciano, con il voto del 25 luglio 1943, insieme a Grandi e Bottai, provocò il collasso del regime, dal quale aveva ricevuto tutto. È vero: quel voto fu perfettamente legale sul piano giuridico, perché Mussolini stesso lo pose e lo accettò. Ma sul piano politico e morale, la faccenda è ben diversa: Ciano sapeva di tradire il fascismo e di tradire il suocero: è inutile negarlo. È strano che la vulgata antifascista si sia tanto preoccupata della pretesa ingratitudine di Pavolini verso il suo ex amico Ciano, il quale, fino al 25 luglio, era stato uno dei massimi capi fascisti, tanto quanto Farinacci, Ricci, Gradi, eccetera. Non è, per caso, che si vuol screditare comunque la figura di Pavolini? Se si fa passare l’idea che egli fu una belva coi suoi ex amici, tanto più facile sarà addebitargli tutti i morti della guerra civile. Non fu lui a ordinare che si procedesse con la massima severità contro i ribelli, cioè i partigiani? Certo; ci si dimentica, però, di dire che a scatenare la guerra civile non furono i fascisti, ma i partigiani, specialmente quelli di fede comunista. E sappiamo che non ebbero scrupoli a suscitare le repressioni tedesche e fasciste, come nell’episodio di via Rasella, per mero calcolo politico. Furono loro le belve assetate di sangue: e lo si vide il 25 aprile 1945 e nei giorni successivi a quella data, quando torturarono, stuprarono, derubarono e uccisero migliaia e migliaia di persone, non si saprà mai quante esattamente, anche e soprattutto persone inermi, giovani maestre, impiegati comunali, preti, ausiliarie dell’esercito repubblicano (non “repubblichino”, caro Petacco) e perfino seminaristi, oltre ad un buon numero di partigiani non comunisti. Fu una mattanza; nel solo “triangolo della morte” in Emilia persero la vita a migliaia; circa 100 sacerdoti solo nelle province di Modena, Parma e Bologna. I fascisti, quando presero il potere, fra il 1922 e il 1925, non avevano agito così: anche se ce li descrivono come belve assetate di sangue, i morti, in confronto, furono pochissimi: eppure, fra il 1919 e il 1922, c’era stata una guerra civile, sia pure a bassa intensità. E dopo aver sconfitto i loro avversari, i fascisti sarebbero stati in condizione di scatenare delle rappresaglie ben più estese: avrebbero potuto, volendo, in base alla legge della forza, decapitare l’antifascismo, eliminando definitivamente migliaia di avversari. Non solo non lo fecero, ma è noto che molte mogli e altri familiari di antifascisti arrestati si rivolsero personalmente a Mussolini per chiedere clemenza per i loro cari, e che quasi sempre Mussolini rispose favorevolmente. Potremmo citare decine e decine di nomi, a cominciare da quello di Guido Bergamo. Ma anche Pietro Nenni, Mario Bergamo, Errico Malatesta e tanti altri poterono o fuggire all’estero, o seguitare a vivere senza molestie in un’Italia fascista che gli storici politicamente corretti hanno sempre descritto come un immenso campo di concentramento. Questo, però, non è lo stile dei dittatori. Lasciando stare il caso dell’Unione Sovietica, dove il compagno Stalin provocò la morte di 20 milioni di suoi connazionali per stabilire saldamente il proprio potere, e limitandoci a fare un confronto con una tipica dittatura di destra, quella di Francisco Franco, furono circa 30.000 i dissidenti spagnoli passati per le armi a guerra civile ormai finita, nel 1939, più altri 2.600 che vennero uccisi nel corso delle ultime azioni di controguerriglia. E quanti ne fece assassinare Mussolini, quando avrebbe potuto, se lo avesse voluto? Nessuno. Si parla sempre di Matteotti e dei fratelli Rosselli. Ma che a ordinare l’assassinio di Matteotti sia stato Mussolini, al quale non conveniva affatto, non è mai stato provato; mentre è certo che Ciano era implicato sino al collo nell’assassinio di Carlo Rosselli (Nello fu ammazzato per sfortuna, in quanto si trovava casualmente insieme al fratello).

E dunque, tornando a Pavolini, forse non ci fu nessun Jekyll e Hyde; forse egli fu solo una persona coerente e incapace di doppiogiochismo, che non volle tirarsi indietro quando la nave stava affondando, né voltare le spalle a colui al quale doveva tutto. A differenza di Ciano, Pavolini aveva sia il senso dell’onore, sia la coerenza e la lucidità politica per capire che non era possibile, dopo aver servito il fascismo per vent’anni, riciclarsi in chiave non fascista o addirittura antifascista, solo perché la guerra andava male e la sconfitta appariva sempre più probabile. Non vogliamo dire, con questo, che fu un eroe: le sue mani, è vero, son macchiate di sangue. Ma i tempi erano quelli: in una guerra civile, non ci sono i buoni e i cattivi, ma solo cattivi. Per settant’anni la cultura dominante ha cercato di persuaderci che la causa antifascista era buona, e perciò, se anche qualcuno sbagliò, i partigiani, nel complesso, erano moralmente nel giusto, i fascisti no. Ma questo è facile dirlo, visto come è andata a finire la guerra: c’era tutto da guadagnare a saltare sul carro del vincitore, e tutto da perdere a mostrarsi solidali coi vinti. E così, si è fatta calare una pesante cortina di silenzio sulle atrocità comuniste e gli eccidi a danno dei vinti, come quello dell’eroe e mutilato di guerra, Carlo Borsani, fucilato come un cane, benché cieco e medaglia d’oro al valore: di quali crimini si era macchiato? E i sette fratelli Govoni? E la povera Norma Cossetto? E il tredicenne Rolando Rivi? Davvero: la storia di quel ventennio è tutta da riscrivere. E sarebbe ora che qualcuno lo facesse…

L'articolo Pavolini dopo l’8 settembre: è davvero un enigma? – Francesco Lamendola proviene da EreticaMente.


Fascismo e Massoneria, storia di rapporti complessi – 1^ parte

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1. La massoneria italiana tra ‘800 e ‘900

Le logge massoniche si diffondono nella penisola italiana a macchia di leopardo fin dalla metà del XVIII secolo: la prima loggia viene fondata da alcuni massoni inglesi a Firenze tra il 1731 ed il 1732 (1). Con l’avventura napoleonica, la massoneria si espande in tutta Italia mediante la penetrazione delle idee della Rivoluzione Francese, idee già in periodo prerivoluzionario divulgate proprio per opera della massoneria, che dalla fine degli anni 70 in poi si trasforma progressivamente da associazione speculativa «… in una struttura cospirativo-terroristica legata al segreto, al giuramento di fedeltà dei membri, alla tecnica del colpo di Stato, alla manipolazione della pubblica opinione» (2).

La Massoneria, dunque, è protagonista del processo di abbattimento dell’ancien régime, che in Italia solo casualmente coincide con la realizzazione dell’antica aspirazione all’unità della Nazione, ed alla diffusione, in un’accezione solo in parte “nuova”, di un concetto antico, quello di “nazione”. Raggiunta l’unità della nazione italiana con la coincidenza di Kulturnation e Staatnation, la massoneria si “appropria” del “mito” di quello che viene chiamato “Risorgimento”, attribuendo all’azione dei massoni sia il crollo delle monarchie assolute, sia l’Unità d’Italia. A dire il vero, sono i gesuiti di Civiltà Cattolica che, con forzature notevoli, presentano l’intero processo risorgimentale come una sorta di “complotto massonico” (3). Fin dall’inizio, infatti, la Massoneria aveva avuto un nemico: la Chiesa Cattolica. Con la costituzione apostolica In eminenti apostolatus specula del 1738, Clemente XII commina la scomunica latæsententiæ ai massoni. La scomunica viene ribadita da Benedetto XIV nel 1751 con la bolla Providas Romanorum Pontificum.

In Italia l’unificazione viene raggiunta contro la Chiesa rappresentante la religione maggioritaria, che costituiva anche la religione ufficiale del Regno di Sardegna (4), il cui espansionismo costituì il regno d’Italia. Pertanto, la ricostruzione del risorgimento quale “complotto massonico” da parte degli ambienti cattolici che vedono Porta Pia come un sacrilegio prima che un’usurpazione, è strumentale alla tesi del Risorgimento come complotto contro il cattolicesimo romano. La Massoneria non confuta la tesi di Civiltà Cattolica, anzi: la rilancia. Dai testi immediatamente successivi alla raggiunta unità (5), fino alla pubblicistica più recente, i massoni rivendicano un ruolo decisivo nel processo risorgimentale arrivando a sostenere: «… il ruolo della Massoneria nell'unità d'Italia - soprattutto attraverso la cosiddetta Carboneria - fu ancora più importante che nella fondazione degli Stati Uniti» (6).

L’affare “Giordano Bruno”

Individuata la Chiesa Cattolica come “nemico”, la Massoneria compie un’altra operazione propagandistica, “appropriandosi” dei perseguitati dalla Chiesa Romana, accomunandoli tutti nell’unica categoria di “liberi pensatori”. Questa operazione diventa eclatante con la creazione del mito di Giordano Bruno “protomassone”, che tocca la sua acme quando, nel 1889, auspice il Presidente del Consiglio Francesco Crispi (massone di rito scozzese), viene inaugurata una statua del Nolano in Campo dei Fiori. Fin dal 1886 Giordano Bruno era stato elevato a simbolo della Massoneria italiana, con l’istituzione dell’Ordine di Giordano Bruno quale massima onorificenza dell’associazione. In effetti, i massoni si “appropriano” della figura di Giordano Bruno, compiendo una vera e propria mistificazione del pensiero del frate “eretico”, tanto da far dire: «Che cosa c’è di più bigotto di quei fieri atei, tutti convinti che un mistico sovrano come Giordano Bruno fosse uno dei loro? La Chiesa, che lo ha bruciato, sapeva assai meglio con chi aveva a che fare. Loro invece gli hanno anche dedicato un monumento, come fosse il Milite Ignoto. E gli illuministi? Se davvero esistessero, dovrebbero evitare innanzitutto di credere nei Lumi. Ecco la nuova “gente pia”, neppur protetta nella sua bigotteria dalle mediazioni cerimoniali, dall’arcano pragmatismo di una Chiesa. Non sanno su quali presupposti agiscono e non amano che qualche irriverente sofista glielo chieda. Meglio che lo coprano con le loro pratiche superstiziose» (7). In modo meno corrosivo e quasi “giustificativo” di questa sorta di “appropriazione indebita”, si è scritto: «L’elevazione del Nolano a emblema della Massoneria … non va giudicata sotto il profilo della rispondenza filologica tra il suo sistema filosofico e gli orientamenti prevalenti nella Famiglia … bensì va apprezzata per la sua efficacia rappresentativa. Per i massoni (che non ne conoscevano il pensiero) Bruno era la vittima del dogmatismo teocratico di Roma in combutta con i sordidi intrighi dell’assolutistica diplomazia veneziana. Al tempo stesso era l’uomo che fra il rogo e la rinunzia alle sue più profonde convinzioni scelse il martirio, onorando, quindi, non l’ateismo o il rifiuto del cristianesimo (come poi asserito da certo malinteso positivismo) ma la libertà di “ricerca” e, quindi, la libertà di religione» (8). L’opera propagandistica della Massoneria italiana a cavallo tra i secoli XIX e XX tende dunque ad accreditarsi quale protagonista del Risorgimento e della “lotta all’oscurantismo”, incarnato dalla chiesa cattolica (9). Due note a margine di tale precisazione: il più importante studioso italiano di Giordano Bruno, Gabriele La Porta, nelle sue trasmissioni televisive e nelle sue numerose pubblicazioni, ha ribadito più volte quanto la dottrina del Nolano nulla abbia a condividere con il mondo delle idee illuminate e del libero pensiero, essendo, al contrario, inserita nel solco arcaico della tradizione ermetica; Benito Mussolini, durante le trattative con la Chiesa Cattolica per il Concordato, si oppose alla richiesta di abbattimento della famosa statua a Campo dei Fiori, concedendo solo il divieto di svolgervi manifestazioni anticlericali.

La penetrazione nella società civile

Il suo porsi come contraltare all’antirisorgimento (10) ed al clericalismo, unito alla scomparsa per naturale esaurimento delle sette segrete che avevano operato durante il periodo risorgimentale, polarizza verso la Massoneria tutti coloro per i quali il Risorgimento era un mito e la Chiesa Cattolica sentina di ogni male. Il non expedit di Mastai Ferretti impedisce ai cattolici legati alla Chiesa di occuparsi di politica, onde si può dire, come noterà poi Gramsci (11), che la scena politica italiana, fino alla fondazione del Partito Popolare Italiano(1919), è monopolizzata dalla Massoneria. Nonostante Aldo Alessandro Mola (12) sostenga che si tratti di una “leggenda” alimentata dagli stessi massoni, è innegabile che, nel periodo postunitario, fino alla vigilia della Grande Guerra, vi sia una massiccia presenza massonica nelle posizioni di verticedi tutti i “blocchi” del dibattito politico italiano (13). L’analisi del Mola, infatti, si ferma all’aspetto “quantitativo” della presenza massonica nella burocrazia, laddove – invece – è caratterizzante l’aspetto “qualitativo”. Per rendere l’idea, basterebbe ricordare che dei due comandanti supremi delle FF.AA. nella Grande Guerra, è massone il comandante delle forze di mare Paolo Thaon de Revel (14), ed è in “odore di massoneria” il comandante supremo Armando Diaz (15).

La vita interna della Massoneria era stata fin da subito travagliata, con scissioni, litigi, reciproche diffidenze, onde sarebbe veramente difficile tracciare un “asse medio” della posizione politica della Massoneria in quanto istituzione (nel senso che a tale termine darà Santi Romano). Certamente, un punto nodale nella storia della Massoneria italiana è la cosiddetta “scissione di piazza del Gesù”. Il 24 giugno 1908, giorno natale di Giovanni il Battista, patrono del rito scozzese antico e accettato, dal Grande Oriente d’Italia si distacca un gruppo di massoni aderenti a tale rito, guidati dal calabrese Saverio Fera, Sovrano Gran Commendatore del rito in seno al GOI, dando vita alla Serenissima Gran Loggia d'Italia, successivamente denominata Gran Loggia d'Italia degli ALAM (Antichi Liberi Accettati Muratori). La scissione è determinata dalla battaglia per l’elezione del Gran Maestro del GOI, conclusa con l’elezione di Ettore Ferrari, il quale imbocca la deriva del Grande Oriente verso il «principio democratico nell’ordine sociale» (16). È da allora che nella Massoneria si crea la diatriba politica tra l’obbedienza del GOI, accusata dagli ALAM di essere “demagogici” e gli ALAM, accusati dal GOI di essere “reazionari” (17). Come detto, massoni sono presenti in tutti le formazioni politiche. Si crea, comunque, all’interno di qualcuna di queste, il problema della compatibilità tra l’appartenenza alla massoneria e l’appartenenza a determinati partiti.

Particolarmente intenso il dibattito tra i socialisti. Per due volte (1905 e 1908), il partito indice un referendum tra gli iscritti sul tema, ma non raggiunge un numero di adesioni sufficienti ad impegnare il Congresso, per cui il tema viene portato per la prima volta all’XI Congresso di Milano del 1910, in cui da Mondolfo, Mastracchi, Salvemini e Angelica Balabanoff presentano una mozione che invita «i socialisti che non sono massoni a non entrare nella massoneria e quelli che vi appartengono di uscirne» (18). L’OdG non viene approvato. Situazione rovesciata nel XIV congresso, che si svolge ad Ancona dal 26 al 29 aprile 1914. Giovanni Zibordi presenta una mozione con cui si chiede di sancire l’incompatibilità tra appartenenza alla massoneria ed iscrizione al partito, dichiarando: «Noi combattiamo la Massoneria non per le sue remote né per le più recenti origini filosofiche, ma per la sua funzione attuale, che reputiamo perniciosa per l'educazione socialista». Benito Mussolini, allora direttore dell’Avanti, si era già schierato su posizioni antimassoniche nel 1905, 1908 e nel 1910, e nel Congresso di Ancona chiede l’approvazione di OdG più radicale, che prevede la “cacciata” dei massoni dal partito, mentre nel presentare il suo originario OdG, Zibordi aveva detto: «Tutti quei nostri compagni massoni i quali sentono profondo il loro amor e devoto per il partito, sentiranno che questo loro sentimento non è compatibile colla serenità della loro coscienza massonica, essi si ritireranno dalla Massoneria per rimanere fedeli al partito. La massoneria può corrompere i corruttibili, non può corrompere le coscienze salde dei nostri compagni». L’OdG Zibordi viene integrato con la proposta di emendamento di Mussolini, che alle parole «dichiara incompatibile per i socialisti la entrata e la permanenza nella Massoneria» aggiunge: «ed invita le sezioni ad espellere quei compagni che non si conformassero nella loro condotta avvenire nelle norme su esposte». La mozione così emendata è accolta a maggioranza schiacciante.

In quel Congresso, il delegato polesano Giacomo Matteotti vota perché venga mantenuto l’originario ordine del giorno Zibordi (19). Si tratta, dunque, di una mistificazione storica quello che sostiene Alfonso Maria Capriolo (20), secondo il quale a Mussolini che proponeva l’incompatibilità «… tenne testa un giovane delegato del Polesine, Giacomo Matteotti, quasi anticipando quella contrapposizione che, dieci anni dopo, avrebbe condotto all’assassinio del leader dei socialisti riformisti, con l’avallo del capo del fascismo». Matteotti è favorevole a sancire l’incompatibilità. A votare affinché venga mantenuta la possibilità per i massoni di iscriversi al partito, è gente come Poggi, Raimondi, Lerda. Anche i nazionalisti si pongono il problema della compatibilità tra appartenenza all’associazione ed alla Massoneria. Eppure, la Massoneria italiana, vista la scarsa penetrazione del suo anticlericalismo, aveva abbracciato la scelta patriottica. Su tale “svolta” del GOI (in contrapposizione alla “Universalità” dell’istituzione massonica), significativa la balaustra inviata dal Gran Maestro del GOI Ernesto Nathan del 25 luglio 1896 ai Maestri Venerabili delle logge italiane, in cui – tra l’altro – scrive: « …bisogna che l’Ordine nostro promuova la solenne pubblica affermazione del patriottismo italiano e la contrapponga, in tutta la maestà della coscienza nazionale, alle trame sottili dei nemici della Patria» (21).

Dal contesto della balaustra si evince chiaramente che il patriottismo è invocato da Nathan in contrapposizione alla Chiesa cattolica, accusata di “tessere trame sottili” contro la Patria. In occasione della guerra di Libia, il GOI accelera la sua posizione. Ancora una volta, significativa la balaustra inviata dal Gran Maestro Ettore Ferrari il 4 novembre 1911: «Dai lontani lidi d'Africa giunge, con l'eco delle vittorie, il grido dei forti che cadono gloriosamente per la nuova affermazione della civiltà italica. Quel grido commette alla Patria la sorte degli orfani, delle spose e delle madri dei caduti. Il supremo appello si ripercuote nella grande anima italiana. La Massoneria, alta espressione della coscienza nazionale, deve, ora come sempre, immediatamente e degnamente rispondervi» (22). Il GOI apre una sottoscrizione per i soldati italiani partiti per la Tripolitania e la Cirenaica e stanzia £ 15.000,00 dal fondo comune. Gli “scissionisti” della Serenissima si mostrano ancor più estremisti sul punto. Grande entusiasmo del Sovrano Gran Commendatore Saverio Fera, che annuncia la fondazione di tre logge tra Cirenaica e Tripolitania a guerra finita e, successivamente, respinge con sdegno le accuse di crudeltà mosse alle truppe italiane (23). Nonostante ciò, come detto, anche i nazionalisti si pongono il problema della compatibilità con la massoneria. L’A.N.I. (Associazione Nazionalista Italiana), pur denominandosi “Associazione”, si organizza da subito come un partito, con una struttura piramidale tipica dei partiti organizzati, con congressi annuali, con le correnti incarnanti le diverse anime.

Fin dal primo congresso svoltosi a Firenze nel 1910, è posto il problema della compatibilità tra l’appartenenza alla massoneria e iscrizione al partito. Dopo l’introduzione, nel 1912, del suffragio universale maschile, la polemica antimassonica dei nazionalisti scoppia con maggiore veemenza. L’allargamento della base elettorale spinge ad evitare “infiltrazioni massoniche” in un partito che aspira a diventare di massa. «Il settimanale dell’Associazione “L’Idea Nazionale” propose tre quesiti taglienti a personalità di spicco: la sopravvivenza di una società segreta, quale la Massoneria, era compatibile con le condizioni della vita pubblica moderna? Il razionalismo materialistico e l’ideologia umanitaria e internazionalistica, a cui la Massoneria nelle sue manifestazioni si ispirava, corrispondevano alle più vive tendenze del pensiero contemporaneo? L’azione palese e occulta della Massoneria nella vita italiana, e particolarmente negli istituti militari, nella magistratura, nella scuola, nelle pubbliche amministrazioni, si risolveva in un beneficio o in un danno per il Paese?» (24). L’esito del referendum, ricalcato su quelli dei socialisti di cui si è detto, ha una netta prevalenza di posizioni antimassoniche. L’Idea Nazionale lancia anche un altro quesito: è compatibile l’appartenenza alla Massoneria e l’appartenenza alle Forze Armate? Anche qui, la totalità degli intervistati risponde negativamente, soprattutto riguardo al giuramento massonico, ritenuto confliggente con il giuramento di fedeltà alla Patria ed al Re a cui è tenuto il militare (25).

Allo scoppio della guerra europea nel 1914, la Massoneria italiana si schiera inizialmente su posizioni neutraliste. La balaustra del Gran Maestro del GOI Ettore Ferrari del 31 luglio 1914 (26), sostiene l’aspirazione della Fratellanza alla Pace Universale, continuando:
1. nel caso di ineluttabilità del conflitto, l’Italia deve fare la sua parte, ed i Massoni non possono non essere a fianco della Patria,
2. il Governo non può essere spinto all’intervento dai moti di piazza.

Anche gli “scissionisti” della Serenissima hanno un’iniziale posizione neutralista. Il 1° agosto 2014, il Sovrano Gran Commendatore Saverio Fera intima: «Giù le armi! Tutti al Tribunale Internazionale della pace all’Aja» (27). Senza scadere nel complottismo, l’inversione di tendenza di ambo le obbedienze verso l’interventismo si verifica dopo che il 6 agosto 1914, l’ambasciatore d’Italia a Londra, marchese Guglielmo Imperiali di Francavilla, informa il ministro degli Esteri Antonino di San Giuliano che Alfred Rothschild gli aveva confidato nel massimo segreto che, se si fosse schierata con la Triplice Intesa, l’Italia avrebbe reso “incalcolabili vantaggi alla causa della pace” e, con successivo, più articolato dispaccio dell’11 agosto, chiariva che Rotschild “non parlava a titolo personale” (28). Il barone Alfred Rotschild, è non solo ai vertici del più grande gruppo bancario europeo, ma è anche un influente dignitario della United Grand Lodge of England (29), che la Massoneria Universale considera dappertutto “madre” di tutte le massonerie. Sta di fatto che, immediatamente dopo tali comunicazioni, il GOI dà il proprio avallo alla costituzione di un corpo di volontari massoni al fine di provocare l’Austria e provocarne una reazione armata (30). Secondo la ricostruzione degli storici di tendenza massonica, tale inversione è, comunque, determinata dalle scelte di altri partiti, dalle pressioni dei fratelli legati alla causa risorgimentale, ma soprattutto, la contrapposizione con gli ambienti clericali, votati al pacifismo (31), pacifismo che i massoni ritengono nasconda la volontà di perpetuare regimi assoluti molto permeati dalla religione (cattolica in Austria, luterana in Germania, ortodossa in Bulgaria, islamica in Turchia) (32).

Per gli “scissionisti”, decisiva l’azione del fratello Gabriele D’Annunzio, campione dell’irredentismo ed affiliato alla loggia XXX ottobre di Fiume, la cui rivendicazione di italianità è conclamata nella sede della Gran Loggia, nel frattempo insediatasi a Piazza del Gesù (da cui prenderà il nome). L’interventismo porterà ad un avvicinamento dei massoni ad antichi avversari come Mussolini ed i nazionalisti. Difatti, com’è naturale, i nazionalisti si schierano subito per l’intervento, anche se con profonde lacerazioni tra i sostenitori dell’Intesa e quelli degli Imperi Centrali. Benito Mussolini ha, dal suo canto, abbandonato le posizioni pacifiste ed internazionaliste che aveva assunto nel 1911 (tanto da essere arrestato per una manifestazione contro la guerra di Libia): ha lasciato il Partito Socialista e la direzione dell’Avanti per fondare un nuovo giornale, Il Popolo d’Italia, il cui primo numero vede la luce il 15 novembre 1914, con un’apertura intitolata “Audacia”, di forte carattere interventista. Secondo Gianni Vannoni (33) il demiurgo della palingenesi di Mussolini in senso combattentistico è Massimo Rocca, le cui vicende successive s’intrecceranno con il fascismo attraversando fasi alterne. Non pensiamo, però, di aderire a tale tesi. L’evoluzione di Mussolini verso forme di movimentismo è determinata da molti fattori, ma – se proprio si deve cercare un “demiurgo” – questo non può che essere Vilfredo Pareto, con la sua teoria delle élites. Mussolini aveva seguito delle lezioni di Pareto a Losanna durante l’esilio e ne era rimasto subito folgorato. Dirà Mussolini al suo medico Georg Zachariae: «Da socialista convinto, tentai dapprima di realizzare nell’ambito del socialismo le idee che avrebbero dovuto portare a una soluzione delle grandi questioni sociali. Purtroppo, tali miei tentativi sono completamente naufragati, e per meglio spiegarle le ragioni di questo fallimento le racconterò un piccolo fatto, che mi capitò qualche anno avanti la prima guerra mondiale in una città dell’Italia settentrionale. Tenevo un discorso dinanzi a circa diecimila operai per incitarli a unire i loro sforzi e a combattere corpo e anima per gli ideali del socialismo. Venni acclamato vivamente ma allorché in lontananza si fecero vedere quattro carabinieri a cavallo gli operai dimenticarono il loro sacro entusiasmo e si squagliarono, lasciandomi là quasi solo. Quando potei di nuovo parlare a quegli operai dissi loro in faccia che erano dei vigliacchi e che non si sarebbe mai riusciti a vincere la battaglia per il trionfo del socialismo con della gente che alla vista di quattro carabinieri a cavallo scappava come lepri» (34). A convincerlo ad abbandonare i socialisti, è – dunque – la consapevolezza che le masse hanno bisogno del bagno della guerra per fare la rivoluzione (35), e che le masse stesse hanno bisogno di élites che le guidano.

Finita la guerra, l’Italia è attanagliata da una grave crisi economica e non solo, che analizzeremo infra. Il GOI, che aveva riportato Nathan alla Gran Maestranza negli anni della guerra, nel 1919 elegge a tale carica lo sconosciuto Domizio Torrigiani, mentre, morto Saverio Fera, gli “scissionisti” nel 1915 avevano elevato alla carica di Sovrano Gran Commendatore Raoul Palermi, che si muove fin da subito per partecipare attivamente alla vita politica. Mentre ambo le obbedienze maggiori continuano sulla linea del patriottismo, appoggiando l’impresa Fiumana dei legionari, convergono entrambe anche sul contrasto al montante bolscevismo, nel timore di un’espansione in Italia della Rivoluzione russa del 1917. Tuona Torrigiani: «Ma intanto il movimento operaio monta pauroso. Lo Stato par divenuto uno scenario vecchio; la sua autorità è in gran parte perduta. Noi, che concepiamo lo Stato moderno, nella sua sostanza immanente, quale suprema entità politica ed etica e quale organo necessario di realizzazioni democratiche sino alle più alte ed alle più lontane, lo vogliamo difeso, anzi restaurato, nelle funzioni sue: Resistemmo secondo le nostre forze, e resistiamo, alla minaccia di dittatura agitata dai demagoghi del proletariato, alla tirannide nuova non meno odiosa e più fosca delle antiche, che l'Ordine nostro atterrò» (36).

La Massoneria si rende conto che la borghesia italiana è una classe sclerotizzata nella difesa dei piccoli privilegi, e la ritiene incapace di opporsi al montante bolscevismo. Un “manifesto” del progetto massonico di ricostruzione dello Stato dalle macerie della guerra può rinvenirsi nella “Carta del Carnaro”, lo Statuto della Reggenza Dannunziana dell’Istria elaborata da Alceste De Ambris, massone dell’obbedienza di piazza del Gesù. Ed è in questo crogiuolo che nasce il fenomeno fascista.

Note:

1 - Luigi Pruneti - La Massoneria e l’Europa: tendenze e caratteristiche in AA.VV.. La Massoneria: La storia, gli uomini, le idee, Mondadori, Milano 2004 – pos. Kindle 5420; Aldo Alessandro Mola, “Storia della Massoneria in Italia”, Giunti, Firenze 2018 (d’ora in poi: Mola 2018), p. 26;
2 - Eugenio Di Rienzo. “Sguardi sul Settecento. Le ragioni della politica tra antico regime e rivoluzione”Guida, Napoli 2007, pos. Kindle 2230 – cfr. Giuseppe Giarrizzo, “Massoneria e illuminismo nell'Europa del Settecento”, Marsilio - Venezia, 1994;
3 - Già la Rivoluzione francese era stata presentata come opera di un complotto massonico da autori cattolici come l’abate Jacques-François Lefranc ed il gesuita AugustinBarruel, ma con ben più solidi argomenti, sia pure con evidenti forzature;
4 - art. 1 dello Statuto Albertino. Sul peso negativo che tale “vizio d’origine” ha avuto nella creazione di un’identità nazionale, cfr. Gioacchino Volpe, “XX settembre – Italia e Papato”, discorso pronunciato a Venezia il 20 settembre 1924, pubblicato in Gioacchino Volpe, Pagine risorgimentali, II, Giovanni Volpe, Roma 1967;
5 - Oreste Dito, “Massoneria, carboneria ed altre società segrete nella storia del Risorgimento italiano”, Roux e Viarengo, Torino 1905, in cui l’autore sostiene che tutte le società segrete del Risorgimento, dalla Carboneria alla Giovine Italia, agli Scamiciati, alla Sacra Fratellanza, ai Filadelfi, agli Adelfi, ai Federati, sono riconducibili alla Massoneria;
6 - Michael Baigent, Richard Leigh, “Origini e storia della massoneria. Il Tempio e la Loggia”, Newton Compton, Roma 1998, p. 235;
7 - Roberto Calasso, “La rovina di Kasch”, Adelphi, 1983, p. 339;
8 Mola 2018, p. 197;
9 - emblematico è l’inno a Satana del massone Giosuè Carducci, in altri componimenti cantore del Risorgimento. Da notare che, per accentuare il valore simbolico del monumento a Giordano Bruno, alla sua base sono incisi i volti dei “martiri del pensiero”, associando in unico contesto JanHus, JohnWycliff, Miguel Servet,Antonio Paleario, Lucilio Vannini, Pietro Ramo, Tommaso Campanella e Paolo Sarpi, aventi quale unico denominatore comune le divergenze con la Chiesa Cattolica;
10 - sul cosiddetto “Antirisorgimento”, un’acuta analisi è contenuta in Di Rienzo – “Storici smemorati, A proposito del centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia”, in NRS, 2010, vol. II, pp. 381-406
11 - v. infra;
12 - op. cit., pos. Kindle 3276
13 - sulpunto, cfr. Jean-Pierre Viallet, « Anatomie d'une obédience maçonnique: le Grand Orient d'Italie (1870-1890 circa) », MEFRM, 90, 1978, 1, pp. 185 ss.
14 - Mola 2018, p. 479;
15 - Mola 1992, p. 435. L’appartenenza di Diaz alla Massoneria è affermata da Maria Rygier, “La fracmaçonnerieitaliennedevant la guerre et devant le fascisme”, Gloton, Paris, 1929, pp. 58 s., ma non c’è alcun documento probante. Certo, molte logge sono intitolate al “Duca della Vittoria”, ma ciò non è decisivo per affermare l’affiliazione di Diaz;
16 - Mola 2018, p. 219
17 - Michele Terzaghi, “Fascismo e massoneria”, Edit. Storica, Milano 1950, pp. 32-33;
18 - Giovanni Artero, “Massoneria, socialismo, anticlericalismo dall’età giolittiana al fascismo”, Buccinasco, Memoriediclasse, 2009, p. 8
19 - Il resoconto del dibattito congressuale è pubblicato su L’Avanti del 28 aprile 1914
20 - L’Avanti, 25 aprile 2014;
21 - Fulvio Conti, “La Massoneria e la costruzione della nazione italiana dal Risorgimento al fascismo”, in AA.VV.. “La Massoneria: La storia, gli uomini, le idee” cit., pos. Kindle 2921-2922
22 - Mola 2018, p. 409. Questa posizione è il culmine di una travagliata stagione per la Massoneria Europea, che aveva visto il GOI convocare, il 20 settembre 1911, un congresso internazionale al termine del quale si auspicò il sorgere un organismo internazionale intermassonico, che avrebbe dovuto, nelle intenzioni, costituire una sorta di “camera arbitrale” per le controversie tra stati per prevenire qualunque conflitto. Giuseppe Leti, uno dei relatori del GOI al congresso (cui parteciparono anche i massoni turchi) pronunciò un discorso inneggiante al “cosmopolitismo” massonico, che sarebbe apparso in conflitto con la successiva posizione assunta in relazione al conflitto italo-turco – v. Marco Cuzzi – “Dal Risorgimento al Mondo Nuovo” – Mondadori, Milano 2017, pos. Kindle 857 - Marco Novarino, “La Massoneria tra cosmopolitismo pacifista e interventismo” – in “Guerra e nazioni – “Idee e movimenti nazionalistici nella Prima guerra mondiale”, Guerini e Associati, Milano 2015, p. 224;
23 - Cuzzi, op. cit., pos. Kindle 903 ss.
24 - Mola 2018, p. 410;
25 - In realtà, la questione del giuramento è stata travisata allora, come sarà travisata anche in seguito (e lo è tuttora). Il giuramento massonico riguarda la sfera privata e non confligge con altri giuramenti afferenti all’azione pubblica dell’individuo, ma la questione è estranea al tema di questo lavoro;
26 - pubblicata in «Bollettino del Rito Simbolico Italiano», n. 57, ottobre 1914;
27 - Cuzzi, op. cit., pos. Kindle 1234;
28 - Ferdinando Martini, “Diario, 1914-1918: A cura di Gabriele de Rosa”, Mondadori, 1966, p. 137, n. 31;
29 - “The Freemason's Chronicle”, voll. 51-52, p. 226;
30 - Conti, “Storia della massoneria italiana dal Risorgimento al fascismo”, Il Mulino, Bologna 2003, p. 239;
31 - il papa Benedetto XV il 1° novembre 1914 con l’enciclica Ad Beatissimi Apostolorum aveva lanciato un appello affinché tacessero le armi;
32 - Gustavo Canti, “La Massoneria italiana nell’ultima Guerra di redenzione”, Cooperativa tipografica Egeria, Roma 1923, p. 23;
33 - “Massoneria, Fascismo e Chiesa cattolica”, Laterza, Bari-Roma 1980, p. 18;
34 - Georg Zachariae, “Mussolini si confessa”, B.U.R., Milano 2004, p. 57;
35 - De Felice – “Mussolini il Rivoluzionario” Einaudi, Torino 1965, intitola il cap. 10 (pp. 288 ss):“Il mito della guerra rivoluzionaria” ;
36 - Discorso all'Assemblea costituente della massoneria italiana il 9 maggio 1920, Tip. Bodoni e Bolognesi, Roma 1920, p. 9 (ISRT, Archivio Torrigiani, s. III, fasc. 2.1.3), citato in Laura Cerasi, “Democrazia del lavoro, laicismo, patriottismo: appunti sulla formazione politica di Domizio Torrigiani”, in AA.VV., “La massoneria italiana da Giolitti a Mussolini: Il gran maestro Domizio Torrigiani”, Viella, Roma 2014, pos. Kindle 196.

(continua…)

Studio storiografico a cura della Redazione di EreticaMente

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Davvero vogliamo favorire chi ci vuole annientare? – Francesco Lamendola

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Se vogliamo sapere chi siamo oggi, noi cittadini europei, dobbiamo tornare indietro di settant’anni e osservare una fotografia scattata nel 1945 da una reporter americana, Lee Miller. Al seguito dell’esercito americano attraverso la Normandia, Parigi, l’Alsazia e infine la Germania vinta e conquistata, costei aveva una speciale predilezione per fotografare i cadaveri dei tedeschi, possibilmente in uniforme. Una foto celebre l’ha immortalata dentro la vasca da bagno dell’appartamento di Hitler, a Monaco, gli stivali posati a lato; altre foto, sue, rappresentano ufficiali morti con il ritratto del Führer posato accanto, in frantumi. Ma il colmo del sadismo di questa fotografa bella e narcisista, moglie, amica e amante di fior d’intellettuali e artisti di due continenti, che sin da piccolina suo padre fotografava nuda, e che era cresciuta nel culto di se stessa, lo raggiunge nella foto che ha scattato nello studio del borgomastro di Lipsia, dove un’intera famiglia si era suicidata prima dell’arrivo dell’Armata Rossa. Lui, il padre, giace alla scrivania, con la testa riversa sullo scrittoio; la moglie è seduta sulla poltrona di fronte a lui, il braccio penzoloni fino a terra; la bellissima figlia ventenne, bionda come una fata delle leggende nordiche, composta, col bracciale della Croce Rossa intorno alla manica della giacca, è seduta sul divano, la testa rovesciata all’indietro, e par quasi che dorma; ma si è avvelenata, e non si sveglierà più. Tre persone morte, ma composte, messe quasi in posa per un dramma teatrale; e chissà che in posa non le abbiano messe per davvero, a vantaggio dell’effetto “artistico”.

Questa foto ha fatto il giro del mondo. O meglio, queste foto, perché Lee Miller ha voluto immortalare la scena di quell’ordinato salotto di una famiglia borghese tedesca con l’ossessiva insistenza dei maniaci, fotografandola anche dall’alto e da diverse angolature. Gli americani, e in genere l’opinione pubblica dei vincitori, hanno visto la  fine della Germania attraverso immagini come questa: il sogno dell’Ordine Nuovo ridotto alle dimensioni di un suicidio collettivo, sulla falsariga di quello di Hitler ed Eva Braun. Erano così cattivi e così colpevoli, i tedeschi, che hanno preferito ammazzarsi con le loro mani, risparmiando la fatica al boia. Questo hanno pensato milioni di persone, mano a mano che le rivelazioni sui campi di sterminio nazisti gettavano definitivamente nel fango la reputazione della Germania. Oscurando gli orrori ancor più terribili dei gulag di Stalin, e facendo quasi scordare le pur recentissime esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki, e i bombardamenti terroristici di Amburgo, Berlino, Dresda, Tokyo, nei quali centinaia e centinaia di migliaia di persone erano state bruciate vive, intenzionalmente e senza alcuna necessità militare, con le bombe al fosforo bianco, dagli aviatori alleati, che non rischiavano nulla, perché erano ormai padroni incontrastati dei cieli, e si divertivano a scrivere col pennarello frasi di dileggio sulle bombe che si apprestavano a sganciare. Così voleva il senso della giustizia dei vincitori; ma non bastava ancora: e ci furono i processi di Norimberga e di Tokyo, per umiliare e condannare all’impiccagione i capi della Germania e del Giappone, anche avvalendosi di leggi in maniera retroattiva, come quelle relative ai crimini contro la pace, che nel 1939 non esistevano. Allo stesso tempo, una efficace cortina di silenzio veniva fatta scendere su quel che succedeva ai prigionieri delle nazioni sconfitte nei campi alleati, dov’erano lasciati morire di fame a bella posta, nonché su quei milioni di tedeschi che avevano dovuto fuggire dalla Prussia Orientale, dalla Pomerania, dalla Slesia, dai Sudeti e da altre regioni d’Europa, nelle quali abitavano da secoli. Alla fine, otto milioni di tedeschi sarebbero mancati all’appello; ma di essi, nessuno parlò, né allora, né dopo, se non in anni recentissimi, e solo da parte di pochi ricercatori indipendenti, e nell’ignoranza quasi totale dell’opinione pubblica mondiale. Era la giusta nemesi per il popolo degli ariani biondi che aveva preteso di dominare il mondo. In compenso, fin dal 1945 si sparò la cifra di sei milioni di ebrei morti nelle camere a gas naziste: una cifra impossibile, visto che non c’erano neppure sei milioni di ebrei, in Europa, alla vigilia della Seconda guerra mondiale; e visto che anche sulle camera a gas, così come ci sono state descritte, esistono dei dubbi. E silenzio sui venti milioni di morti provocati deliberatamente da Stalin a danno del suo stesso popolo.

Ma torniamo alla foto di Lee Miller sul suicidio della famiglia del borgomastro di Lipsia. In tutti i Paesi d’Europa, all’epoca, prendeva forma, velocemente, la leggenda nera nazista: Oradour, Lidice, Morzabotto, Katyn (anzi no, Katyn no: avevano sì tentato di accollare anche quella gigantesca strage ai tedeschi, ma alla fine risultò evidente che a compierla erano stati i sovietici, ai danni di migliaia di ufficiali polacchi). Nessuno parlò, né allora, né dopo, delle decine e centinaia di migliaia di europei ammazzati per vendetta dai vincitori; dei cosacchi consegnati a Stalin dagli inglesi, cui si erano arresi, e che preferirono suicidarsi in massa, gettandosi nelle acque della Drava; degli ustascia croati e dei cetnici serbi, gettati nelle foibe dai comunisti di Tito, insieme ad alcune migliaia di italiani; dei francesi, dei belgi, degli italiani ammazzati dai partigiani a guerra ormai finita, con l’accusa di aver collaborato col nemico; dei cinquemila figli dei soldati tedeschi nati da donne norvegesi, che le autorità di quel Paese trattarono come piccoli criminali, e molti dei quali finirono in orfanotrofio o in manicomio, dopo essere stati strappati alle loro madri. Un immenso carnaio da far quasi impallidire le rappresaglie naziste durante la guerra, che pure c’erano state, ed erano state durissime. Con la differenza che questi eccidi ebbero luogo a guerra ormai finita, contro gente inerme, e non di rado contro donne e bambini che non avevano colpa alcuna, tranne quella di essersi trovati dalla parte sbagliata della barricata; e senza contare il dettaglio che, sovietici a parte, i vincitori erano gli esponenti delle grandi democrazie, britannici e americani, i quali si erano sempre vantati di rappresentare la rivincita della civiltà contro la barbarie nazista. Invece si mostrarono altrettanto feroci dei loro avversari. Per miracolo gli americani non misero al muro il loro più grande poeta, Ezra Pound, reo di aver troppo amato l’Italia e di aver parlato alla radio per difenderla in piena guerra; ma reo, soprattutto, di aver tuonato contro l’usura, in particolare quella dei gradi banchieri ebrei americani. Gli stessi che avevano favorito (ma non era carino ricordarlo, dopo il 1945) l’ascesa al potere di Hitler con i loro finanziamenti e che, nei primi anni del suo regime, non gli avevano lesinato prestiti a interesse agevolato, pur sapendo che il suo programma era quello del riarmo e il suo probabile sbocco, una nuova guerra mondiale; e, soprattutto, pur sapendo cosa ne pensava degli ebrei viventi in Germania. In compenso, Pound fu messo in manicomio criminale per dodici anni. Meno fortunati di lui, Drieu la Rochelle si era suicidato e Robert Brasillach era stato fucilato; fucilato era stato anche il primo ministro Pierre Laval, e per un soffio la stessa sorte non era toccata anche al vecchissimo maresciallo Pétain, l’uomo di Vichy, e allo scrittore Céline; in Norvegia, allo scrittore Knut Hamsun, già premio Nobel per la letteratura. In Giappone, molti ministri e militari avevano fatto harakiri nel 1945; alcuni intellettuali seguitarono a protestare per anni, fino al suicidio, come lo scrittore Yukio Mishima, contro l’asservimento della loro Patria ai vincitori. Gli ultimi soldati nipponici deposero le armi - si fa per dire: non era rimasta loro neppure l’uniforme, andata in brandelli - quasi trenta anni dopo la fine del conflitto. Per convincerli ad arrendersi, o meglio, a uscire dalla giungla, dovettero venire i loro antichi ufficiali: non volevano credere che fosse tutto finito e che il loro divino imperatore avesse chiesto la resa, già da tanti anni.

Abbiamo detto che, per capire l’Europa di oggi, dobbiamo tornare alla foto che ritrae la bella figlia del borgomastro di Lipsia, riversa sul divano imbottito del salotto di casa sua, accanto ai cadaveri di sua madre e suo padre. Erano tre criminali di guerra? improbabile. Erano dei tedeschi che non vollero subire la sorte dei vinti: lo stupro per le donne, le brutalità e forse la deportazione per gli uomini; e che non volevano assistere all’annientamento della loro patria. I tedeschi si batterono fino all’ultimo per difendere la Germania, non per difendere Hitler; e lo stesso fecero i giapponesi. Anche molti fascisti di Salò seguirono lo stesso impulso ideale: anzi, lo ebbero in maniera ancor più chiara, perché nel settembre del 1943 era ormai chiaro come sarebbe andata a finire, e avrebbero potuto cercar di nascondersi, in attesa della conclusione. Se non lo fecero, è perché credevano di avere un dovere, che premeva loro più della vita: difendere l’onore della patria, pur sapendo che avrebbero perduto e che sarebbero stati trattati, poi, da criminali e da traditori. Ma traditori furono quelli che versavano l’acqua nella benzina destinata all’esercito del Nord Africa, e quelli che, con la radio, avvisavano la flotta britannica di tutti i movimenti della flotta italiana: quelli che furono liberati da eventuali complicazioni mediante l’articolo 126 del trattato di pace, che impegnava il governo italiano a non perseguire i traditori – che, naturalmente, non furono chiamati così, e che, d’altra parte, ricevettero una pioggia di medaglie e di decorazione dagli Alleati riconoscenti. Tedeschi e giapponesi, dunque, e anche alcune frazioni del popolo italiano, del popolo ungherese, del popolo romeno, per non parlare di quello finlandese, si batterono fino all’ultimo non per fedeltà al nazismo e al fascismo, se non in piccola misura, ma per difendere l’Europa dall’assalto e dalla conquista di forze anti-europee e disumane, il brutale comunismo di Stalin e la brutale dittatura finanziaria rappresentata da Churchill e Roosevelt. Avevano sognato, o sperato, un’Europa diversa: l’Europa del sangue contro l’oro. È troppo facile, oggi, dire che erano dalla parte sbagliata; a parte il fatto che quasi nessuno sapeva di Auschwitz, pur se esistevano dei sospetti - ma gli americani non sapevano perfettamente di Tokyo rasa al suolo, poi di Hiroshima? e i britannici non sapevano di Amburgo, Berlino e Dresda?  E i turchi, nel 1915, non sapevano degli armeni? – resta il fatto che non cera, nel 1939-45, una parte “giusta”. Che ci fosse, ce l’hanno raccontato loro, i vincitori, con centinaia di film, di documentari, di libri, di programmi televisivi, eccetera. Una testimonianza un po’ troppo interessata; pure, noi tutti l’abbiamo mandata giù per buona, e l’abbiamo insegnata diligentemente ai nostri figli. Così, l’Europa è cresciuta nell’oblio di se stessa, e ha descritto la propria sconfitta e la propria invasione come una gloriosa “liberazione”.

Che cosa intendiamo dire, con questo: che avremmo preferito la vittoria di Hitler? Assolutamente no. Anche se sappiamo che sarà inutile, e che i fanatici e gli sciocchi, brucianti di sacro zelo, bolleranno questo discorso come revisionista, o addirittura come filonazista, noi lo ripetiamo ancora una volta: non abbiamo alcuna nostalgia del nazismo; siamo anzi convinti che sia stato un regime politico deleterio, con tratti accentuatamente criminali. Da ciò non deriva, tuttavia, che abbiamo alcun motivo per rallegrarci di come le cose sono andate, con la mostruosa alleanza fra comunismo e capitalismo di rapina, per mettere il giogo sull’Europa; e, quel che è ancora più grave, per iniziare la sistematica demolizione dell’identità europea e la cancellazione della sua millenaria civiltà. Come ha fatto notare Stefano Zecchi, il fatto che il nazismo abbia screditato orribilmente la causa dello spirito contro il materialismo rende difficilissimo, oggi, fare questo discorso; eppure bisogna farlo, perché è il discorso decisivo, dal quale dipende ogni altro: possibile che non si possa più difendere la causa dello spirito, solo perché SS l’hanno macchiata con i loro crimini, sette decenni or sono? E possibile che si debba assistere rassegnati al suicidio dell’Europa e alla distruzione della sua civiltà, solo perché si permette alla cultura politicamente corretta di ricattare chiunque osi criticare le magnifiche sorti e progressive della democrazia e del libero mercato, cioè, in effetti, del totalitarismo finanziario ormai imperante a livello planetario? Oggi una cinica élite di plutocrati, fomentando l’auto-invasione islamista e la diffusione dello stile di vita omosessuale, sta battendo gli ultimi chiodi sulla bara della nostra civiltà. Non ci sono più europei, ma un gregge di individui spossessati della loro identità e della loro dignità, ridotti al rango di consumatori passivi e di manodopera a basso costo per arricchire sempre più l’élite finanziaria; un gregge che si è messo sulla china del suicidio biologico, incoraggiato calorosamente dai propagandisti dell’invasione islamista e dell’omosessualismo trionfante. L’ultima grande istituzione, la Chiesa, e l’ultima grande cultura, quella cattolica, che ancora potevano difendere l’identità europea e cristiana del nostro continente, si sono messe contro l’Europa e si sono fatte attivissime promotrici sia dell’invasione, sia dell’omosessualizzazione. Sono forse europei, i signori che odiano l’Europa e la vogliono consegnare alle forze della dissoluzione, la vogliono schiava del capitale finanziario e sommersa da ondate d’invasori islamici mascherati malamente da profughi affamati (così affamati da pagare migliaia di dollari il viaggio verso i nostri Paesi)? Verrebbe quasi da pensare che la famiglia del borgomastro di Lipsia, nel 1945, ha avuto più dignità degli europei odierni nel togliere ai vincitori la soddisfazione di fare di essi quel che avrebbero voluto. Ma, naturalmente, il suicidio non è una soluzione, anzi, non fa che semplificare le cose al nemico. E l’Europa, oggi, ha un nemico, lo stesso che aveva nel 1945, e lo stesso del 1914: il grande capitale finanziario. Vogliamo semplificargli ancor più l’esecuzione dei suoi piani scellerati? Sarebbe come fargli un favore davvero immeritato...

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Fascismo e Massoneria, storia di rapporti complessi – 2^ parte

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2.  La nascita del fascismo e la massoneria

La crisi economica dell’immediato dopoguerra è determinata dalla ricaduta delle spese di guerra sull’economia nazionale, dall’abbandono delle campagne per la chiamata alle armi dei contadini che aveva portato ad una gravissima contrazione della produzione agricola e, dunque, alla crisi alimentare. L’industria, che aveva sostenuto lo sforzo bellico, paga lo scotto del mancato adeguamento degli impianti, e della mancanza di capitali per poterlo effettuare, anche perché le banche non hanno i capitali necessari per poter finanziare gli ammodernamenti dell’agricoltura e dell’industria. Inoltre, la spinta determinata dalla partecipazione popolare alla guerra, che per la prima volta è guerra di massa, nonché l’entusiasmo dei partiti marxisti cresciuto in seguito alla rivoluzione russa, si unisce alla scelta, per la prima volta dall’Unità, di un sistema elettorale proporzionale, che diminuisce il peso dei notabili, anche per la permanenza del suffragio universale maschile, con una conseguente generalizzata domanda di partecipazione alla vita politica, che fino alla guerra era stata questione ristretta alle conventicole (1). Nell’immediato dopoguerra esplodono, inoltre, quelle forze che già erano in nuce in fenomeni apparsi a cavallo tra i due secoli: futurismo, sindacalismo rivoluzionario, neoclassicismo, caratterizzati da una forte carica antisistema, carica che ora trovava il suo detonatore in una vera e propria rottura tra le élites intellettuali e la sclerotica burocrazia dell’apparato statale, ivi compreso il Parlamento (2).

Alle problematiche economiche e sociali, si uniscono le rivendicazioni patriottiche. I nazionalisti come Alfredo Rocco avevano visto lungo: l’alleanza con le forze dell’Intesa aveva facilitato il disegno britannico di uno stato degli slavi del Sud a discapito delle rivendicazioni italiane sull’Adriatico Orientale (3). Il trattato di Versailles dà la stura alla percezione di una vittoria “mutilata” (4), e alla classe politica venne addebitata anche l’incapacità di far valere sul tavolo della pace il valore militare (5). Di fronte a queste sfide, i “notabili” sono incapaci di intuire il cambiamento. L’ala riformista del partito socialista viene travolta dai massimalisti, in piazza prima che negli organismi di partito (6). I socialisti italiani non aderiscono alle posizioni “moderate” della conferenza di Berna; un’ondata di scioperi sconvolge la Nazione aggravando la crisi economica. Sull’altro fronte, nazionalisti e futuristi fanno leva sullo spirito di révanche dei reduci, verso cui i socialisti dimostrano di sottovalutare il peso specifico all’interno della società italiana. Mussolini, che durante la guerra era diventato il perno dei movimenti “trinceristi”, chiama a raccolta i reduci per una “rivoluzione nazionale” con il fine portare al governo una classe dirigente di combattenti (7). L’appello è raccolto, e vengono fondati i Fasci Italiani di Combattimento «… il 23 marzo 1919, in un palazzo di piazza San Sepolcro, parteciparono un centinaio di persone, quasi tutti militanti della sinistra interventista: ex socialisti, repubblicani, sindacalisti, arditi, futuristi. Dalla sinistra rivoluzionaria provenivano anche i dirigenti del nuovo movimento, in massima parte giovani e giovanissimi appartenenti alla piccola borghesia. Il primo segretario generale dei Fasci di combattimento fu Attilio Longoni, lombardo, ex sindacalista rivoluzionario» (8). Indipendentemente dalla partecipazione di molti massoni alla fondazione dei Fasci, che in sé non rileverebbe (come era accaduto in epoche precedenti, massoni erano distribuiti in tutte le formazioni), va notato che, all’inizio, non vi erano molti motivi di conflittualità tra Fascismo e Massoneria. In fondo, i “nemici” erano i medesimi: la classe politica al tramonto, i socialisti, il partito popolare (9).

Sia il GOI, sia la Gran Loggia, evitano di essere ostili al fascismo nascente, ma non risponde a verità quanto spesso si sente dire, circa i finanziamenti che “la massoneria” avrebbe erogato ai fascisti. Fino alla marcia su Roma, vi furono finanziamenti da parte di fascisti massoni, ma non si ha notizia di erogazioni dal fondo dell’Associazione, né dell’apertura di sottoscrizioni. Dopo la conquista fascista del potere, le cose cambieranno, come vedremo. Eugenio Chiesa, che dopo la Guerra diventerà Gran Maestro del GOI, sostiene che vi sono finanziamenti di singoli massoni al fascismo, ma «a titolo personale», senza coinvolgimento della Fratellanza (10). I fascisti si presentano alle elezioni del novembre 1919 senza ottenere alcun seggio, mentre la svolta massimalista dei socialisti viene premiata dagli elettori, che consegnano loro la maggioranza relativa. Il Parlamento che esce da quelle elezioni ha, però, una maggioranza fortemente frammentata. L’instabilità politica si unisce alle violenze di piazza, in quello che passerà alla storia come “biennio rosso”. Il radicale Francesco Saverio Nitti, chiamato a presiedere un governo di minoranza, non riesce a garantire stabilità. Vittorio Emanuele III chiama il vecchio Giolitti, che reitera la tattica attendistica già utilizzata a cavallo tra i due secoli. I fascisti imprimono una svolta alla loro azione politica. Si presentano come garanti di un ordine che il governo non riesce a garantire.

Una storiografia “orientata” interpreta questa svolta come determinata dai finanziamenti erogati ai fascisti da agrari ed industriali “spaventati” dalla possibile vittoria bolscevica. Tale interpretazione è a nostro avviso faziosa. Come è stato acutamente notato: «Se lo squadrismo poté operare ed estendersi ciò non fu dovuto infatti solo all’essersi fatto difensore degli interessi economici lesi dal movimento dei lavoratori e, specie nelle zone agricole, di essersi messo addirittura al soldo di tali interessi. Oltre agli interessi materiali, per due anni erano stati lesi anche molti interessi e valori morali, che invano si era sperato fossero tutelati dallo Stato» (11). L’ “ordine” di cui i fascisti si propongono come garanti non è quello caro alla classe economica dominante, è quello profondo, che interessa il tessuto morale dell’intera società, è l’esigenza di un ordinato vivere, della tutela di valori come la Patria, la famiglia, l’onore. Emilio Gentile (12) definisce lo squadrismo fascista come «massimalismo dei ceti medi», ma a sommesso avviso di chi scrive tale definizione è riduttiva. È certamente vero che il ceto medio è numericamente cresciuto, è certamente vero che la maggior parte dei fascisti proviene dal ceto medio, ma collegare la definizione a tali constatazioni appare ispirata alla logica del post hoc, ergo propter hoc. Il “sogno” fascista, la sua “volontà di potenza” non è da “ceto medio”. La visione eroica dell’azione politica è da élite nel senso paretiano del termine. E l’appoggio iniziale della massoneria al fascismo è determinato da questa convergenza “ideale” sull’esigenza di creare una “avanguardia” capace, da una parte, di rovesciare uno stantìostatus quo e, dall’altro, di porsi come argine alla sovversione bolscevica.

 

Verso il regime fascista

Nel 1920 i Fasci crescono in modo esponenziale, mentre si spengono i fuochi del biennio rosso. La politica temporeggiatrice di Giolitti ha dato i suoi frutti: come all’epoca dellasuccessione a Di Rudinì, il vecchio piemontese ha saputo resistere alla tentazione della repressione violenta, ed alle pressioni degli industriali, e le occupazioni delle fabbriche sono cessate per consunzione naturale (13). Neanche Giolitti, tuttavia, riesce a garantire stabilità, per cui il Parlamento viene sciolto e, nel maggio 1921, si svolgono le elezioni anticipate. I fascisti si presentano nei blocchi nazionali, alleati con Giolitti, ed eleggono 35 deputati. La Camera è frammentata ancora una volta, con tre gruppi sostanzialmente omogenei: socialisti, popolari e blocchi nazionali. Nel frattempo, si è svolto a Livorno il XVII Congresso socialista, che ha visto uscire dal partito la fazione comunista, con la nascita del P.C.d’I., che alle elezioni consegue un esiguo numero di seggi. L’incarico di formare il governo viene affidato al riformista Ivanoe Bonomi, mentre continuano le violenze di piazza. A Bonomi succede Facta, ma è chiara a tutti la crisi della democrazia parlamentare. Due elezioni succedutesi a distanza di due anni, ben 4 governi nello stesso periodo, ugualmente incapaci di garantire un minimo di ritorno alla normalità, incapaci di contenere le violenze tra le fazioni politiche (14).

Il fascismo, che nell’originario programma sansepolcrista aveva prefigurato una continuità della democrazia parlamentare, dà spazio alle sue componenti più rivoluzionarie. Dirà nel 1935 Togliatti: «… è un grave errore il credere che il fascismo sia partito dal 1920, oppure dalla marcia su Roma, con un piano prestabilito, fissato in precedenza, di regime di dittatura, quale questo regime si è poi organizzato» (15). Alla fine del 1921, il movimento “antipartito” diventa partito. Viene fondato il PNF (Partito Nazionale Fascista) ed alla segreteria viene chiamato Michele Bianchi, proveniente dalle fila del sindacalismo rivoluzionario, caratterizzato da una forte carica antiparlamentare. Voci insistenti vogliono Michele Bianchi massone dell’obbedienza di piazza del Gesù (16). Ove lo sia, non deve stupire che un avversario dell’istituzione parlamentare aderisca ad una fratellanza che nella sua azione politica “esterna” ha sempre parlato di democrazia (lo stesso appoggio all’Intesa nella Prima guerra mondiale fu giustificato dalla necessità di allearsi con le “nazioni democratiche”). Come abbiamo già detto, l’obbedienza di piazza del Gesù si caratterizza per la sua collocazione definita “reazionaria” dal GOI (17), ma l’istituzione parlamentare appare vetusta anche ai fratelli del GOI, a cui appartiene uno dei leader dell’interventismo nel 1914-15, il calabrese Vincenzo Morello (18), che sulla Tribuna del 29 maggio 1921, scrive che non è possibile concepire lo Stato se non come una dittatura: «… dittatura intellettuale, morale sia pure: ma dittatura. Soltanto l'imbecillità liberale italiana ha potuto concepire lo Stato, al di fuori della dittatura, cioè senza autorità in un Paese in cui tutte le forme particolari della vita politica e religiosa si affermano sempre con espressioni di dittatura».

Proprio in tale ottica, la massoneria non ostacola l’ascesa del fascismo, neanche in questa fase. Ed evita di “rompere” con il Movimento Fascista, nonostante nel suo primo discorso parlamentare (21 giugno 1921), Benito Mussolini dica: «Il fascismo non predica e non pratica l'anticlericalismo. Il fascismo, anche questo si può dire, non è legato alla massoneria, la quale in realtà non merita gli spaventi da cui sembrano pervasi taluni del partito popolare. Per me la massoneria è un enorme paravento dietro al quale generalmente vi sono piccole cose e piccoli uomini … Affermo qui che la tradizione latina e imperiale di Roma oggi è rappresentata dal cattolicismo. Se, come diceva Mommsen, 25 o 30 anni fa, non si resta a Roma senza una idea universale, io penso e affermo che l'unica idea universale che oggi esista a Roma, è quella che s'irradia dal Vaticano», così non solo sminuendo la Massoneria, ma operando una vera e propria “apertura di credito” nei confronti dell’ormai secolare nemica della Libera Muratoria: la Chiesa cattolica romana. Probabilmente, è diffusa tra i massoni fascisti il convincimento del “fratello” Dino Grandi: «Mussolini può dire ciò che vuole contro la democrazia: in fondo non si può che sboccare a uno stato democratico» (19). In buona sostanza, la massoneria adotta nei confronti del Fascismo la strategia da sempre usata: utilizzare i “fratelli” per condizionare “dall’interno” la direzione politica.

Può essere utile, per avvalorare tale ipotesi, quanto deciso dal Consiglio del GOI il 24 febbraio 1921: «La massoneria non deve dividere alcuna responsabilità col fascismo ed i fratelli che vi abbiano qualche contatto debbono riservatamente adoperarsi affinché esso perda ogni spirito e colore antidemocratico e diventi una tendenza spirituale di patriottismo e di rinnovamento democratico della vita italiana» (20). Nell’ottobre 1922, perdurante lo stato di incertezza, dopo aver rimarcato la vittoria “militare” sulle forze di sinistra, con il fallimento dello “sciopero legalitario” di agosto, i fascisti rompono gli indugi. Mentre trattano con le forze liberali e popolari per la formazione di un governo di coalizione comprendente i fascisti, organizzano la “Marcia su Roma”, una dimostrazione di forza che gli storici sono concordi a ritenere un bluff sul piano militare. Nonostante ciò, il tentativo combinato riesce: Vittorio Emanuele III conferisce a Mussolini l’incarico di formare il governo, rifiutando di decretare lo stato d’assedio come chiede Facta. Perché? La storiografia “orientata” oscilla tra due posizioni:
1. la classe politica liberale (e la massoneria) si illusero di “cavalcare” il fenomeno fascista sottovalutandone la capacità di durata (21);
2. le forze reazionarie, spaventate dalla possibilità di una rivoluzione bolscevica in Italia, si affidarono al militarismo fascista per soffocare le forze operaie (22).

Ma, come è stato autorevolmente detto: «Nella storiografia italiana è prevalsa a lungo dopo il 1945, e non è stata ancora del tutto superata, la tendenza a interpretare in termini generali il fascismo, sulla base di prospettive ideologiche e politiche, piuttosto che a conoscere la sua realtà, basando l’interpretazione su ricerche concrete e approfondite. Fino agli anni Sessanta, gli studi sul fascismo si limitarono principalmente al periodo delle origini e furono svolti nell’ambito delle interpretazioni tradizionali, sia nella versione liberale che in quella radicale e marxista» (23). In verità, come nota De Felice (24), la situazione nel 1922 non è chiara, e la forza militare dei fascisti appariva forse maggiore di quanto non fosse. Non solo, ma larghi settori dell’Esercito simpatizzano con il movimento mussoliniano, per cui non è chiaro a cosa porterebbe la proclamazione dello stato d’assedio, ondesi preferisce una soluzione tesa ad “istituzionalizzare” il movimento fascista, conferendo a Mussolini l’incarico di formare un governo di coalizione. Ci sia, comunque, consentito di osservare, in aggiunta all’acuta analisi di De Felice, che le posizioni su evidenziate, oltre ad essere “orientate”, secondo la citata annotazione di Emilio Gentile, peccano riguardo alla “visione d’insieme”: la crisi dello stato ottocentesco è un fenomeno europeo, onde l’analisi dell’ascesa del fascismo in Italia non può essere condotta con semplice riferimento alla vicende italiane, senza considerare la dimensione “globale” della situazione da cui nasce il fascismo italiano, che ha la peculiarità di essere stato il primo movimento di tale natura a giungere al governo (25). Prima di prendere in esame la posizione della massoneria sull’avvento dei fascisti al governo, riteniamo che una certa storiografia enfatizzi in modo preconcetto il ruolo della massoneria nella “marcia su Roma”. È una tendenza storiografica che mira ad accreditare l’avvento del Fascismo come un “complotto massonico”, a partire dall’inizio degli anni 80 (26) Di recente, tale tesi è stata rilanciata, in vari interventi (27), in cui, enfatizzando alcuni dati, dando per accertati altri, si dipingono i fascisti come strumenti della massoneria, fino ad affermare, in modo quanto meno discutibile: «… la nascita e la fortuna dei fasci nel 1919 furono l’esito profano di una scisma massonico» (28). Chi si accoda a tale tesi, però, dimostra a nostro avviso una scarsa conoscenza del mondo massonico, confondendo “il massone” con “la massoneria”, laddove, invece: «Esiste un vissuto massonico personale, un vissuto massonico come nucleo di loggia, un vissuto massonico come dirigenza dell’ordine, un vissuto massonico come appartenenza a un determinato rito che può anche essere conflittuale con il rapporto che si deve necessariamente avere anche con l’ordine. Il tutto va poi moltiplicato per il numero delle comunioni e dei riti, ognuno dei quali vive di vita propria, spesso in competizione con gli altri. Queste realtà nazionali vanno poi calate nelle diverse e spesso conflittuali realtà internazionali» (29).

Così, vengono ricostruiti minuziosamente i finanziatori del fascismo, tra cui molti massoni, ma – come detto – non vi è traccia di finanziamenti provenienti dal fondo comune, e tale dato o viene fideisticamente attribuito alla “lacunosità delle fonti” (30) o viene definito privo di importanza (31), quando è – invece – rilevante, alla luce della differenza tra l’azione individuale del massone e quello della Massoneria come Istituzione. Sul piano del coinvolgimento personale, si afferma – ad esempio - che nella riunione del 16 ottobre 1922 a Milano, di preparazione alla marcia su Roma, vi fossero solo massoni, ma nel fare gli esempi, si esalta il ruolo del generale Gustavo Fara, pur rimarcando che Fara era stato iniziato nel 1912, per uscire dal GOI appena l’anno dopo (32). Si ripete, ossessivamente, che i “quadrumviri” della Marcia su Roma erano tutti massoni (33), ma – come si è visto - non esistono prove certe dell’appartenenza alla massoneria nemmeno per Michele Bianchi. Italo Balbo, unico dei quadrumviri citato come massone da De Felice (34), con una lettera autografa del 4 agosto 1924 a Mussolini, respingerà con sdegno l’appartenenza alla massoneria, men che mai al GOI; altrettanto farà per Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon il nipote Paolo con una lettera al Tempo del 26 luglio 1993, mai pubblicata dal quotidiano romano, e ribadita il 9 dicembre 2010 al sito Internet Archiviostorico.info (35). Su quest’ultimo quadrumviro, aristocratico della nobiltà sabauda, vale forse la pena di ricordare che, rivestendo durante il regime la carica di responsabile della Società Nazionale per la Storia del Risorgimento, sarà fautore di un’interpretazione storica del risorgimento negatrice qualunque apporto della massoneria alla formazione dell’Italia Unita (36). Ma, si ripete, quel che conta è che si tratta di affermazione di cui si omette di citare la fonte primaria (37).

Il fatto è che mancano documenti sia di fonte massonica, sia di fonte fascista, da cui evincere un coinvolgimento della Massoneria quale “Istituzione” nella preparazione della marcia su Roma. E, nella particolare pignoleria che contraddistingue i massoni nella tenuta archivistica, non è dato da poco (38). Quello che è certo, è che Mussolini incontra Palermi prima del 28 ottobre (39), ma la sopravvalutazione del ruolo di Palermi proviene o da fautori della tesi del “complotto massonico”, o da massoni del GOI (40) quasi in polemica interna alla Massoneria, per addossare ai “fratelli scissionisti” la responsabilità della nascita del regime fascista. In realtà, come riconosce Cesare Rossi (41), quasi testualmente riportato da Vannoni (42), Palermi bluffa sulle sue capacità di influire sugli alti vertici militari per una captatio benevolentiae nei confronti del Fascismo che gli appariva ormai avviato alla conquista del potere. L’ipotesi più probabile, è che l’attivismo di Palermi trovi una sua ragione nelle lotte interne alla Massoneria italiana, con le reciproche ricerche di riconoscimento internazionale tra le due obbedienze, onde «Così facendo il Palermi credeva di risolvere a proprio favore il contrasto con Palazzo Giustiniani» (43).

Quanto a Mussolini, riteniamo plausibile l’ipotesi che egli, superando la sua posizione antimassonica, nella temperie della marcia su Roma abbia comunque “usato” la massoneria per i suoi scopi (44). Dopo la marcia su Roma, Torrigiani invia a Mussolini un messaggio datato 3 novembre 1922 (45) con cui si congratula per l’incarico e gli augura di “superare la prova nel modo più glorioso per la Patria”. Torrigiani si assume tutta la responsabilità del messaggio, del contenuto del quale è costretto a giustificarsi nella Giunta del GOI del 9 novembre 1922, dichiarando: «Era indispensabile ed urgente svalutare presso il nuovo Governo l'azione ostile dei nazionalisti e dei ferani [gli scissionisti di piazza del Gesù – N.d.A.]. Noi dobbiamo fare di tutto per allontanare ferani e nazionalisti dal Governo fascista» (46). E confida a Michele Terzaghi: «Noi abbiamo la nostra linea ben definita. Staremo a vedere come si comporterà Mussolini. Se egli rimane nell’ambito delle libertà democratiche e parlamentari, lo appoggeremo; in caso diverso lo combatteremo» (47). Torrigiani, dunque, da una parte, ha in mente di condizionare il governo fascista, dall’altro, di limitare le conseguenze dell’attivismo di Palermi all’interno del mondo massonico. Quest’ultimo, fa di più: omaggia Mussolini di grembiule, sciarpa e catechismo della Gran Loggia (48). Mussolini, al momento, evita qualunque reazione. Nella riunione del Governo dell'Ordine del 18 novembre 1922, Torrigiani comincia ad avere qualche perplessità. Pur lieto di alcuni incarichi conferiti dal governo ai “fratelli”, afferma: «Siamo naturalmente preoccupati della situazione che non si presenta ancora chiara e precisa. Noi dovremmo sempre difendere non i partiti parlamentari ma il principio fondamentale democratico; che se dovesse sorgere, ciò che non si crede, un governo dispotico, dovremmo organizzare la resistenza, specie a base delle organizzazioni operaie: bisogna che la massoneria intenda a conciliare lo spirito nazionale con lo spirito sociale» (49). Dopo la marcia su Roma, i finanziamenti dei massoni al PNF diventano massicci. E si ha prova della consapevolezza da parte di Torrigiani dell’esistenza di questi finanziamenti.

Scrive Fulvio Conti che non c’è dubbio: «… né sul finanziamento massonico al movimento fascista, né sul fatto che l'erogazione dei soldi, ancorché fuori dai canali ufficiali, avvenisse con l'approvazione consapevole della suprema guida del Grande Oriente d'Italia, il gran maestro Domizio Torrigiani. Siamo però - vale la pena ripeterlo - all'indomani della marcia, in una fase in cui la principale Obbedienza massonica italiana era ormai mai da qualche tempo sottoposta agli attacchi da un lato della Gran Loggia di Piazza del Gesù, che cercava di screditarla agli occhi di Mussolini per la linea democratica e antifascista di parecchi dei suoi aderenti, e dall'altro dell'ala filonazionalista e più intransigente del Pnf, che era intenzionata a rompere re ogni legame con la massoneria e ad eliminare le conventicole interne al partito che ad essa facevano capo. Si spiega così la posizione difficile in cui vennero a trovarsi proprio quei giustinianei che erano più vicini al fascismo, o che comunque, come Torrigiani, guardavano ad esso con favore, cercando semmai di utilizzare la leva del sostegno finanziario per condizionarlo e per orientarne le scelte» (50). Riteniamo di dissentire dall’idea del coinvolgimento dell’Ordine in quanto Istituzione nei finanziamenti, e di aderire sul resto. I documenti esaminati da Conti sono essenzialmente due lettere inviate il 5 e 9 novembre 1922 a Torrigiani da Federico Cerasola, Maestro Venerabile della Loggia Regionale Insubria di Milano, tra i fondatori dei Fasci di Combattimento. Cerasola scrive che sta finanziando i fascisti raccogliendo ingenti fondi tra i Fratelli e ne esplicita gli scopi: «Nessuna dedizione al trionfatore, ma adesione allo spirito che animò il movimento. Quando questo dovesse deviare, saremo avversari decisi. Ciò fu detto e fu scritto. Che cosa vogliono dippiù?» (51).

Le lettere sono scritte non solo dopo la marcia su Roma, quando il Fascismo appare trionfante («nessuna dedizione al trionfatore», scrive il Venerabile), ma prima della riunione del Governo dell'Ordine del 18 novembre 1922 di cui si è detto. È, dunque, il momento in cui Torregiani tenta, per sua stessa ammissione, di arginare le influenze che sul Fascismo potrebbero esercitare i nazionalisti ed i “Ferani”, mediante una politica di appeasement con i Fascisti. E, come abbiamo visto, la posizione di Torregiani non è la posizione dell’Ordine in quanto Istituzione, tanto è vero che la sua prolusione appare una vera e propria autodifesa nei confronti dei Dignitari del GOI (52). Vero è, invece, che la massoneria tenta di influenzare il fascismo “dall’interno”, come abbiamo visto da numerosi elementi sopra esaminati. Come sarà chiaro in seguito, non ci riuscirà. Ed è lo stesso Cerasola, in una lettera a Torregiani del 2 gennaio 1923 (53), a rendersene conto. Mussolini sospetta che la Massoneria voglia “impadronirsi” del Fascismo, quindi è bene stare fermi e non muoversi, perché ogni tentativo di “dialogo” con il PNF potrebbe avvalorare il “sospetto” di volerlo “infiltrare”.

Il 1923 è un anno decisivo per i rapporti tra fascismo e massoneria. Palermi, quasi a riecheggiare quanto ha intuito Cerasola, attacca pesantemente il GOI, accusato di tentare di “infiltrare” il PNF e di “tramare” contemporaneamente contro il governo, cercando di mettere fascisti e nazionalisti gli uni contro gli altri (54). I nazionalisti, dalla loro parte, riprendono la vecchia polemica antimassonica di cui si è detto supra e L’Idea Nazionale tuona: «La massoneria rappresenta l’antitesi della riscossa nazionale. Essa è democratica, filosocialista, materialista, internazionale: rappresenta, insomma, quanto è stato dalla nuova Italia superbamente travolto» (55). Il processo di avvicinamento tra fascismo e nazionalismo trova il suo compimento il 25 febbraio 1925, e la convenzione tra i due partiti è preceduta da un “preambolo” in cui si sancisce la incompatibilità tra fascismo e Massoneria. Questa dichiarazione è il culmine di una campagna antimassonica iniziata – come detto - dai nazionalisti e proseguita dai fascisti all’inizio di febbraio, con una serie di articoli sia sul Popolo d’Italia, sia su altri giornali, fascisti o filofascisti, finché, nella seduta del 13 febbraio 1923, il Gran Consiglio del PNF (56) approva quasi all’unanimità un ordine del giorno così concepito: «... considerato che gli ultimi avvenimenti politici e certi atteggiamenti e voti della Massoneria danno fondato motivo di ritenere che la Massoneria persegue programmi e adotta metodi che sono in contrasto con quelli che ispirano tutta l’attività del Fascismo, il Gran Consiglio invita tutti i fascisti che sono massoni a scegliere tra l’appartenere al Partito Nazionale Fascista o alla Massoneria, poiché non vi è per i fascisti che una sola disciplina, la disciplina del Fascismo; che una sola gerarchia, la gerarchia del Fascismo; che una sola obbedienza, l’obbedienza assoluta, devota e quotidiana, al Capo e ai capi del Fascismo» (57). Torrigiani prende atto della decisione, dicendo ai fratelli: « …i Fratelli fascisti sono lasciati interamente liberi … di rompere ogni rapporto con la Massoneria per rimanere nel Fascio; sa per certo che quelli che si allontaneranno continueranno a dimostrare con l’esempio che nelle Logge appresero a praticare come dovere supremo la devozione incondizionata alla patria» (58). Palermi non reagisce, interpretando la risoluzione del Gran Consiglio come riferita ai soli aderenti al GOI, ritenendo comunque i principi fascisti conformi all’azione massonica come da lui intesa. La posizione di Palermi provoca grandi risentimenti all’interno dell’obbedienza, ma egli rimane al vertice, molte logge confluiscono nel GOI, mentre altri rimangono tra i “ferani”, ma all’opposizione di Palermi (59).

Note:
1 - cfr. la puntuale analisi di De Felice, “Fascismo”, Le Lettere, Firenze 2011, pos. Kindle 271 (d’ora innanzi, De Felice 2011)
2 - cfr. Emilio Gentile, “Il Fascismo in tre capitoli”, Laterza, Bari-Roma 2003 (d’ora innanzi, Gentile 2003), cap. I, § 1
3 - Raffaele Molinelli, I nazionalisti italiani e l’intervento, Urbino, Argalia, 1973, pp. 25 ss.
4 - D’Annunzio, in via quasi preventiva, aveva usato questa espressione nel pezzo di apertura del Corriere della Sera del 24 ottobre 1918
5 - ibidem
6 - Nel XVI Congresso di Bologna (5-8 ottobre 1919), i massimalisti conquisteranno tutti i posti disponibili in Direzione Nazionale, verrà riformato lo Statuto con l’indicazione della dittatura del proletariato come fine della lotta politica e si indicherà la violenza proletaria quale metodo di lotta – cfr. Cento e venti anni di storia socialista, 1892-2012, a cura di Gennaro Acquaviva, Luigi Covatta, Angelo Molaioli, Polistampa, Firenze 2012, p. 184
7 - cfr. Gentile 2003, De Felice 2011, opere citate
8 - Gentile 2003, pos. Kindle 260
9 - Fabio Venzi, “Massoneria e fascismo: Dall'intesa cordiale alla distruzione delle Logge” – Castelvecchi, Roma 2017, pos. Kindle 311; cfr. Cuzzi, op. cit., pos. Kindle 7044; Natale Massimo Di Luca, “La Massoneria. Storia, miti, riti”, Atanòr, Roma, 2000, p. 165
10 - Eugenio Chiesa, “La mano nel sacco. Osservazioni per La Voce Repubblicana”, Libreria politica moderna, Roma 1925, p. 6.
11 - De Felice 2011 pos. Kindle 426
12 - Gentile 2003, pos. Kindle 311
13 - Anche per effetto di aumenti salariali senza precedenti: fatto 100 l’indice del 1913, nel 1921 i salari erano aumentati a 127: cfr. De Felice, op. cit., pos. Kindle 358
14 - Una parte della storiografia rimprovera a Bonomi e Facta una certa accondiscendenza nei confronti delle squadre fasciste, ma in realtà il governo aveva perso il controllo della piazza: a Sarzana, si erano fronteggiati squadre fasciste ed Arditi del Popolo ed i Carabinieri avevano ucciso 14 fascisti, ma già nel gennaio 1921 a Firenze gli Arditi avevano ucciso il fascista Giovanni Berta
15 - Ciclo di lezioni tenuto a Mosca e noto come Corso sugli avversari, ora pubblicato in “Palmiro Togliatti - La politica nel pensiero e nell'azione: Scritti e discorsi 1917-1964” a cura di Michele Ciliberto e Giuseppe Vacca, Bompiani, Milano 2014 – il passo citato è a p. 373
16 - Antonino Zarcone, “Domenico Maiocco. Lo sconosciuto messaggero del colpo di Stato”, Prefazione ed introduzione di Aldo A. Mola e Luigi Pruneti, Annales, Milano 2015, p. 60, lo definisce “massone”, ma senza alcun riferimento; nega che Bianchi sia massone Alarico Modigliani Rossi, Maestro Venerabile della Loggia “Concordia” in una lettera a Torrigiani, Firenze, 19 dicembre 1922, in ISRT, Archivio Torrigiani, serie I, fasc. 15, ins. 10, che – comunque – lo definisce «uomo purissimo». In realtà, chi scrive nutre forti dubbi sull’affiliazione massonica di Bianchi, attesa la sua posizione in occasione della Guerra di Libia, contraria all’intervento, in contrasto con la posizione di ambo le obbedienze (v. supra)
17 - Anche nel dibattito sull’interventismo, Raoul Palermi fu sospettato di simpatie austro-tedesche
18 - Su Vincenzo Morello (non de plumeRastignac), cfr. Lina Anzalone, “Storia di Rastignac - Un calabrese protagonista e testimone del suo tempo”, Rubettino, Soveria Mannelli 2005
19 - Mola 2018, p. 625
20 - ASGOI, Processi verbali della Giunta dell’Ordine, 24 febbraio 1921, citato da Anna Maria Isastia, “Massoneria e fascismo: la grande repressione”, in AA.VV.. “La Massoneria: La storia, gli uomini, le idee”, cit. pos. Kindle 3528
21 - Tra gli altri, Isastia, “Massoneria e fascismo: la repressione degli anni Venti”, Libreria Chiari, Firenze 2003, p. 26.
22 - Tra gli altri, Alberto De Bernardi - Luigi Ganapini“Storia dell’Italia Unita”, p. 192
23 - Gentile, “Fascismo, Storia e interpretazione” – Laterza, Bari-Roma 2005, p. 40
24 - “Mussolini il fascista - la conquista del potere” – Einaudi, Torino 1965, pp. 345 ss.
25 - Ernst Nolte “I tre volti del Fascismo” – SugarCo, Milano 1966;“Bolscevismo e nazionalsocialismo. La guerra civile europea 1917-1945”, BUR, Milano 2008; George Lachmann Mosse, “La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1812-1933)”, Il Mulino, Bologna 1975; “Il fascismo. Verso una teoria generale”, Laterza, Roma-Bari, 1996; TarnoKunnas, “Il fascino del fascismo. L'adesione degli intellettuali europei”, Settimo Sigillo-Europa Lib. Ed., Roma 2017
26 - soprattutto Gianni Vannoni, op. cit., in cui – però – (p. 63), riportando quasi testualmente Cesare Rossi, sostiene che Mussolini ignorava l’appartenenza alla massoneria di molti fascisti
27 - Soprattutto da Gerardo Padulo - “Contributo alla storia della Massoneria da Giolitti a Mussolini”, in “Annali dell’istituto italiano per gli studi storici”, VIII, 1983-1984, pp. 219-347; “Palazzo Giustiniani e/o Piazza San Sepolcro”, in “Mezzosecolo”, 1985-86, pp. 123-45
28 - Antonella Beccaria, “I segreti della massoneria in Italia”, Newton Compton, Roma 2013,p. 31
29 - Isastia “Massoneria e fascismo: la grande repressione”, in AA.VV.. “La Massoneria: La storia, gli uomini, le idee”, cit., pos. Kindle 3283
30 - cfr. supra, nota 62.
31 - Carlo Francovich, “Studi su storia e politica della massoneria”, in Storia Contemporanea, 1978, vol. 30, fasc. 130, p. 88 – Francovich, però, sostiene chiaramente: «Con questo non si vuole far credere che l’avvento del fascismo fosse frutto di un complotto massonico»
32 - cfr. Pruneti, “La Massoneria italiana nella Grande Guerra”, in AA.VV., 1914-1915. “Il liberalismo italiano alla prova. L’anno delle scelte, a cura di Aldo A. Mola”, Torino-Cuneo, Consiglio Regionale del Piemonte-Centro Giolitti, 2015.
33 - A partire da Angelo Tasca, “Nascita e avvento del fascismo”, edito in Francia nel 1938 – La Nuova Italia, Firenze 2002 - p. 433 – di recente, cfr. Angelo Livi, “Massoneria e Fascismo”, Bastogi, Foggia 2016, p. 72
34 - De Felice, “Mussolini il fascista - la conquista del potere” – cit., p. 349 – evidentemente De Felice ritiene attendibile la testimonianza “di prima mano” di Cesare Rossi, op. e loc. ult. cit. Nella lettera di Modigliani Rossi a Torrigiani, citata supra, Balbo viene definito « … massone sì ardente e puro, che sono sicuro rimetterebbe a posto i vari papaveri del fascismo locale». Come si può notare, i massoni sperano in un “condizionamento interno” del Fascismo da parte dei “Fratelli” fascisti
35 - Reperibile all’indirizzo http://www.archiviostorico.info/articoli/4535-cesare-maria-de-vecchi-e-la-massoneria
36 - sul ruolo di Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon nel dibattito storiografico sul Risorgimento, cfr. Di Rienzo – “Storia d’Italia e identità nazionale” – Le Lettere, Firenze 2006
37 - un caso particolare, tra i teorici del “complotto massonico”, è quello di Peter Tompkins, che in un libro pubblicato in Italia con il titolo “Dalle carte segrete del Duce”, sostiene di aver avuto accesso a delle carte secretate nei National Archives di Washington, a cui non possono accedere altri studiosi – riteniamo superfluo sottolineare l’inattendibilità scientifica di questa pubblicazione, onde evitiamo persino di prenderla in considerazione
38 - Le ricostruzioni dei rapporti dei massoni con il movimento fascista sono state possibile grazie a documenti di fonte massonica
39 - Cesare Rossi, op. e loc. ult. cit.; Gianni Vannoni, op. cit., p. 76
40 - Terzaghi, op. cit., pp. 59 ss.; Cesare Rossi, op. e loc. ult. cit.
41 - op. cit., pp. 143 ss.
42 - op. e loc. ult. cit.
43 - De Felice “Mussolini il Fascista – La conquista del Potere”, cit., p. 352. Identico concetto l’A. aveva espresso nella voce “Massoneria” in Novissimo Digesto Italiano, UTET, Torino 1964, p. 320
44 - ibidem – cfr. Isastia, op. ult. cit. pos. Kindle 3516
45 - La lettera fu pubblicata dal Popolo d’Italia del 4 novembre 1922 e poi su Rivista Massonica settembre-ottobre 1922
46 - Isastia: “Torrigiani Gran Maestro”, in AA.VV., “La massoneria italiana da Giolitti a Mussolini”, cit., pos. Kindle 795
47 - Terzaghi, op. e loc. ult. cit.
48 - Mola 2018 p. 548
49 - Isastia, op. ult. cit., pos. Kindle 800-802
50 - Conti, “Massoneria e fascismo: dalla marcia su Roma alla legge sulle associazioni segrete” in AA.VV., La massoneria italiana da Giolitti a Mussolini: Il gran maestro Domizio Torrigiani, cit., pos. Kindle 870 ss.
51 - Lettera del 5 novembre 1922, in ISRT, Archivio Torrigiani, serie I, fasc. 10, ins. 9.
52 - Sui dissensi alla politica di appaesementverso il Fascismo da parte di Torrigiani, cfr. Conti, op. ult. cit., pos. Kindle 890 ss.
53 -In ISRT, Archivio Torrigiani, serie I, fasc. 10, ins. 9.
54 - Gli interventi di Palermi sono riprodotti nella rassegna Polemica massonica, pubblicata in «Rivista massonica», gennaio 1923, pp. 2-15
55 - Parla il Grande Architetto, in “L’Idea Nazionale”, 2 gennaio 1923
56 - Molti storici insistono sul fatto che il Gran Consiglio fosse, all’epoca, una “conventicola privata”. Francamente, non si capisce tale affermazione. Prima che il regime istituzionalizzasse il PNF, lo stesso era un’associazione privata al pari degli altri partiti, libera, quindi, di decidere i propri interna corporis
57 - Venzi, “Massoneria e fascismo”, cit., pos. Kindle 586
58 - ibidem pos. Kindle 591
59 - Pruneti, “La Tradizione massonica scozzese in Italia” - Edimai, Roma 1994, p. 123.

(continua…)

Studio storiografico a cura della Redazione di EreticaMente

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Il tunnel degli italiani – Emanuele Casalena

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Era il 26 novembre 2009, Gino Ragno ci lasciava con la riconoscenza di chi lo aveva conosciuto nelle sue battaglie da politico e giornalista. Era l’ormai lontano 1972 quando un bel gruppo di giovani, tra cui chi scrive, si recò in Germania per le Olimpiadi di Monaco di Baviera. Tutti studenti universitari con pochi sghei ma nello zaino l’entusiasmo non solo per i cinque cerchi ma per l’idea d’una Europa dei popoli tutta da costruire, ancora oggi. Quello era il sogno di Gino quando fondò l’Associazione di Amicizia Italia-Germania ripartendo da due Patrie sconfitte, umiliate dopo l’ultimo conflitto mondiale. Furono un’esperienza forte quelle due settimane di tarda estate, Olimpiadi di sangue per l’attacco terroristico a sorpresa dell’organizzazione palestinese Settembre Nero. Assalirono gli alloggi degli atleti israeliani, ne sequestrarono nove dopo averne uccisi due a bruciapelo, finale una strage, nove ostaggi, cinque fedayyn e un poliziotto uccisi, Monaco blindata dal 5 al 6 settembre, cingolati per le strade, controlli, confusione, tanta impreparazione, Brandt piegato da Golda Meir nel no secco alla  trattativa con i terroristi.

Il viaggio ci portò anche a Dachau, visita al primo campo di concentramento nazista voluto da H. Himmler, prototipo di tutti gli altri lager, persino con la satanica scritta Arbeit macht frei (“Il lavoro rende liberi”) sulla “porta dell’inferno”. Ma fu anche escursione d’un giorno a Berlino a vedere quel muro della vergogna, simbolo triste della cortina di ferro, della guerra fredda, imbecille, ottusa “barriera di protezione antifascista” (Antifaschistischer Schutzwall) della DDR. Costruito nel ’61 cadrà solo nell’89 (ne conservo una scheggia) lasciandosi dietro una lunga lista di vittime della VoPos (oltre duecento) con arresti e internamenti “rieducativi”, anche una farfalla se l’avesse sorvolato sarebbe stata catturata, considerata una spia del capitalismo. Per Gino quel muro era la sconfitta dell’Europa doganale, quella mercantile di otto Stati membri ma politicamente uno 0 spaccato come adesso.  E’ stato lui Gino Ragno a sollevare la coltre sugli italiani che hanno spinto a tutta forza contro quel manufatto dell’orrore, quanti furono? Sedici per quel che s’è potuto ricostruire stante il silenzio ipocrita del nostro Paese impelagato nell’equilibrismo col Partito comunista più forte del vecchio Continente. Raccontava Gino: «Sono cinquemila gli italiani che parteciparono in 28 anni, a Berlino Ovest, a manifestazioni di protesta contro la dittatura della Germania Est; 16 gli italiani arrestati e rinchiusi nelle carceri della Stasi per attività di fluchthilfe, ossia per aver tentato di aiutare ad oltrepassare il Muro decine di tedeschi di Berlino est ». I primi eroi furono due studenti, Mimmo (Domenico) Sesta e Luigi Spina conosciutisi a Gorizia alle medie superiori, ragazzi di un’intelligenza contagiosa, erano in classe con Bruno Pizzul. Mimmo era di Vieste, orfano di padre caduto nella guerra civile spagnola, s’era trasferito al nord a Chioggia, “Gigi” era goriziano d.o.c., alto, smilzo, gran disegnatore, entrambi si iscrissero alla Technische Universität  di Berlino. Mimmo alla facoltà di Ingegneria civile, Gigi all’Accademia di Arti grafiche. Quando i chiodati prussiani, decisero di sbarrare il confine est-ovest con fili spinati arrotolati e poi con blocchi di cemento per impedire, con una barriera sorvegliata, la fuga dei loro concittadini, Peter Schmidt compagno di studi universitari dei due italiani, restò intrappolato con la famiglia oltre la cortina di ferro, era il 13 agosto 1961. Il “mostro” aveva preso forma nel silenzio generale, alla fine sarà lungo 155 Km con un gemello parallelo al suo interno di pari lunghezza, lasciando, in mezzo, una zona brulla tra i due chiamata” striscia della morte”, dice tutto.

Da quella notte del 13 dicembre Berlino era spaccata a metà come una mela, impossibile per i tedeschi dell’Est fuggire ad ovest, erano in trappola, divisi dai loro parenti, amici, studi, Zac, la porta di Brandeburgo non era più simbolo di pace ma della guerra fredda ,“meglio un muro che la guerra” fu il lepido commento di J. F. Kennedy.

Che fare per il caro amico Peter Schmidt intrappolato con moglie e figlioletta, impedito di proseguire i suoi studi? Mimmo e Gigi pensarono di scavare un tunnel, come a volte fanno i carcerati, come sempre debbono fare i minatori, bisognava farsi talpe sotto quel muro di confine. Domenico era ingegnere civile, starà a lui progettare la galleria dirigendone i lavori, ma occorreva far presto e bene, servivano attrezzature e braccia dopo aver individuato, con un sopralluogo, il sito più adatto per dar corso al progetto. La guerra aveva bombardato una vecchia fabbrica lasciandone uno scheletro abbandonato, si trovava in Bernauer Strasse, quello era il posto giusto per iniziare a “bucare” il suolo, partendo dalla Berlino occidentale. Pale, picconi, vanghe e carriole furono prese “in prestito” da un cimitero, la luce elettrica con un allaccio volante, sputo sulle mani e si comincia a scavare in tre, oltre ai due italiani c’era un loro amico Harry Seidel cui si aggiungeranno i coniugi Fuchs, ma presto, per passa parola, il piccolo gruppo fece proseliti arrivando a 40 componenti impegnati nell’impresa, seppur le difficoltà incontrate già nel settembre del ’61 erano tante compreso il finanziamento dell’opera, i pochi soldi di quegli studenti volarono via rapidamente. Per finanziare l’opera Mimmo e Gigi ebbero l’idea di bussare alla televisione americana NBC dandole l’esclusiva delle riprese dei lavori nel tunnel in cambio di un contributo per eseguirlo, in pratica quel filmato sarebbe stato il primo reality ante litteram. Accordo fatto, si procedette con lena.

Quel budello era esattamente come una galleria mineraria, realizzarono un carrello su monorotaia per tirar fuori terra e detriti, illuminarono il tunnel, rinforzarono con travi e puntoni le volte e le pareti dello scavo, spicconavano quasi in ginocchio, lavorando i turni di tre ore, questo esofago doveva raggiungere inizialmente i 170 m. Ma i problemi erano tanti, il più grave in assoluto quello dell’allagamento imprevisto della galleria, con conseguente fermo dei lavori, blocco dell’erogazione idrica, idrovore in prestito, tirar via la fanghiglia con evidente allungamento dei tempi ed il pericolo d’essere scoperti. Per recuperare si decise una variante, accorciare la lunghezza del tunnel a 126 m.  Man mano che ci si avvicinava alla bocca d’uscita ad est, prevista nello scantinato del palazzo al civico 7 di Schonholzer Strasse, si rendeva necessario organizzare la fuga istruendo i prossimi fuggitivi sul come, dove, quando. A tutto questo pensò una donna sola, Ellen, residente a Düsserdolf, fidanzata di Domenico (diverrà poi sua moglie) che aveva libertà d’accesso a Berlino Est. Il coraggio ed il lavoro di questa ragazza furono determinanti allorché, dopo sette mesi, il 14 settembre 1962, fu aperta la bocca della fuga, fu lei ad organizzare in segreto l’operazione, accompagnare a piccoli gruppi i fuggitivi, facendo la spola, riuscendo a beffare l’occhio grifagno della Stasi. Così quel giorno 29 persone, in primis l’amico Peter con moglie e figliola, s’infilarono in quel cunicolo raggiungendo la libertà. Appena in tempo, come in un thriller, perché gli ultimi già uscirono col fango fino ai fianchi, il tunnel purtroppo si stava allagando, non fu possibile portare fuori altra gente, fu per questo che passò alla storia col nome di tunnel 29 o “tunnel della libertà” titolo del romanzo scritto da Ellen Sesta nel 2002. A chi legge queste nostre scarne righe suggerisco di vedere il filmato della NBC cliccando su Un eroe italiano. La storia di Mimmo Sesta e del tunnel 29- stonehenge, più delle parole le immagini trasmettono l’umanità dei fatti.

Domenico Sesta e Luigi Spina non si fermeranno, rimasti a lavorare in Germania continueranno a favorire la fuga verso la libertà di altri cittadini “reclusi” nella Repubblica di Pancow, fino ad essere insigniti della medaglia d’oro al valor civile conferitagli, nel 2000, dall’allora Presidente Ciampi.

La fuga del tunnel 29 fu vincente, ma, come ricordava G. Ragno altri connazionali si son tirati su le maniche, fatto il cuore grande per riuscire ad aggirare il muro, scoperti dalla Stasi, finirono nelle carceri della DDR abbandonati dalla coraggiosa Repubblica Italiana. Le loro storie sembrano dissolte nella memoria come il ballerino Nereo Darmolin cui molti tedeschi dell’est debbono la conquista della libertà, lui non finì ai ceppi che conobbero invece Graziano Bertussin, Benito Corghi (freddato dalla polizia doganale), Pasquale Cervera, Ernesto De Persilis, Antono Di Muccio, Michela Duani, Nicola Marcucci, Vittorio Palmieri, Natale Pirri, Pietro Porcu, Elena Sciascia. Quest’ultima, italo-tedesca, nel ’73 venne arrestata dalla polizia segreta con l’accusa di aver tentato di far fuggire da Berlino Est la sua amica Eva Solingen. Venne torturata in carcere per estorcerle una confessione, poi condannata a 7 anni di reclusione, fu rimessa in libertà nel ’76 dietro il pagamento cauzionale di 80.000 marchi della Germania Federale. Sevizie e regime carcerario le piagheranno per sempre le forze, un marchio a fuoco indelebile, procurandole nel tempo due ictus, il primo a pochi mesi dalla scarcerazione, il secondo in modo irreversibile nel ‘96 tanto da ridurla in coma per sette anni fino alla morte avvenuta il 14 ottobre del 2003. Tra tante memorie e condimenti postumi di lacrime ci chiediamo il perché non siano degni di un ricordo questi eroi quotidiani seppelliti, a loro tempo, per meschine ragioni di diplomazia da bottega.

Emanuele Casalena

Bibliografia

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Chi tradì e chi fu tradito, nell’estate del 1943? – Francesco Lamendola

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La domanda è sempre la stessa: chi furono i traditori e chi furono i traditi, nell’estate del 1943? Se si vuole capire il presente, se si vuole capire il passato, se si vuole capire gli italiani, bisogna avere il coraggio di tornare a porla: sempre la stessa. Finora, invece, non è stata mai posta: sia i politici, sia gli stessi storici, hanno dato delle mezze risposte, dettate da una motivazione ideologica, non dal rispetto della verità, che è, fondamentalmente, rispetto di se stessi. E alle mezze domande hanno replicato con delle mezze risposte. È stato un gioco delle parti, in cui tutti hanno finto di esser soddisfatti perché tutti avevano qualcosa da nascondere. Ma ora, a oltre settant’anni di distanza, sarebbe ora di affrontare veramente la questione, di porla con l’onestà intellettuale e morale che essa merita. Se non sapremo farlo, dimostreremo a noi stessi e al mondo di essere rimasti sempre gli stessi, quelli dell’estate del 1943: sempre inaffidabili perché sempre insinceri, e sempre insinceri perché sempre interessati.

In linea generale, si può dire che quasi tutti, parlando dei tragici rivolgimenti dell'estate del 1943 - il 25 luglio, la caduta del fascismo, e l'8 settembre, il cambio di fronte nella Seconda guerra mondiale - tendono a evidenziare che gli italiani sono stati traditi; che l'esercito è stato tradito; che le speranze di pace sono state tradite; che il destino del Paese è stato tradito, eccetera. Stranamente, pare che tutti siano stati traditi, ma senza che sia ben chiaro chi sono stati i traditori. I fascisti, naturalmente; però... Il 25 luglio, sono stati proprio i gerarchi del Gran Consiglio a tradire Mussolini. E dopo l'8 settembre, quando ormai era chiaro che la partita era perduta, non sono stati pochi quelli che hanno ancora creduto in Mussolini e hanno deciso di stare con lui, in particolare molti giovanissimi, i quali, fascisti, non lo erano mai stati. Difficile, pertanto, considerarli dei traditori. E infatti, perfino la pubblicistica e la retorica più apertamente faziosa, quella resistenziale di matrice comunista, ha sempre dipinto i fascisti di Salò come dei folli, o dei criminali, o degli illusi, ma non come dei traditori: chi mai avrebbero tradito, salendo a bordo della nave che stava per affondare? Resta, però, un mistero: se tutti furono traditi, come è possibile che nessuno abbia tradito? Ha tradito il re, dice qualcuno, ma senza troppa convinzione. Sì, certamente; ma gli si può addossare l'intera responsabilità dell'immane tradimento che vi è stato nell'estate del 1943? E poi, le scene di giubilo nella tarda serata del 25 luglio, quando si diffuse la notizia della caduta di Mussolini e della nascita del governo Badoglio, dimostrano che gli italiani non consideravano il re un traditore, ma quasi un salvatore della patria: sarebbe dunque diventato un traditore tutto ad un tratto, la mattina dell'8 settembre? Ma il re, firmando l'armistizio con gli angloamericani, aveva fatto quel che la maggioranza del popolo desiderava ardentemente; dunque, perché l'8 settembre sarebbe stato, da pare sua, un tradimento? Era legittimo che lasciasse Roma: a cosa sarebbe servito farsi prendere dai tedeschi?

Un'altra risposta di comodo è questa: ci hanno tradito i tedeschi; tradito e ingannato. Non tanto l'8 settembre del 1943, ma il 1° settembre del 1939, quando invasero la Polonia a nostra insaputa, e dopo aver assicurato Ciano e Mussolini che, per almeno tre anni, non vi sarebbe stata la guerra - il tempo necessario per rimettere in efficienza l'esercito italiano, che aveva quasi svuotato i magazzini con le campagne d'Etiopia e di Spagna. Il primo a sostenere questa tesi fu proprio Ciano, il ministro degli Esteri che aveva firmato, pochi mesi prima, il Patto d'Acciaio con la Germania: tardiva resipiscenza, la sua. La verità è che Ciano era un dilettante, un superficiale e un opportunista, e che a lui la poltrona del ministero degli Esteri stava più a cuore del bene del Paese. Un altro, al suo posto, dopo l'attacco tedesco alla Polonia, avrebbe avuto la decenza di dimettersi, confessando di essersi lasciato raggirare. Ma lui non era solo un dilettante e un opportunista (come si vide il 25 luglio), era anche immensamente vanitoso: non si dimise e marciò coi tedeschi quando il Duce, il 10 giugno del 1940, dichiarò la guerra alla Francia e alla Gran Bretagna.

Così, torniamo sempre al rebus iniziale: tutti traditi, nessuno che ha tradito; strano, molto strano. Sembra quasi un copione surrealista; sembra un giallo senza colpevole: c’è il delitto, ma nessuno che lo abbia compiuto.

L'impostazione più chiara e onesta di questa spinosa problematica l'abbiamo trovata in una pagina del libro di Giuseppe Mammarella e Zeffiro Ciuffoletti Il declino. Le origini storiche della crisi italiana (Milano, Mondadori, 1996, p. 129), là dove cercano di dare una risposta alla incredula osservazione di Hitler, il 26 luglio del 1943: Ma allora cosa è stato questo regime fascista che si è sciolto come neve al sole?

L'operazione di rigetto del fascismo e dell'appartenenza al PNF fu la più colossale operazione trasformistica della storia d'Italia che accomunò i fascisti per necessità familiari a quelli della prima ora. I distintivi del PNF si accumulavamo nei tombini e nelle fogne e i liberatori alleati davanti alle proteste di agnosticismo o di antifascismo dei liberati si chiedevano dove si fossero nascosti i fascisti veri. Non si trattava più del trasformismo di individui e di partiti, come nel passato, ma di quello di un intero popolo. La posta di quell'operazione non era il riciclaggio di alcuni personaggi  di alcune forze politiche, ma di un'intera nazione. L'operazione di salvataggio nazionale era impostata così bene e l'indignazione della gente contro il passato regime così genuina (e lo era in realtà anche per il senso di liberazione dalle sofferenze patite durante la guerra) che sembrava destinata a sicuro successo. Ma ciò che accadde poco più di un mese dopo, quando fu annunziato l'armistizio, rischiò di farla naufragare. L'8 settembre non segnò solo la resa dell'apparato militare, ma anche quella del governo, della monarchia e dello Stato creato dal Risorgimento e dal fascismo e all'insegna del "tutti a casa" rischiava di essere anche la resa di tutto un popolo. Se era vero che il fascismo era stato la provocazione di pochi e che il paese era stato contro la guerra di Mussolini, adesso che l'ex alleato tedesco tentava di imporre la restaurazione del fascismo e la continuazione della guerra, agli italiani non restava altra scelta che la Resistenza.

Altro che 8 settembre come rinascita della Patria; niente affatto, è stata la morte della Patria. E non solo è morta, ma abbiamo speculato anche sul suo cadavere: facendo finta che fosse resuscitata. Resuscitata, per opera di chi? Non certo del re e di Badoglio; su questo siamo d’accordo tutti, o quasi. E allora? Per merito della Resistenza? Ah, certo: questa è la risposta politicamente corretta, elaborata fin da subito, fin da prima che la guerra finisse; e ripetuta poi, come una giaculatoria sempre più vuota e banale, per anni, per decenni, continuamente, ma con sempre minor convinzione. Eppure, c’è ancora chi la prende terribilmente sul serio: provate a metterla in dubbio al cospetto di un intellettuale di sinistra, e lo vedrete montare in furore. Schiumando e digrignando i denti, vi dirà che volete infangare la pagina più bella della storia italiana; che volete riabilitare il fascismo e magari anche il nazismo; che non meritate neppure una risposta storicamente e politicamente strutturata, perché chi vuol mettere in dubbio i fondamenti della repubblica democratica non merita di esser preso sul serio. Già, appunto: i fondamenti della Repubblica democratica. È questo il nervo scoperto che li accomuna tutti, dall’estrema sinistra alla destra moderata: la sacralità del sistema democratico emerso, appunto, dalla lotta al fascismo, e che si è concretizzata nella Resistenza. Che, poi, la lotta al fascismo sia stata un’orribile guerra civile, culminata nella mattanza finale dei vinti, dopo che le ostilità erano ufficialmente terminate; e che a condurla siano stati soprattutto i partigiani e gli assassini comunisti dei G.A.P., la cui ideologia era tutt’altro che democratica ed era, anzi, assai più rigidamente e spietatamente totalitaria di quella dei fascisti che ora combattevano, è una questione di dettaglio, che non bisogna enfatizzare. Meglio, molto meglio sottolineare la concordia d’intenti e la solidarietà militante fra tutte le componenti della Resistenza, prefigurazione di una ritrovata concordia nazionale, naturalmente ad esclusione dei reprobi, allora e in sempiterno: infatti, per circa mezzo secolo, gli eredi dell’esperienza fascista non erano considerati degni di esistere, meno ancora di poter partecipare ad un governo della Repubblica. Anche se la prima repubblica l’avevano creata loro, dopotutto: la Repubblica Sociale Italiana, nata dal voltafaccia del re e dall’armistizio dell’8 settembre.

Ci spiace solo che l'ultimo periodo del brano sopra riportato, a nostro giudizio, scivoli appunto nella retorica della Resistenza come reazione ad un fascismo imposto da pochi e ad una guerra subita malvolentieri da tutti, due premesse discutibili, che rendono fallace la conclusione. Per tutto il resto, però, gli Autori sopra citati hanno delineato, in poche frasi, la vera essenza del problema, e hanno avuto il coraggio e l'onestà di guardare in faccia il lato sgradevole della questione, che quasi nessuno, prima di loro, aveva osato guardare senza finzioni o riserve mentali: quella del 25 luglio fu una gigantesca operazione di trasformismo, con la quale un popolo intero, fino ad allora sostanzialmente acquiescente, se non consenziente, con il ventennale regime al potere, volle prendere le distanze da esso, nel momento della probabile sconfitta e dell'imminente arrivo dei nemici, ora visti in veste di possibili "liberatori", nonché amici e benefattori.

Il problema, però, è sempre lo stesso: come poté, un popolo intero, non vedere e non capire che quella non era la sconfitta del regime, ma dell'Italia? Che gli angloamericani non erano affatto dei liberatori, ma dei conquistatori? Che i tedeschi, ora dipinti come mostri, avevano combattuto a fianco dei nostri soldati a El Alamein e in tante altre occasioni, sorreggendo lo sforzo bellico italiano e procrastinando di tre anni il tracollo, che ora si annunciava? Tracollo morale, innanzitutto: perché lo sbarco in Sicilia non fu, come ora viene descritto da tutti, un evento fatale e irresistibile, una specie di forza della natura. Era resistibilissimo, invece: non vi era, sul piano militare, una sproporzione di forze tale da giustificare lo sfaldamento dell'esercito, l'inutile sacrificio dell'aviazione e la vergognosa, umiliante inazione della marina (e quanti denari e quanti sacrifici era costata quella magnifica marina, che al momento decisivo non sparò un solo colpo di cannone!). Tutto questo si poteva intuire già da come erano andate le cose a Pantelleria. Come a Caporetto ventisei anni prima, gli italiani non avevano più voglia di battersi: mostravano di credere che una guerra può finire semplicemente gettando il fucile nel fosso e tornandosene ciascuno a casa sua, non quando il nemico ha deciso, da vincitore e da conquistatore, che è finita. Però, quindici giorni dopo Caporetto, l'esercito italiano, sul Piave e sul Monte Grappa, si era già sostanzialmente ripreso; il fronte interno si era compattato; il Parlamento aveva deciso di stringere i denti e non arrendersi, mai, a nessun costo; e così anche il re - che poi era lo stesso del 1943. Invece, quindici giorni dopo lo sbarco angloamericano in Sicilia, c'era stata la notte del Gran Consiglio, la notte del tradimento. Anzi, dei tradimenti: dei gerarchi verso Mussolini (e verso il fascismo, cioè verso se stessi); e del re verso il capo del governo, i cui atti aveva sinora sottoscritto, dal primo all'ultimo: comprese le leggi razziali e la dichiarazione di guerra. Pare incredibile, ma tutti, tranne Mussolini, erano convinti di poter non solo scendere dalla nave prima che affondasse, ma anche ritagliarsi un posto in cabina di comando sull'altra nave, sulla quale si accingevano a imbarcarsi. Perfino Grandi e Bottai, che pure erano uomini intelligenti. Insomma il 25 luglio l'Italia trovò un solo colpevole e un solo traditore, Mussolini; e l'8 settembre vi aggiunse un altro colpevole e un altro traditore: Hitler. Erano loro la causa di tutto; il popolo italiano era innocente. Era stato ingannato e tradito, appunto. Così dicevano Churchill e Roosevelt, così dicevano il re e Badoglio; così diceva Radio Londra, che tutti ascoltavano, non solo al Sud, ma anche al Nord: e la voce melliflua del colonnello Stevens pareva così convincente, così signorile, così veritiera... Al punto che un famoso giornalista italiano, nel 2012, ha avuto la bella pensata di intitolare Qui Radio Londra un suo programma televisivo di commento all'attualità politica. E pensare che Radio Londra era la radio del nemico, quel nemico che bombardava spietatamente le nostre città indifese, prima, durante e dopo l'armistizio dell'8 settembre; e che aveva iniziato i suoi programmi non nel 1943, con l'armistizio di Cassibile, e neanche nel 1940, con l'entrata in guerra dell'Italia, ma fin dal 1938: un anno prima dell'attacco tedesco contro la Polonia. Meno male che la pacifica Gran Bretagna non voleva la guerra e fu colpita dalle azioni di Hitler come da un fulmine a ciel sereno...

Comunque, tornando al programma di Giuliano Ferrara, il fatto che un giornalista intitoli un suo programma televisivo Qui Radio Londra dimostra quanto poco sono cambiate le cose dall'estate del 1943. Siamo rimasti gli stessi, esattamente gli stessi di allora: un popolo senza dignità, senza onore, che mendica la verità e la pace dai suoi nemici, e che scarica ogni responsabilità sul primo capro espiatorio che gli capita sotto mano, invece di prendersi le proprie sulle spalle...

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