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Filippo Corridoni Sindacalista Rivoluzionario, 1^ parte − Giovanni Facchini

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Pagine Libere

Settembre 2015

La figura e l’opera di Filippo Corridoni non possono non stupire il lettore contemporaneo, racchiuso negli angusti confini politicamente corretti di una società ormai sfaldata, per l’entusiasmo, l’intensità e lo slancio di una lotta sindacalista lontani anni luce dall’accezione stessa che il termine e il suo significato hanno acquisito in questi decenni.

Corridoni sbarcò a Milano, dal piccolo paese in provincia di Macerata in cui era cresciuto, nel 1905, appena diciottenne, con un diploma di disegnatore meccanico in tasca, guadagnato grazie a una borsa di studio, e, come si usa dire, tante belle speranze. Venne subito assunto presso l’ufficio tecnico della Miani e Silvestri, importante azienda meccanica fondata a fine ‘800 dal futuro senatore Giovanni Silvestri[I]. L’azienda si occupava di costruzioni meccaniche pesanti come rotabili tramviarie e locomotive e arrivò ad occupare più di 4000 operai. In Corridoni, scrivono le agiografie[II], era sempre stato vivissimo un sentimento acuto e disinteressato per le ingiustizie sociali, e lo spettacolo disastroso delle masse operaie della Milano di inizio ‘900, in piena rivoluzione industriale, lo avvicinò ben presto alle idee più radicali che allora emergevano nel movimento socialista, vale a dire a quel sindacalismo rivoluzionario da poco teorizzato oltralpe da Georges Sorel e portato in Italia da intellettuali come Arturo Labriola ed Enrico Leone[III].

Filippo Corridoni divenne, nei suoi intensi anni di militanza, l’archetipo stesso degli ideali e della prassi sindacaliste rivoluzionarie, divenendone a mio parere l’espressione più compiuta, l’esempio migliore di questo movimento “eretico” per antonomasia.

Sorto agli inizi del ‘900 in Francia dalle frange più estreme del socialismo marxista, sulla scorta delle nuove correnti culturali ed artistiche dell’esistenzialismo e delle avanguardie, del pensiero di Sorel e di Nietzsche, della nuova sociologia di Mosca e Pareto, il sindacalismo rivoluzionario in Italia si sviluppò rapidamente sia sul piano intellettuale quanto su quello operativo.Pagine Libere

A livello culturale il punto di riferimento fu la rivista “Pagine Libere”[IV], edita a Lugano dal 1906, fondata e diretta da Angelo Oliviero Olivetti, che vide la collaborazione dei maggiori teorici del movimento (Sergio Panunzio, Enrico Leone, Paolo Orano, Arturo Labriola, Agostino Lanzillo), ma che ospiterà anche articoli di uomini d’azione come Benito Mussolini e Filippo Corridoni. In copertina comparirà sempre un possente cavallo imbizzarrito, nell’atto di spezzare le catene dell’oppressione, con alle spalle i raggi del sole dell’avvenire rivoluzionario: espressione plastica questa, di quelle forze barbare e primigenie che ancora si presentavano, secondo i sindacalisti, allo stato latente, nella parte più genuina del popolo, ancora non imbrigliato e corrotto dalle catene e dalle convenzioni della ipocrita società borghese della disprezzatissima belle epoque.

A livello operativo il movimento ebbe una larga diffusione nelle camere del lavoro delle zone agricole più povere della pianura padana (e al Sud in Puglia, per iniziativa di Giuseppe Di Vittorio), dove dominava il latifondo e migliaia di braccianti vivevano e lavoravano in condizioni difficilissime: protagonisti di queste lotte saranno i fratelli Alceste e Amilcare De Ambris, Edmondo Rossoni, Ottavio Dinale, Michele Bianchi, Attilio Deffenu e naturalmente il giovane Filippo Corridoni. Anche a Milano, fra i metalmeccanici e i ferrovieri della grande città industriale, il movimento si diffuse rapidamente.

In sostanza i seguaci di Sorel vedevano nel sindacato di mestiere, e non nel partito politico, fosse pure quello socialista, lo strumento primario che dal basso doveva spingere le masse proletarie ad autogestirsi e ad autoaffermarsi, attraverso la durissima pedagogia di lotta dello sciopero, del sabotaggio, del boicottaggio, fino ad arrivare a costituire un vero e proprio contropotere alternativo, autoregolantesi attraverso i principi della più genuina democrazia diretta, che avrebbe eroso e infine sostituito, arrivato il momento mitico dello sciopero generale, le vecchie e decrepite istituzioni borghesi.

Per questo i sindacalisti rivoluzionari entreranno ben presto in collisione con il “partitone” socialista italiano (saranno espulsi ufficialmente già durante il congresso di Ferrara, nel 1907), che, sul modello quasi perfetto dei compagni tedeschi[V], vedeva nel sindacato niente di più che la classica “cinghia di trasmissione” con la società civile, uno strumento fiancheggiatore dell’azione politica del partito. Ma il partito socialista, per Corridoni e per i sindacalisti, per quanto si dichiarasse “rivoluzionario”, rifletteva sempre la mentalità, le istituzioni, le prassi organizzative democratiche e borghesi, sempre in attesa e, con la certezza scientifica della dottrina marxista, di arrivare prima o poi, attraverso l’ennesima crisi economica o col successo elettorale, all’instaurazione dell’agognato sistema economico comunista. Così infatti termina Sindacalismo e Repubblica, il saggio teorico più importante scritto da Filippo Corridoni:

Diranno che è inutile sprecare tante energie e tanti sacrifici in scioperi , boicottaggi, sabotaggi ecc. quando basta conquistare con la propaganda la metà più uno dei cittadini “attivi”, per proporre una legge di socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, legge che risolverà definitivamente la questione sociale. E i ceti medi, fra i quali il partito ha reclutato sempre il nerbo maggiore delle sue truppe, si lasceranno corteggiare e faranno gli oci teneri; e la borghesia dirà che quello è il modo di ragionare, e che così si procede in una società civile ove sono state realizzate le più solide conquiste democratiche. E, chissà forse i proletari si lasceranno prendere nuovamente nella rete e conteranno, elezione per elezione, l’aumento dei voti, come ora contano i collegi conquistati e in base a ciò calcolano fra quanti anni si avranno duecentocinquantacinque deputati socialisti. Ma poi? Quando tornerà la nuova ubriacatura? Non facciamo calcoli inutili. Quel che sappiamo è che di pari passo a quest’ultimo disperato tentativo del socialismo elettorale, per non lasciarsi sfuggire il gregge, e della borghesia, per non essere obbligata a battaglie disperate, procederà inesorabile la violenza proletaria per opera di coloro che amano combattere[VI].

E così sintetizzava nel 1912 a Parma Amilcare De Ambris, in una relazione del comitato di azione diretta della CGdL:

Noi vogliamo lo sviluppo integrale, completo, autonomo del sindacato operaio, fino a farne l’elemento costitutivo principale e l’organo direttivo della nuova società dei produttori liberi ed uguali per la quale combattiamo. Essi [i socialisti] intendono che il sindacato non abbia da essere che uno strumento per i miglioramenti parziali ed illusori, che la classe operaia può ottenere più dalla benevolenza della classe padronale e dall’intervento statale che dalla propria forza, rivolta ad un’audace conquista. La vera trasformazione sociale essi intendono che debba essere compiuta nello stato e dallo stato, con una serie di misure legislative e con una estensione sempre cosciente dei poteri dello stato che dovrebbe arrivare a sostituirsi al capitalismo privato, evocando a sé la dirigenza di tutta la produzione e di tutto lo scambio, nonché la distribuzione della ricchezza. Quale punto di contatto vi è fra questa concezione statolatrica e autoritaria del divenire sociale, e la concezione sindacalista, antistatale e libertaria? Nessuno. Noi andiamo dunque per opposta via, ad una meta opposta a quella dei [socialisti] riformisti. Noi vogliamo annullare il potere oppressivo dello stato; essi vogliono moltiplicarlo ed aumentarlo fino a farne il regolatore supremo di tutta la vita sociale. Noi miriamo alla conquista dell’autonomia e della libertà integrale dei gruppi produttori, e dell’individuo in seno a questi gruppi; essi mirano ad instaurare la più terribile tirannia che abbia mai visto il mondo[VII].

Parole quasi profetiche se consideriamo i drammatici sviluppi del primo dopoguerra, con la rivoluzione bolscevica e la nascita della statolatria burocratico-totalitaria comunista.

Organizzare la Città al di fuori delle idee democratiche, e le classi AL DI FUORI della democrazia, NONOSTANTE la democrazia, CONTRO la democrazia, scriveva George Sorel nel 1908 in Riflessioni sulla violenza. Per i sindacalisti la democrazia parlamentare borghese, sia nella variante liberale quanto in quella social-riformista, con il suo corollario di clientelismi e compromessi, era considerata quasi come una malattia da cui le forze ancora genuine e sane del proletariato andavano tenute alla larga da ogni contagio.

Nessun partito rappresenta genuinamente la classe operaia e quindi nessun partito può arrogarsi il diritto di parlare a nome di essa e di dichiarare di essere il difensore dei suoi interessi – in quanto il sindacato – espressione pura della classe operaia organizzata per la lotta, è l’unico elemento che possa operare, con i suoi mezzi, la trasformazione radicale della attuale società […]

Per noi coloro che reggono il comune saran sempre nostri nemici, tanto più temibili e pericolosi se potranno fra l’altro ammantarsi di un preteso suffragio popolare e se potranno governare con in bocca la menzogna di farlo nell’interesse del popolo[VIII].

Contro la forma-partito e la mediazione del sistema di rappresentanza indiretta Corridoni e i sindacalisti opponevano la pratica costante e genuina della democrazia diretta, ovviamente applicabile a partire da comunità omogenee disciplinate e responsabili, come potevano e dovevano diventare i sindacati di mestiere forgiati dalla lotta:

Con la pratica della democrazia diretta anche i partiti perdono gran parte della loro onnipotenza. Fino a che la politica è per l’umile cittadino una cosa misteriosa, complicata e lontana esso subisce facilmente l’ascendente dei suoi rappresentanti, di coloro che hanno “le mani in pasta” e che il cui giudizio è accettato come il responso di un oracolo; ma quando con l’uso de referendum, del diritto all’iniziativa ecc. diventa indispensabile far conoscere ad ogni cittadino gli ingranaggi del meccanismo misterioso, che serve alla fabbricazione delle leggi, esso comincerà a famigliarizzarvisi, ne vedrà la banalità e comincerà a giudicare con la propria testa senza contentarsi più di delegare un dato individuo a pensare per lui[IX].

La concezione sindacalista rivoluzionaria aspirava quindi ad andare oltre tanto alla democrazia parlamentare partitocratica, quanto alla presunta alternativa della democrazia popolare di stampo socialista (poi comunista). Scriverà anni dopo Silvano Panunzio[X]:

Il socialismo si presenta come un individualismo materialistico elevato a potenza: proprio esso è il più lontano di tutti dal “sociale” perché una società livellata è la negazione del concetto stesso di società. La democrazia trasformerebbe gli uomini da biondi o bruni (non importa) animali da preda belluina, in animali da preda mercantile e “capitalistica”. Il socialismo non farebbe che concludere questo processo. In pratica, non più solo formalmente “uguagliando davanti alla legge (democrazia), ma “socializzando le sostanze (socialismo), gli uomini verrebbero a cessare del tutto d’essere animali da preda in qualsiasi campo, vuoi politico, vuoi economico. Ed è certo un bel risultato, non possiamo negarlo a Marx e al socialismo. Ma che se n’è fatto, però, di questi uomini? Da animali da preda li si è trasformati in “animali da lavoro”[XI].

Opposta a tale distorsione stava la forma aristocratica sindacalista, il “governo dei migliori”, come concezione generale del mondo, atteggiamento verso la vita, come sentimento spirituale, che, nel lessico attuale, potremmo tradurre come “meritocrazia”. Non aristocrazia chiusa del sangue o della ricchezza, ma del valore personale; non autoritaria, ma semmai autorevole. L’aristocrazia in quanto principio del meglio era per sua stessa natura aperta, e, infine, sociale, come già evidenziato da Pareto, il quale aveva parlato dei sindacati operai come delle “nuove aristocrazie sociali della nostra età”. Nel mondo moderno in decadenza, ripresa in forme nuove dello spirito delle società organiche tradizionali, opposta all’equazione democrazia-socialismo, stava allora l’equazione sindacalismo-aristocrazia:

Il sindacalismo vuole instaurare, nel campo sociale-economico e quindi politico, un principio di competenza tecnica. Il socialismo vuole soltanto far massa per scopi elettorali e per questo, è ottimo il criterio delle rappresentanza proprio della democrazia. La competenza non è infatti principio democratico ma aristocratico: essa implica una selezione, laddove la democrazia (e per essa il socialismo) si contenta della elezione come mera nomina. Il concetto della rappresentanza è tutto numerico perché la democrazia consiste appunto ed esclusivamente nel maggior numero di voti che si possano dare e raccogliere. Ma il sindacalismo vuole che la società si organizzi secondo sue leggi immanenti e che gli organi rappresentativi dello Stato esprimano fedelmente la struttura e la vita reali della medesima società. Né esso, come è proprio dei socialismi, si presenta quale una concezione panteistica del cosmo sociale, politico e umano.

E’ noto invece che la più matura dottrina sindacalista postula al vertice delle aspirazioni una Camera delle professioni: quanto è dire una Camera di competenti per tutti i rami concreti dell’attività umana. Ma, nell’aspirare a questo, il sindacalismo non mette tutto sotto i piedi, così come vorrebbero fare quelle nette tendenze antisociali che, per uno strano e secolare equivoco, prendono il nome di socialismi. Questi ultimi, per il loro monismo angusto ed esclusivo, trovano la loro espressione più fedele nel sistema unicamerale del Parlamento, appunto perché essi, muovendo da una parte (il proletariato) della società, e, nel migliore dei casi, da un unico aspetto (il lavoro) dell’attività della stessa pretendono che tutta la società si riduca a questa parte e a questo aspetto con esclusione di qualunque altro[XII].

Per i sindacalisti come Corridoni la rivoluzione era quindi innanzitutto un fatto di volontà, e la lotta di classe doveva riflettere prima di tutto un cambiamento interiore, un salto di qualità e di mentalità delle masse proletarie: attraverso la nuova morale eroica dei produttori sarebbe sorta la nuova aristocrazia sociale.

L’antica nobiltà feudale aveva vissuto la sua epica attraverso il Medioevo e le Crociate; la borghesia aveva ottenuto la sua epopea con la rivoluzione francese, le guerre napoleoniche e il ’48; ora toccava al proletariato costruire il proprio mito attraverso la lotta e il sacrificio. Per i sindacalisti come Corridoni la lotta di classe si trasfigurava in senso quasi eracliteo: soltanto dalla “guerra sociale” sarebbero nate l’uomo e la società nuove.

Per il giovane Corridoni questo compito era sentito come una missione, un impegno totalizzante che non ammetteva deroghe o tentennamenti:

F_corridoni_CoverPer guidare il proletariato alla rivoluzione, sono necessari una eccezionale forza di volontà, una fede assoluta senza ombra di dubbio e senza inquinazioni pessimistiche, ed anche e soprattutto un elevato spirito di sacrificio. Il sindacalismo non è morale di rinuncia, ed io non pretendo che si sia degli asceti o degli anacoreti – amo anch’io la vita nella sua complessità – ma sono persuaso che un gaudente non sarà mai un condottiero[XIII].

Una lotta e una violenza intese e condotte da Corridoni e dai sindacalisti, nella teoria come nella prassi, sempre in modo leale, a viso aperto, come pedagogia per un popolo che doveva saper crescere prima di tutto spiritualmente, una massa amorfa che attraverso il sindacato da gregge doveva diventare branco e passare da un’atteggiamento bassamente egoistico a una morale autenticamente eroica. Una concezione quindi completamente diversa da quella che sarà la violenza terroristica e amorale tipica dei movimenti social-comunisti degli anni a venire: una violenza asettica e scientifica pianificata dall’alto, quanto brutale perché capace di sfruttare dal basso gli istinti più primitivi e “di pancia” di masse isteriche e fanatizzate.

Scriveva Corridoni, con grande lucidità:

E pur noi non vorremmo la ribellione della fame. A chi gioverebbe? Un uomo che impugna un coltello o un fucile per satollarsi è una forza puramente negativa: ficcategli nello stomaco una pallottola ed egli ritornerà nella cuccia. La rivoluzione non deve essere fatta da cani arrabbiati. La rivoluzione non deve essere opera di un ventre vuoto o di uno stomaco stiracchiato, ma bensì di un cervello sano e fresco, che medita una vita di giustizia e di equità e che vi vuol giungere a tutti i costi, anche attraverso alla violenza, ma organizzata e intelligente[XIV].

Lo sciopero doveva essere politico, non economico: logicamente occorreva partire dalle rivendicazioni pratiche e materiali immediate dei lavoratori, ma con lo scopo ultimo di forgiare la solidarietà e la coesione di un sindacato che doveva farsi comunità, contropotere sociale e morale alternativo al decadente stato borghese moderno.

Perchè, che cos’è la rivoluzione sindacalista? Crediamo di averlo notato: è il proletariato battagliante contro la borghesia e che esce dal terreno dell’economico per invadere quello extraeconomico, conscio delle sue forze ed intuente la finalità della sua azione. Fino a che le organizzazioni proletarie combattono la propria battaglia con la mira precisa e specifica di assottigliare il margine del profitto borghese, tutte comprese dalla responsabilità di non essere al di là del profitto stesso, allora la loro azione è legalitaria e cioè economica; quando invece i sindacalisti saltano risolutamente il fosso del profitto per attentare alla vita stessa del capitale, allora esse compiono opera extraeconomica e cioè rivoluzionaria[XV]

Per questo i sindacalisti erano antiprotezionisti e liberisti in campo economico: occorreva eliminare ogni legaccio, ogni pastoia in grado di impedire il dispiegarsi totale e completo della più sana lotta di classe[XVI]. In Italia esisteva una troppo debole classe imprenditoriale, spesso troppo legata alle commesse statali, e quindi imbevuta di assistenzialismo e clientelismo, priva di quelle virtù “eroiche” fatte di ambizione e spirito di avventura che avevano fatto altrove la fortuna del capitalismo e della borghesia. Di questo ne faceva le spese anche il proletariato che, mal gestito e organizzato dal partito socialista, vedeva nello sciopero soltanto un mezzo per ottenere piccoli vantaggi materiali momentanei e restava irretito dai compromessi, incapace di svilupparsi e di crescere in modo autonomo.

Occorreva spazzare via tutte lo sovrastrutture ancora sussistenti dello stato reazionario che impedivano lo sviluppo tanto di una borghesia che di un proletariato autonomi, posti in sana competizione fra loro: le burocrazie inadempienti, vera e propria casta di privilegiati, e poi lo stato di polizia, l’influenza clericale, le istituzioni monarchiche, le varie massonerie[XVII] e lobbies.

Per questo i sindacalisti erano anche federalisti, per le autonomie municipali e locali, la democrazia diretta da attuarsi attraverso l’uso frequente dello strumento referendario, contro il centralismo autoritario dello stato sabaudo. Alceste De Ambris arrivò a teorizzare un vero e proprio progetto comunalista che, ispirandosi all’esperienza dei liberi comuni medievali, mirava ad un nuovo ordinamento statale federale che avrebbe affiancato e favorito lo sviluppo dei sindacati di base come nuove cellule dell’organismo sociale[XVIII].

Infine i sindacalisti come Corridoni erano fortemente antimilitaristi, ma di certo non in quanto legati a un astratto pacifismo, ma perchè la struttura centralizzata e oppressiva dell’esercito di leva costituiva un grave contrappeso a cui le forze borghesi si appoggiavano ogniqualvolta si trovavano in difficoltà di fronte alla marea montante di uno sciopero ben riuscito e organizzato. Anziché accettare fino in fondo la lotta, dando slancio ad una leale competizione, che avrebbe nel tempo prodotto un progressivo sviluppo economico, la borghesia italiana preferiva sempre rifugiarsi sotto le ali protettrici delle strutture dello stato reazionario, in primis polizie ed esercito. Per questo per Corrdoni era estremamente importante la propaganda fra i “proletari in divisa” e sua sarà questa frase: la rivoluzione si farà non contro l’esercito ma con l’esercito. Sostituire l’esercito della leva obbligatoria di massa dello stato accentratore con una polizia e una milizia su base territoriale e popolare, sul modello svizzero, costituiva lo scopo finale del programma sindacalista.

La prima di una incredibile serie (circa 30) di condanne e arresti arrivò nel 1907 per il ventenne Corridoni proprio per la propaganda antimilitarista che conduceva dal periodico “Rompete le file” insieme all’anarchica Maria Rygier. Fu quindi costretto a un periodo molto duro di esilio forzato a Nizza, dal quale rientrò nel maggio 1908 per unirsi, con lo pseudonimo di Leo Celvisio[XIX], ai braccianti agricoli che avevano appena ingaggiato una lotta durissima a Parma e provincia.

Fu questo forse l’evento fondante dell’epopea del movimento sindacalista rivoluzionario in Italia, uno sciopero generale durato due mesi organizzato nella città emiliana dalle leghe bracciantili guidate da Alceste De Ambris contro gli agrari, che assunse toni epici e drammatici da entrambe le parti. Corridoni, alias Leo Celvisio, si distinse per la prima volta nell’organizzare la protesta, coinvolgendo gli studenti universitari, convincendo addirittura i crumiri reclutati dagli agrari a desistere, mentre in tutta italia venivano ospitati nelle famiglie operaie i figli degli scioperanti, dando vita alle prime forme di solidarietà proletaria tanto auspicate dai sindacalisti. Alla fine la stanchezza delle parti in lotta e l’intervento della forza pubblica decretò il sostanziale fallimento dello sciopero, ma per il movimento sindacalista fu comunque un successo, perché aveva aumentato enormemente il grado di maturazione e di consapevolezza del proletariato padano.

Corridoni aveva dimostrato tutto il suo valore ed anche una certa dose di coraggio fisico:

a difendere una barricata proprio di fronte alla camera del lavoro stava Corridoni con alcuni amici. Ad un tratto, quando la difesa di quell’avamposto aveva il suo limite estremo, un ufficiale di cavalleria gli puntò contro la rivoltella gridandogli: “Vai via o sparo!” Leo Celvisio non si mosse… Rispose offrendo il petto: “Spara dunque, vigliacco”[XX].

Di nuovo esule, stavolta in Svizzera, nel 1908 Corridoni visse momenti di estrema povertà, nonostante la salute cagionevole lavorò anche come manovale ma non mancò di dimostrare la sua generosità prodigandosi nel raccogliere fra gli emigranti fondi e aiuti per i terremotati di Messina[XXI].

Rientrato in Italia a seguito di un’amnistia, nel 1909-10 Filippo Corridoni fu segretario della Camera del Lavoro di San Felice sul Panaro, nella bassa modenese, vicino a Mirandola dove aveva operato con successo il sindacalista rivoluzionario Ottavio Dinale[XXII].

Fra i braccianti e i contadini di queste zone poverissime, contigue al ferrarese, dominio incontrastato della malaria e del latifondo, Corridoni portò il suo entusiasmo e la sua determinazione, pur fra mille difficoltà dovute a una realtà locale comunque troppo angusta e provinciale. L’azione di Corridoni fu fortemente condizionata suo malgrado da una polemica anticlericale che assunse toni sempre più aspri. A Mirandola l’energico parroco don Roberto Maletti[XXIII] aveva dato vita alle prime forme di associazionismo politico e sociale di stampo cattolico in risposta allo strapotere delle leghe rosse e questo era visto ovviamente come un grave pericolo dai sindacalisti. Il culmine fu raggiunto alla notizia della condanna a morte per alto tradimento, nella Spagna reazionaria e ultracattolica, del pedagogista e anarchico Francisco Ferrer[XXIV], noto per le sue posizioni anticlericali e a favore della scuola laica: Corridoni con alcuni militanti domenica 17 ottobre 1909 inscenò una violenta dimostrazione davanti al Duomo di Mirandola, con annessa irruzione in Chiesa durante la funzione religiosa e conseguente rissa generale[XXV].

Nel 1911 Corridoni rientrò a Milano ed è nella grande metropoli lombarda che si affermarono definitivamente il suo talento e la sua capacità, non tanto e non solo come agitatore e polemista, facilmente etichettabili come tipiche di un giovane irruente ed esaltato, ma soprattutto come organizzatore capace, serio ed instancabile.

In particolare si distinse in giugno nel guidare e sostenere lo sciopero dei gasisti milanesi, gli operai del gas allora dipendenti di un’unica azienda privata, la francese Union des Gaz[XXVI], in lotta contro una serie di licenziamenti immotivati. Lo sciopero assunse anche stavolta toni epici, con cortei e comizi in tutta la città, mentre la forte personalità di Corridini trovò un degno avversario nell’ing. Giuseppe Gruss, direttore generale della Union a Milano e simbolo della reazione padronale.

Dopo diversi tentativi e nonostante l’ostilità della CGdL milanese, a guida riformista, Corridoni riuscì a far proclamare per il 1 luglio lo sciopero generale di solidarietà da parte di tutte le categorie. Di fronte alla minaccia di una paralisi totale, il Prefetto di Milano consigliò la società del gas a scendere a più miti consigli e si giunse quindi a un compromesso soddisfacente per i lavoratori.

La vicenda della Union des Gaz fu emblematica per le concezioni sindacaliste, in quanto già allora si parlava di municipalizzare servizi di pubblica utilità, come gas ed energia elettrica, allora in mano a società private. Corridoni era estremamente contrario in quanto pensava che la statalizzazione del servizio avrebbe fossilizzato e imbavagliato ogni forma di libera e genuina lotta di classe, penalizzando l’efficienza e lo sviluppo del servizio stesso, in coerenza con la concezione libertaria e antiprotezionista del movimento sindacalista. La gestione diretta dello stato, se in un primo tempo avrebbe potuto portare piccoli benefici diretti ai lavoratori, a lungo termine avrebbe inficiato ogni libero e naturale sviluppo autonomo del sindacato e avrebbe “corrotto” lo spirito dei lavoratori abituandoli alle logiche clientelari e parassitarie del pubblico impiego, anziché a una dura, “meritocratica” competizione con il capitale privato. Concetti incredibilmente attuali anche nel dibattito politico odierno e ribaditi in uno scritto del 1914 rimasto allora inedito, Municipalizzazione, pubblicato di recente nella raccolta di Andrea Benzi, in cui Corridoni si diceva contrario anche alla statalizzazione del servizio tramviario milanese.

segue con la seconda parte NOTE [I] Nel 1918 l’azienda si trasformò in OM – Officine Meccaniche già Miani e Silvestri & C-A. Grondona Comi & C. e passò al gruppo Fiat, collegata in particolare all’Iveco, producendo negli anni numerosi modelli di trattori e camion; oggi il marchio sussiste ancora nella OM Carrelli Elevatori Spa. Gli operai della Miani e Silvestri saranno protagonisti in tutte le battaglie sindacaliste condotte da Corridoni negli anni successivi. [II] Su tutte la ponderosa biografia di Yvon De Begnac, L'arcangelo sindacalista. Filippo Corridoni, Milano, A. Mondadori, 1943. [III] Per un inquadramento generale del dibattito storiografico intorno ad un fenomeno complesso come il sindacalismo rivoluzionario italiano, cfr. G. B. Furiozzi, Il sindacalismo rivoluzionario italiano, Mursia, Milano, 1977; G. B. Furiozzi, Dal socialismo al fascismo. Studi sul sindacalismo rivoluzionario italiano, Esselibri-Simone, Napoli, 1998. A. Riosa, Il sindacalismo rivoluzionario in Italia e la lotta politica nel Partito socialista dell’età giolittiana, De Donato, Bari, 1976; A. Riosa, Momenti e figure del sindacalismo prefascista, Unicopli, Milano, 1996; Maddalena Carli, Nazione e rivoluzione – il socialismo nazionale in Italia: mitologia di un discorso rivoluzionario, Unicopli edizioni, Milano, 2001 [IV] Sulla rivista “Pagine Libere” esiste il recente e dettagliato studio monografico di W. Gianinazzi, Intellettuali in bilico. “Pagine libere” e i sindacalisti rivoluzionari prima del fascismo, Unicopli, Lugano-Milano, 1996; cfr. anche P. C. Masini, La rivista “Pagine Libere”, in “Ricerche storiche”, n. 1, gen.-apr. 1981, pp. 293-300; P. Favilli, Economia e politica del sindacalismo rivoluzionario. Due riviste di teoria e socialismo scientifico: “Pagine Libere” e “Divenire sociale”, in “Studi storici”, gennaio-marzo 1975. La rivista venne poi rifondata nel 1946 dai figli di Sergio Panunzio, Vito e Silvano, oggetto in particolare della mia tesi di laurea in Storia contemporanea: Sindacato, Nazione, Tradizione – L’esperienza di Pagine Libere nella cultura di destra dell’Italia repubblicana (1946-1968), Università degli studi di Bologna, Facoltà di lettere e filosofia, 2004 [V] Negli anni d’oro della Germania guglielmina, il partito socialista tedesco SPD, crebbe fino al raggiungimento della maggioranza relativa al Reichstag, divenendo un modello, con la sua imponente organizzazione burocratica, per i socialisti europei fino allo scoppio della Prima guerra mondiale. [VI] Filippo Corridoni, Sindacalismo e Repubblica, Milano, 1915, (prima ed. Parma, 1921) ora in Andrea Benzi, a cura di “…Come per andare più avanti ancora – Filippo Corridoni, gli scritti”, SEB, Milano, 2001, pp. 198 [VII] Ora in L. Salsiccia, Filippo Corridoni, una vita per la rivoluzione, Corridonia, 1987 P. 50 [VIII] F. Corridoni, A lumi Spenti, in L’Avanguardia, 1 novembre 1913, ora in L. Salsiccia, op. cit., p. 88 [IX] F. Corridoni, Sindacalismo e Repubblica, ora in a cura di Andrea Benzi, op. cit., p. 197 [X] Silvano Panunzio (Ferrara 1918- Pescara 2010), figlio di Sergio Panunzio, uno dei massimi teorici del sindacalismo rivoluzionario prima, nazionale poi, riprenderà con il fratello Vito nel 1946 la pubblicazione di “Pagine Libere”, nel tentativo di riproporre nel difficile dopoguerra, attualizzandole, le tematiche sindacaliste. [XI] Silvano Panunzio, Difesa dell’aristocrazia “Pagine Libere”, n. 8-10, agosto-ottobre 1948. [XII] Silvano Panunzio, Difesa dell’aristocrazia, op. cit. [XIII] F. Corridoni, Verità necessarie, in L’internazionale del 6 aprile 1912, ora in L. Salsiccia, op. cit., p. 38 [XIV] F. Corridoni, Le rovine del neoimperialismo italico, ora in Scritti, a cura Andrea Benzi, op. cit., p.50 [XV] F. Corridoni, L’internazionale, dicembre 1912, ora in L. Salsiccia, op. cit., p. 43 [XVI] Nel 1904 sindacalisti come Enrico Leone e Arturo Labriola avevano partecipato alla fondazione di una Lega Antiprotezionistica [XVII] Si veda l’articolo di Corridoni Contro la massoneria, in Scritti, a cura Andrea Benzi, op. cit., pp. 23-27 [XVIII] Si veda G.B. Furiozzi, Il sindacalismo rivoluzionario italiano, op. cit., p. 57 [XIX] Pseudonimo che Corridoni adottò con evidente riferimento alla Rocca di San Leo, in provincia di Rimini, al confine con le sue Marche, famosa per aver ospitato nel ‘700 numerosi detenuti politici fra cui il conte di Cagliostro. Calvisio (scritto però con la A) è invece una località del comune di Finale Ligure, al confine quindi con la Francia e la città Nizza in cui Corridoni risiedette alcuni mesi durante la sua latitanza. [XX] Tullio Masotti, Corridoni, Casa editrice Carnaro, Milano, 1932, p. 33; citato anche in Y. De Begnac, op. cit., p. 207 [XXI] Il 28 dicembre 1908 un violentissimo sisma rase al suolo le città di Messina e Reggio Calabria, provocando circa 100mila vittime [XXII] Ottavio Dinale (Marostica 1871- Roma 1959) Trasferitosi a Mirandola nel 1897 come insegnante di ginnasio, nel novembre 1905 abbandonò definitivamente il partito socialista e costituì nella città dei Pico una Federazione sindacalista autonoma. Diventerà poi collaboratore di Mussolini e interventista allo scoppio della grande guerra. Sindacalista nazionale durante il Regime, aderirà con entusiasmo alla RSI. [XXIII] Don Roberto Maletti (1878-1927) fu amico e seguace di don Romolo Murri, il fondatore della prima democrazia cristiana. Diresse L'Operaio cattolico, organo della Diocesi di Carpi, dal 1901 al 1904. Fu parroco di Mirandola dal 1907 al 1927 [XXIV] Francisco Ferrer (1859-1909), anarchico e massone, come pedagogista è rimasto celebre per aver fondato e organizzato nella sua Barcellona la “Escuela moderna” per insegnare i valori sociali radicali ai ragazzi della borghesia al di fuori da ogni condizionamento clericale. Coinvolto nei fatti la "Settimana Tragica", una rivolta scoppiata il 26 luglio 1909 quando la popolazione si ribellò alla Guardia Civile che aveva il compito di far imbarcare i coscritti (per la quasi totalità appartenenti alle classi povere) mandati a combattere nelle guerra coloniali in Africa, venne condannato a morte e fucilato. [XXV] Per questo e altri fatti Corridoni fu arrestato ben dieci volte durante la sua permanenza nel modenese, ospite fisso dell’allora carcere di Modena di Sant’Eufemia. [XXVI] Una interessante storia del gas a Milano, monopolio della Union des Gaz fin dal 1859, è consultabile alla seguente pagina web http://www.storiadimilano.it/citta/milanotecnica/gas/gas.htm

Filippo Corridoni Sindacalista Rivoluzionario, 2^ parte − Giovanni Facchini

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Convegno 12.9

Nel settembre del 1911 scoppiava la Guerra di Libia e le vicende legate a questo conflitto segnarono profondamente il movimento rivoluzionario. Alcuni sindacalisti, specialmente intellettuali come Angelo Oliviero Olivetti, Paolo Orano e Sergio Panunzio del gruppo di “Pagine Libere”, si schierarono apertamente a favore dell’avventura coloniale, segnando una convergenza con il nascente, irrequieto movimento nazionalista. Fin dalle origini il sindacalismo, rispetto all’astratto internazionalismo socialista, aveva considerato diversamente il fattore nazionale[XXVII], non solo come mezzo e strumento transitorio utile per la coesione delle masse proletarie[XXVIII], ma come valore identitario e fondativo di un nuovo concetto di Patria, non più prerogativa della classe borghese, ma espressione insieme al sindacalismo di una nuova morale eroica potenzialmente in grado di scardinare l’ormai degenerato sistema democratico. Così scriveva Angelo Oliviero Olivetti, con toni quasi dannunziani, su “Pagine Libere” del 15 febbraio 1911:

Ora il sindacalismo come il nazionalismo riaffermano una originalità frammezzo all’onda irrompente della mediocrità universale: quello la originalità di una classe che tende a sprigionarsi ed a superare, questo amoroso di far rivivere il fatto ed il sentimento nazionale, inteso come originalità di una stirpe, come affermazione di una personalità collettiva, con caratteristiche note culturali, sentimentali, con un istinto proprio e differente.

Sindacalismo e nazionalismo sono perciò antidemocratici, antipacifisti, antiborghesi. E, diciamo la parola, sono le due sole tendenze aristocratiche in una società quattrinaria e bassamente edonistica, quello agitante l’avvento di una élite di produttori, questo auspicante il predominio di una élite della razza che vuole reindividuare attraverso il progressivo smarrimento di ogni nota di personalità e di schiettezza primitiva.

Finalmente nazionalismo e sindacalismo hanno comuni il culto dell’eroico, che vogliono far rivivere in mezzo ad una società di borsisti e di droghieri. La nostra società muore per mancanza di tragedia […].

Il nazionalismo e il sindacalismo sono le sole concezioni politiche del nostro tempo che agitano le profondità di un mito, quello invocando la supremazia della stirpe, questo lo sciopero generale e la rivoluzione sociale. Nazionalisti e sindacalisti sono i soli che prendano sul serio la vita[XXIX].

La guerra di Libia con la sua ondata di entusiasmo nazionalista avrebbe quindi potuto costituire una valida occasione di risveglio, fra le masse assopite dal conformismo borghese dell’italietta giolittiana, di quei valori barbari e primigeni, anti-democratici e anti-umanitaristi, e perciò eroici e guerrieri, che dovevano accompagnare anche il proletariato organizzato nella sua lotta per l’emancipazione.

Filippo Corridoni e Alceste de Ambris, così come la maggior parte dei sindacalisti impegnati “sul campo”, si opposero invece duramente alla guerra coloniale, non tanto per ragioni morali e pacifiste, come fra i socialisti, ma perché ritenevano che l’Italia fosse un paese ancora troppo arretrato e con una classe imprenditoriale ancora troppo debole per permettersi avventure coloniali.

Corridoni fu sempre in prima fila nell’organizzare scioperi e manifestazioni contro l’intervento militare, e scrisse anche un breve saggio dal titolo emblematico “Le Rovine del Neoimperialismo Italico”, di cui riportiamo un passo emblematico:

La politica coloniale può essere permessa alla Francia, all’Inghilterra e al Belgio. Nazioni sviluppatissime e afflitte da congestione finanziaria. Nazioni dove ogni risorsa naturale viene religiosamente sfruttata e dove le industrie sono arrivate ad un così alto grado di perfezione tecnica da sentirsi il diritto di dettar legge. con la sola concorrenza , sui mercati mondiali; ma l’Italia, l’Italia che ha un’agricoltura arretratissima, che è tributaria in tutto di altre nazioni, che ha delle industrie così rachitiche, così miserocce e viventi una vita anemica da fior di serra e solo in grazia dell’alta protezione doganale, l’Italia non deve, non può darsi delle arie di grandezza, non può fare la colonizzatrice, non può far delle guerre senza cader nel ridicolo prima, senza rovinarsi irrimediabilmente poi[XXX].

Il 1912 fu un altro anno di lotte per Corridoni, attivo anche a Bologna dove fu per alcuni mesi segretario del sindacato dei lavoratori edili. Quando alcune centinaia di facchini del settore dei trasporti entrarono in sciopero, Corridoni spinse i lavoratori edili a solidarizzare con essi, mettendo in pratica i principi sindacalisti dello sciopero politico, extraziendale ed extraeconomico e allargando quindi a dismisura il fronte della protesta. Questi metodi estremi suscitavano spesso un atteggiamento veramente eroico fra le masse, che dimostrarono uno spirito di resistenza e una disponibilità al sacrificio inaspettate, ma alla lunga provocavano immancabilmente l’intervento dello stato borghese e dei “poteri costituiti”, mentre i socialisti riformisti avevano buon gioco nell’apparire anche agli occhi dei lavoratori come una alternativa moderata ma “sicura”. Corridoni ben presto fece visita anche alla carceri bolognesi di San Giovanni in Monte, arrestato in settembre per istigazione a delinquere ed eccitamento all’odio di classe.

Gli scioperi di Milano e Bologna avevano ormai evidenziato come la convivenza all’interno del sindacato unico, la Confederazione Generale del Lavoro – CGdL, dei sindacalisti rivoluzionari con la maggioranza riformista, facente capo al “partitone” socialista, fosse ormai divenuta impossibile. In realtà i sindacalisti erano maggioritari in numerose camere del lavoro delle città del Nord, ma puntualmente ad ogni congresso fallivano l’appuntamento con la “presa del potere” interna, ed ogni volta era un fiorire di accuse e scontri con i riformisti, effettivamente più abili nello sfruttare i “giochi” politici e i meccanismi elettorali del grande sindacato.

Si giunse quindi al famoso congresso di Modena del 23-25 novembre 1912, che riunì 153 delegati sindacalisti in rappresentanza di circa 75mila lavoratori. Qui fu decisa la scissione dalla CGdL della corrente sindacalista e la nascita dell’Unione Sindacale Italiana – USI, con Alceste De Ambris segretario e Parma come sede centrale.

I sindacalisti rivoluzionari avevano finalmente un sindacato tutto loro, e Corridoni fu posto a capo dell’Unione Sindacale Milanese - USM, forte braccio dell’USI nel capoluogo lombardo. Subito si presentarono diversi problemi anche pratici, dall’apertura di una sede idonea[XXXI], ai rapporti da tenersi all’interno delle varie camere del lavoro con i rappresentanti della CGdL, ma per Corridoni si aprì forse la stagione più bella e gloriosa. Nel maggio 1913 scoppiarono imponenti scioperi nel settore metallurgico, ferroviario ed automobilitistico, tutti fomentati e guidati da Corridoni, sempre in prima fila nel guidare cortei di anche 50mila persone per tutta Milano. La città sembrava veramente ai piedi di questo ragazzo appena 25enne, che viveva in maniera poverissima, con cui erano costretti a trattare i più importanti industriali delle grandi aziende e le più alte autorità:

Era spettacolo strano vedere Pippo che in un certo momento comandò la ricca e prosperosa Milano con le ginocchia fuori dei pantaloni… Corridoni fu un raro esempio di assoluto e pieno distacco dalle cose materiali, dalle necessità concrete e comuni della vita[XXXII]

Come già sperimentato in occasione dello sciopero dei gasisti del 1911, Corridoni puntò sulla solidarietà del proletariato milanese e costituì un comitato di agitazione con il compito di coordinare le iniziative di lotta.

I dirigenti dell’USM erano decisi ad allargare ulteriormente il fronte dello sciopero pur di imporre agli industriali un accordo. Il 20 maggio alla presenza di quarantamila lavoratori il leader sindacalista [Corridoni] esaltò la grandiosità del movimento dei metallurgici e deplorò violentemente l’operato repressivo della Questura, che persisteva nei suoi arresti di scioperanti. […] L’agitazione si avviò verso il suo momento cruciale. Lo sciopero generale metallurgico proseguiva senza dare segni di flessione. Corridoni e tutto il comitato di agitazione si adoperarono in modo febbrile ed alacre. Furono questi, certamente, i giorni in cui l’organizzazione sindacalista raggiunse un prestigio assai elevato fra i lavoratori milanesi ed anche non milanesi. Ogni attimo della giornata lo passava in mezzo a loro. Fu d’esempio in tutto. Teneva lunghi e formidabili comizi, riuscendo soprattutto ad essere l’interprete dei sentimenti e delle aspirazioni dei lavoratori. Fu come se comandasse in quei giorni la ricca e prosperosa Milano, potendo veramente decidere il corso degli eventi[XXXIII].

In quei giorni caldissimi ebbe molta importanza l’atteggiamento di Benito Mussolini, direttore dell’Avanti!, che da posizioni social-rivoluzionarie appoggiò in sostanza l’azione di Corridoni e dei sindacalisti, mentre la CGdL rifiutò di aderire allo sciopero generale proclamato dall’USM il lunedì 26 maggio. Ma ancora una volta risultò determinante l’intervento dei poteri costituiti, che non potevano tollerare oltre una situazione che stava ormai degenerando in insurrezione aperta. Il 28 maggio scattò la reazione poliziesca e Corridoni finì per l’ennesima volta in carcere, a San Vittore.

Come abbiamo visto il carcere rappresentò per Corridoni una esperienza abituale: tutte le biografie e le testimonianze concordano nel descrivere un ragazzo che per temperamento non era portato a tirarsi indietro nemmeno quando avrebbe potuto farlo, nemmeno nelle occasioni in cui tenere un atteggiamento più cauto non avrebbe costituito alcuna “onta” di cui vergognarsi. Sempre in prima fila per dare l’esempio, per la sua fama di “ribelle” e “sovversivo” e i suoi atteggiamenti di sfida alle istituzioni, durante gli arresti subì anche pesanti maltrattamenti:

Egli fu il materasso degli agenti di questura. Una volta nelle loro mani gliene davano quante potevano. Si ha un bel nasconderlo sotto il silenzio o sotto le frasi di Salandra che lo ha dichiarato il tribuno del proletariato. Egli è rimasto fino agli ultimi giorni un oratore atteso a botte… E’ entrato a San Fedele come un brigante. Urlato, sbattuto, vituperato. Ansante, con la faccia tutta sottosopra. Con le mani agitate, nervoso fino all’esasperazione. Questa fama di cliente che doveva essere domato a pugni era uscita dalle sentine di Milano [XXXIV].

Gli scioperi proseguirono con alterne vicende fino all’agosto del 1913, con un bilancio sicuramente positivo per l’USM, che aveva saputo dimostrare di saper guidare il proletariato organizzato e di condurlo a una maturazione e ad una consapevolezza mai raggiunte prima, surclassando e superando nell’azione diretta la Camera del Lavoro e la CGdL. Nel dicembre 1913 si tenne infatti a Milano il secondo congresso nazionale dell’USI, che registrava la crescita del movimento in tutta Italia: 191 delegati in rappresentanza di mille leghe e circa 100mila lavoratori, ma soprattutto il sorpasso in termini di aderenti, dopo meno di un anno di vita, dell’USM di Corridoni sulla CGdL di Milano (diciassettemila contro diecimila iscritti!).

Il notevole sviluppo dell’USI a Milano fu dovuto soprattutto ad un diverso e più avanzato tipo di organizzazione sindacale, il modello industrialista proposto e messo in atto proprio da Filippo Corridoni, che, non ci stancheremo mai di ripeterlo, così giovane riuscì a coniugare doti non comuni di coraggio e abnegazione con una capacità di analisi e di organizzazione a dir poco lungimiranti. Mentre fino al allora i lavoratori dei vari stabilimenti industriali erano organizzati, nelle varie leghe, in base al proprio specifico mestiere (ad esempio carpentieri, meccanici, saldatori, tappezzieri…), frazionandosi così in diversi sindacati, “il nuovo sistema corridoniano – argomenta Gian Biagio Furiozzi – prevedeva l’organizzazione degli operai, specie dei grossi stabilimenti, fabbrica per fabbrica; veniva così spezzato il consueto processo aggregativo basato sulle analogie professionali, trasferendolo nel luogo stesso di produzione e conquistando alla classe operaia uno spazio autonomo di manovra per forzare le maglie del fronte padronale”[XXXV].

Il 1914 si apriva dunque sotto i migliori auspici per l’azione sindacalista, e l’ora mitica dello sciopero generale rivoluzionario sembrò arrivare in giugno con i fatti di quella che passerà alla storia come la settimana rossa. La polemica antimilitarista a seguito della guerra di Libia non si era affatto spenta e la mobilitazione continuava a favore di due vittime “politiche”: la recluta bolognese Augusto Masetti, che nel 1911 sparò al suo colonnello, ferendolo, poco prima di partire per l’Africa e per questo venne condannato a una lunga pena detentiva in manicomio; Antonio Moroni, militante sindacalista amico di Corridoni e “obiettore di coscienza” e per questo spedito in una compagnia di disciplina e poi in galera. Sindacalisti, anarchici e repubblicani organizzarono così una serie di manifestazioni per “rovinare” la festa del 7 giugno, che commemorava ogni anno la concessione dello Statuto Albertino da parte della monarchia sabauda ed era una occasione per celebrazioni istituzionali e parate militari. La situazione era particolarmente tesa ad Ancona[XXXVI], e nel corso della manifestazione si verificarono violenti scontri con i carabinieri che provocarono 3 giovani vittime fra i dimostranti. Subito scoppiarono rivolte e tumulti in molte zone d’Italia, in particolare in Romagna e nelle Marche repubblicani, anarchici e sindacalisti arrivarono praticamente a controllare il territorio. L’USI proclamò lo sciopero generale a oltranza cui suo malgrado si adeguò anche la CGdL e martedì 9 giugno Corridoni guidò all’arena di Milano una imponente manifestazione di oltre 50mila lavoratori:

Mai in Italia c’è stato tanto accanimento contro la folla inerme, troppo abituata alla pazienza e alla rassegnazione. E’ ora di finirla. Ma non facciamo della inutile retorica. Dobbiamo cercare di non accontentarci della piccola politica, ma di fare della politica antistatale. Dobbiamo mirare in alto perché non è soltanto contro la bastonata del poliziotto che dobbiamo reagire… ma rivoltarci contro il governo e contro la monarchia. Noi diciamo forte che il proletariato di Milano e d’Italia non riprenderà il lavoro fino a quando Casa Savoia non sarà mandata in Sardegna… Noi siamo milioni ed il governo non può contare che su 130mila soldati[XXXVII].

Sembrava veramente che il momento dallo sciopero generale rivoluzionario fosse arrivato! E invece si assistette di nuovo al solito copione: già il 10 giugno, con una decisione unilaterale e improvvisa, la CGdL si ritirò dallo sciopero generale, mentre la repressione di esercito e polizia si manifestava nelle forme più violente; manco a dirlo, anche Corridoni fu malmenato e poi arrestato.

Il fallimento della settimana rossa lasciò il segno nel movimento sindacalista e in Corridoni: era evidente che, nonostante i tanti progressi fatti in pochi anni, portare alla rivoluzione sociale uno stato moderno organizzato e articolato nelle sue complesse burocrazie, caste, polizie richiedeva uno sforzo quasi impossibile. Da un lato lo sciopero era fallito per l’ennesima volta per il “tradimento” della CGdL, “spaventata” dalla imprevista accelerazione che stavano prendendo gli avvenimenti; ma era altrettanto vero che il fallimento era dovuto anche alla impreparazione e disorganizzazione di molti dirigenti sindacalisti. La stessa concezione sindacalista, che pure non va confusa con quella più propriamente anarco-sindacalista propugnata in quegli anni Armando Borghi[XXXVIII], lasciando forse troppo spazio all’azione diretta e spontanea dei singoli gruppi, aveva qui mostrato tutti i suoi limiti. In pratica, di fronte alla possibilità concreta di una rivoluzione, tutti furono colti di sorpresa e non riuscirono ad attuare una strategia coerente.

Poche settimane dopo, l’attentato di Sarajevo del 28 giugno e lo scoppio della grande guerra cambiò completamente lo scenario politico e sociale.

Corridoni in quell’estate decisiva passata in galera ebbe modo di riflettere su quegli anni di intense lotte e l’esito negativo dell’ultima occasione rivoluzionaria offerta dalla settimana rossa influì forse in modo decisivo nella sua futura scelta interventista. Ormai era chiaro che, per quanto organizzate ed allenate dalla lotta sindacale, per le masse proletarie era impossibile compiere la rivoluzione da sole di fronte allo stato e alla borghesia. Forse soltanto una guerra, una guerra di tipo nuovo come quella di massa che si andava profilando (e ben diversa dal conflitto coloniale in Libia), sarebbe riuscita a scardinare lo stato borghese con le sue sovrastrutture reazionarie (burocrazia, monarchia, clero), che tanto avevano frenato ogni tentativo rivoluzionario.

La posizione dei sindacalisti, per tutto quello che abbiamo fin qui brevemente descritto, non poteva del resto essere quella di un neutralismo attendista. Di fronte alla “bancarotta fraudolenta” dell’internazionale operaia (come è noto tutti i maggiori partiti socialisti, in primis quello tedesco, finirono travolti dall’ondata nazionalista e appoggiarono in vario modo lo sforzo bellico dei rispettivi paesi) e contro l’astratto pacifismo, che portava all’immobilismo, dei socialisti italiani, i sindacalisti compresero subito che questa guerra sarebbe stata diversa da tutte le altre: una guerra di massa e di masse, una guerra potenzialmente rivoluzionaria, capace finalmente di dare al proletariato quella disciplina e quell’autocoscienza, quella dedizione eroica al sacrificio che un decennio di lotte sindacali e di scioperi erano riusciti solo in parte a costruire. Occorreva quindi schierarsi a fianco delle potenze dell’Intesa per la “guerra rivoluzionaria”.

Entravano in gioco, per i sindacalisti, anche altri fattori: l’ostilità di sempre al modello burocratizzato del “partitone” socialista tedesco e al dogmatismo dei marxisti d’oltralpe, rispetto alle radici latine del movimento e alla vicinanza culturale verso la Francia. Permaneva poi il forte retaggio della tradizione mazziniana e garibaldina, contro la potenza reazionaria e clericale per eccellenza, l’Impero Austriaco. L’invasione del Belgio da parte della Germania e le notizie di presunte violenze e stragi diede poi il via a una forte propaganda antitedesca che sosteneva la necessità di lottare contro il pericolo di un’Europa egemonizzata dalle potenze centrali, autoritarie e semi-feudali.

Già nell’estate del 1914 il gruppo dirigente del movimento sindacalista aveva maturato la propria scelta, una scelta come sempre “eretica” e difficile, perché tagliava definitivamente i ponti con la tradizione socialista e imponeva ai sindacalisti una collaborazione forzata con le odiate istituzione borghesi (monarchia, esercito). Filippo Corridoni si trovava ancora in prigione, e inizialmente i sindacalisti si trovarono soli a decidere la propria posizione sulla guerra. Così Alceste De Ambris rievocò la visita in carcere al giovane rivoluzionario e la gioia di scoprire di aver maturato, parallelamente e in totale autonomia, la stessa, drammatica decisione:

Sì, la guerra era un dovere nazionale e rivoluzionario. Sì, dovevamo volerla e farla, non appena l’Italia fosse scesa in campo… Corridoni diceva questo nel parlatorio triste, sotto gli occhi vigili del secondino. Ma nel carcere in cui soffriva ingiustamente aveva già preparato se stesso al sacrificio. La sua giovinezza era l’olocausto che offriva alla patria matrigna, prodiga per lui soltanto di persecuzione di fame[XXXIX].

Iniziava così un nuovo, breve ed entusiasmante (come fu del resto tutta la sua vita) capitolo della vicenda terrena di Corridoni, quello dell’interventista prima e del volontario in guerra poi. Ma le imprese del Corridoni sindacalista ispirarono nei decenni successivi il sindacalismo nazionale e corporativo attuato dal regime fascista, così come non furono dimenticate da Giuseppe di Vittorio, leader nuova CGIL sorta nel secondo dopoguerra antifascista.

L’immenso coraggio, l’umanità e la generosità di questo personaggio dovrebbero costituire un esempio ancora oggi valido per tutti ma, al di là delle qualità personali autenticamente “eroiche” di Corridoni, occorre qui ricordare anche la sua cultura e la sua curiosità intellettuale, le sue capacità oratorie e di scrittore, articolista e polemista sempre pungente; tutte qualità sviluppate praticamente da autodidatta visti i pochi anni scolastici effettivamente frequentati. Corridoni fu come abbiamo visto anche un abile organizzatore all’interno del sindacato, capace di individuare soluzioni nuove e modelli alternativi, come la strutturazione del sindacato su base aziendale al posto della vecchia organizzazione per mestieri.

Stabilire l’attualità o meno degli ideali che animarono un secolo fa Corridoni ed i sindacalisti rivoluzionari è impresa quanto mai difficile e comunque soggettiva. Ad esempio, le battaglie contro le “caste”, le burocrazie inadempienti e parassitarie, l’antistatalismo e l’anti-assistenzialismo così fortemente portate avanti da Corridoni, sono sicuramente tematiche quanto mai presenti nel dibattito politico odierno. Ad ogni modo, la capacità di unire alti ideali, i grandi miti del Popolo e della Patria, a realizzazioni e battaglie concrete, calate nei diversi contesti della realtà economica e sociale, la volontà di pensare soluzioni nuove, “eretiche”, oltre le categorie politiche preconfezionate, costituiscono un indubbio esempio, un modello da raccontare alle giovani generazioni di oggi troppo spesso incapaci di andare oltre un banale ed astratto intellettualismo di facciata, spesso associato ad un vuoto e cinico pragmatismo egoistico.

NOTE [XXVII] Già nel 1909 Mario Viana aveva fondato a Biella il settimanale “Il tricolore” utilizzando forse per la prima volta il termine “sindacalismo nazionale” [XXVIII] Nazionalismo e patriottismo ampiamente sfruttati, ma solo per fini meramente strumentali, nei decenni successivi dai regimi social-comunisti: dalla Jugoslavia di Tito, all’URSS di Stalin fino alla Romania di Ceausescu [XXIX] A. O. Olivetti, Sindacalismo e nazionalismo, in “Pagine Libere”, 15 febbraio 1911 [XXX] F. Corridoni, Le rovine del neoimperialismo italico, ora in Scritti, a cura Andrea Benzi, op. cit., p.46 [XXXI] Inaugurata il 31 marzo 1913 in Piazzale Ludovica n.23 [XXXII] Tullio Masotti, op. cit., p. 39 [XXXIII] L. Salsiccia, op. cit., pp. 70-73 [XXXIV] Paolo Valera, Mussolini, Il Melangolo, Genova, 1995 (ed. or. Milano, 1924), p. 46 [XXXV] G. B. Furiozzi, Il sindacalismo rivoluzionario italiano, op. cit., p. 54 [XXXVI] Massimo Papini, Ancona e il mito della Settimana rossa, Affinità elettive, Ancona 2013 [XXXVII] Corriere della Sera e Il Secolo, 11 giugno 1914, ora in L. Salsiccia, op. cit., p. 107-108 [XXXVIII] Si veda: G. Landi, Tra anarchismo e sindacalismo rivoluzionario: Armando Borghi nell’U.S.I. (1912-1915), Castel Bolognese, Casa Armando Borghi, 1982; [XXXIX] Alceste De Ambris, Filippo Corrdioni, ora in Stefano Fabei, Guerra e Proletariato, SEB, Milano, 1996 p. 89

Gli eroi son tutti giovani e belli – Franca Poli

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CHE GUEVARA

Ernesto Che Guevara , nato il 14 giugno 1928 a Rosario in Argentina, ho davanti a me una sua fotografia e mi sorge spontaneo un apprezzamento: era davvero bello, anche i fotografi che lo ritrassero all'epoca dissero di lui che non avevano mai visto un volto altrettanto fotogenico. Il destino però, non lo volle fotomodello ma guerriero, o forse fu perchè nel suo sangue, irlandese per parte di padre e basco per parte di madre, scorrevano i cromosomi della ribellione, della lotta, della rivolta. Di fatto, a causa di una montatura mediatica, negli anni in cui ero giovinetta, divenne l'icona dei moti studenteschi, della contestazione giovanile, di una generazione che rimase abbacinata dalla sua bellezza, dal suo coraggio, ma che in realtà non lo conosceva per niente. Nulla c'entrava Che Guevara con “fate l'amore e non fate la guerra”, fu eretto artatamente a icona della pace, della libertà, quando lui in realtà era un guerrigliero, un eroe estremo, sempre pronto a combattere e a uccidere, hanno trasformato il suo rigore, la sua intransigenza in fascino da operetta, la sua passione in mito. Qualcuno disse che quella foto rappresentava la determinazione di cambiare il mondo a favore dei più deboli e al tempo stesso l'innocenza di chi crede ciecamente in un ideale e per esso è pronto a morire, per questo motivo la logica irrazionale di una certa ideologia ne fece sia l'eroe simbolo dei guerriglieri urbani pronti a entrare in clandestinità, che l'idolo dei figli dei fiori armati di chitarre. CHE GUEVARA

Tornò utile, all'uopo, la sua tragica ed eroica morte avvenuta in giovane età quando, da invincibile, era divenuto vittima e fu sfruttata questa fotografia che lo rese immortale, scattata per caso il 5 marzo 1960 da Alberto Korda, mentre si stavano svolgendo i funerali delle vittime dell'esplosione di un mercantile che trasportava armi a Cuba, e portata in Italia da Feltrinelli qualche anno più tardi. Un basco con la stellina militare al centro, i capelli lunghi al vento, lo sguardo profondo perso a scrutare l'orizzonte, l'espressione contrita piena di rabbia e di dolore, uno sguardo intenso che resterà vivo per sempre, le labbra ben disegnate, morbide e addolcite dalla cornice dei baffi.

E da allora per oltre quarant'anni Che Guevara è stato oggetto di tutte le svalutazione commerciali possibili, la sua immagine ha subito la peggiore delle mercificazioni: è stata ridotta a logo per una maglietta e non solo, è finita ovunque si potesse stampare: su poster, portachiavi, bandiere, berretti, zaini, bandane, fibbie, orologi, e tatuaggi in un'apoteosi infinita di business, che hanno confinato il Che a una marionetta, un simulacro, da tirar fuori alla bisogna, quando c'era necessità di dar corpo a teorie assolutamente vuote e di animare masse oramai spente, alla faccia della lotta e della rivoluzione.

“Da molto tempo mi sbarri il passo, Ernesto Che Guevara. Ecco il tuo cadavere steso di traverso sul sentiero dove cammino. Posso scavalcarlo. O tirarlo per i piedi. O gettarlo nel burrone. Posso chiudere gli occhi e passare oltre, facendo un tranquillo scarto, come un vecchio cavallo che conosce la strada. Questo scarto l’ho fatto, ed ho camminato dal giorno della tua morte. Era dieci anni fa. Poi ho vissuto e mi sono allontanato da te. Non volevo essere complice dei fabbricanti della tua mitologia. Ti ho abbandonato a loro. Perché avrei dovuto cacciare i mercanti da un tempio che non era il mio ?” (L’incipit di “Una passione per Che Guevara” di Jean Cau, Firenze 2004)

In realtà Che Guevara ha pienamente rappresentato il nazionalismo rivoluzionario, era un coraggioso antimperialista che piaceva anche a Peron e che ben poco aveva a che spartire con i movimenti comunisti che non hanno fatto che alimentarsi di slogan e utopici discorsi. L’obiettivo della guerriglia, quando cominciò la lotta contro la dittatura di Batista a Cuba, non era la rivoluzione socialista, ma l’introduzione di riforme radicali tese all’indipendenza nazionale. E in seguito fu lo stesso Peron, a ospitarlo in Spagna e a metterlo in contatto coi guerriglieri algerini, siamo lontani dai concetti odierni di destra e sinistra. Il 24 settembre 1955 Guevara, in una lettera alla madre, in merito alla deposizione di Peron aveva scritto:

"Ti confesso con tutta sincerità che la caduta di Perón mi ha profondamente amareggiato; non per lui, ma per quello che significa per tutta l'America Latina...(...) l'Argentina era il paladino di tutti noi che pensavamo che il nemico stesse al nord.”

Il Che si batteva per combattere l'oligarchia, le ingiustizie e per liberare il suo continente dall'occupazione americana.

Fra i giovani di destra si coltivava il mito di Che Guevara molto prima dei movimenti studenteschi del '68, lo ricorda lo scrittore e storico fiorentino Franco Cardini, allora iscritto al Movimento Sociale e poi alla Giovane Europa di Jean Thiriart, che disse di essere stato tacciato in famiglia come comunista per questo motivo. Racconta Mario la Ferla in “L'altro Che” che la destra ha amato e onorato questo personaggio prima che la sinistra se ne appropriasse indebitamente. Subito dopo la sua morte, a prendere posizione furono i fascisti reduci della Federazione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale dedicandogli il pezzo “In morte di un rivoluzionario”. A quei tempi “l'idea” non aveva ancora subito le mutazioni delle svariate destre italiane che l' hanno soffocata sicuramente più del comunismo e poteva liberamente esternare l' “amore” puro ispirato da questo paladino morto per la sua fede ideale, così come faceva per Marinetti, Celine e Drieu la Rochelle. E furono Pierfrancesco Pingitore e Dimitri Gribanovski, a comporre la ballata, cantata da Gabriella Ferri “Addio Che”, portandola in scena al Bagaglino, il popolare cabaret romano e a onorarlo, fra i primi, come mito, come l'eroe che “non muore nel suo letto” e “non vede finire la sua rivoluzione.” Per concludere questa carrellata di ricordi, a Valle Giulia, insieme ai giovani di sinistra, erano presenti un gran numero di ragazzi delle organizzazioni di destra che mostravano l’immagine del Che; gli intellettuali aderenti alla Giovane Italia e, qualcuno dei miei amici se lo ricorda, avevano scritto un articolo intitolato “Il fascista Che Guevara”; infine nel 1968, il primo a sceneggiare un film sulla sua epopea fu Adriano Bolzoni, reduce di Salò. Dunque il sostegno della destra per il Comandante fu senz’altro più consapevole di quello sbandierato successivamente dalla sinistra per molti anni.

Dopo la pubblicazione avvenuta nel 2005 di alcuni testi “segreti” di Che Guevara, diritti che comprò Mondadori dagli eredi, si scatenò un'aspra polemica a sinistra sul milione e mezzo di dollari pagati da Mondadori (famiglia Berlusconi) e quindi sul suo diritto di censura sui pensieri inediti del Che. Lo scrittore Robero Sarti scrisse “...concedere i diritti esclusivi a un’impresa capitalista significa lasciare ad essa carta bianca su cosa può o può non essere pubblicato, sulla base di una mera logica commerciale. L’errore sta quindi nella privatizzazione delle opere del Che, e poco importa che a pubblicarle sia Mondadori o Feltrinelli. Tale censura non può non avere a che fare con le crescenti critiche che il Che aveva cominciato a formulare verso le esperienze di “socialismo reale” dei paesi dell’Est europeo con cui era entrato in contatto dopo la vittoria della rivoluzione cubana. Il nostro giudizio scandalizzerà tanti epigoni dello stalinismo presenti anche in Italia, che pensano che la difesa della rivoluzione cubana può passare solo attraverso la raffigurazione di un paese senza difetti, dove un partito d’acciaio, monolitico, guida dal 1959 la popolazione verso le gioie del socialismo. La realtà è un’altra e i comunisti non devono avere paura della realtà, né nasconderla. Sarebbe un pessimo servizio che renderemmo alle classi oppresse. “

Dopo la presa del potere i rivoluzionari cubani, serrati dall'embargo degli Stati Uniti, applicarono il sistema suggerito dai sovietici e, in quei primi anni, Che Guevara era sinceramente convinto che quella fosse la strada da percorrere, ma che il maggiore intoppo fosse proprio questa pesante cooperazione cominciò a rendersene conto gestendo il ministero dell'industria e osservando i problemi del settore , dove venne accusato di introdurre misure capitaliste. Dopo la stabilizzazione del potere a Cuba , Che Guevara aveva viaggiato in tutta Europa, aveva visitato i paesi “non allineati” e aveva preso pienamente visione delle condizioni del popolo dove vigeva il sistema di “socialismo reale”. Criticava il metodo utilizzato dall’Urss che produceva disuguaglianze. Gli inediti rivelarono una posizione durissima di Guevara: “L’internazionalismo è rimpiazzato dallo sciovinismo (da poca potenza o da piccolo paese), o dalla sottomissione all’Urss, mantenendo le discrepanze tra altre democrazie popolari”.

È evidente che negli ultimi anni Che Guevara aveva sviluppato dubbi, perplessità e un certo scetticismo sul ruolo dei paesi ad economia di “socialismo reale” , il 24 febbraio 1965 da Algeri, dove era intervenuto al secondo Seminario economico di solidarietà afroasiatica, pronunciò un vibrante discorso pieno di accuse ad ampio raggio sullo"scambio ineguale" che mandò su tutte le furie la delegazione sovietica :“Come si può parlare di “reciproca utilità” quando si vendono ai prezzi del mercato mondiale le materie prime che costano sudore e sangue e patimenti ai paesi arretrati, e si comprano ai prezzi del mercato mondiale le macchine prodotte dalle grandi fabbriche automatizzate di adesso? Se stabiliamo questo tipo di relazione tra i due gruppi di nazioni, dobbiamo convenire che i paesi socialisti sono, in un certo modo, complici dello sfruttamento imperialista.(...)I paesi socialisti hanno il dovere morale di farla finita con la loro tacita complicità con i paesi occidentali sfruttatori.”

Tornato a Cuba, oramai disilluso, il 14 marzo successivo, dopo un lungo colloquio con Fidel Castro, consegnò a un amico una lettera per i genitori, in cui si diceva pronto ad abbandonare la vita politica e, preso nuovamente dal sacro fuoco della rivoluzione svanì nel nulla, si allontanò “per combattere l'imperialismo, dovunque esso sia”. L'idea era quella di "creare due, tre, molti Vietnam", in clandestinità, passò dal Congo, alla Tanzania per approdare in Bolivia onde soddisfare il suo perenne desiderio di sfida: non era uomo fatto per i trionfi e per il potere, ma per l'azione.

“Cari vecchi, sento di nuovo sotto i talloni le costole di Ronzinante, riprendo la strada,impugnando lo scudo...”

Che Guevara aveva sperato dunque, nei suoi ultimi anni, in una diversa realizzazione del socialismo, la sua fine prematura ha interrotto ogni ricerca e, sulle conseguenze terribili che ebbe la sua missione in Bolivia, di sicuro c'è che aveva rotto con lo stalinismo. Il Che era andato per far nascere un movimento guerrigliero in una zona poco popolata, con l'aiuto soltanto di un gruppo di uomini fidati composto da sedici cubani, trenta boliviani, due argentini e tre peruviani. Non ebbe alcuna base d’appoggio nelle città, dove invece esisteva un forte movimento operaio politicizzato, da cui volle restare indipendente e per questo fu abbandonato, boicottato dalla direzione del Partito comunista che, dopo il suo ultimo viaggio a Mosca, lo bollava come “trotskista”. Questo l'imperdonabile “errore” che gli costò la vita. Infatti dopo dieci mesi,l'appoggio della popolazione locale era praticamente inesistente e fu tradito da una campesina, proprio una di quegli umili per cui si batteva. Una vecchia contadina che aveva scoperto i guerriglieri, "ci sono poche speranze che mantenga il silenzio", si legge nel "Diario". Il giorno dopo, presso la Quebrada del Yuro, i diciassette uomini superstiti dell'iniziale gruppo di guerriglieri che aveva iniziato l'avventura boliviana con il Che vennero sorpresi da cinque battaglioni di ranger. Caduti in un'imboscata, dopo tre ore di combattimento, alcuni morirono e gli altri vennero fatti prigionieri, anche Che Guevara fu ferito alla gamba destra e, con la carabina fuori uso, fu catturato. La mattina successiva venne ucciso, crivellato di colpi, aveva una vita intensa e lunghissima di eventi alle spalle, ma solo trentanove anni.

CHEGUEVARA MORTO

“Una rivoluzione si vince o si muore” a Cuba era andata in un modo, in Bolivia nell'altro. Era il 9 ottobre 1967, ed ecco un'altra fotografia diventare famosa e fare il giro del mondo, quella che riprende il suo corpo ormai esanime adagiato su una barella nella lavanderia dell'ospedale di Vallegrande. Ritratto in una luce plumbea, così inerme, abbandonato,vinto, a molti ricordò il Cristo Morto del quadro di Mantegna.

Un eroe o un martire, era un santo o le sue mani grondavano sangue? Poco importa, il Che era sicuramente onesto, simpatico, colto, amava la fotografia e sapeva ballare il tango, pochi soldi, quattro stracci e molti libri il suo bagaglio. Esaltato e ingovernabile, quando gli fu diagnosticato un enfisema polmonare, promise di fumare un solo sigaro al giorno e la mattina successiva, raccontavano i suoi uomini, si presentò con un sigaro lungo cinquanta centimetri che gli pendeva dalle labbra. Un po' folle, ma generoso, audace, fino alla fine dei suoi giorni si è donato agli altri con disprezzo della vita. “Un uomo che ha agito secondo il suo pensiero e che è stato fedele alle sue convinzioni...” aveva scritto di sé in una lettera ai suoi cinque figli. Era stato un padre e un marito latitante, ma la sua scelta era quella di vivere in assoluta austerità, rubando ore al sonno e alla sua vita privata per essere sempre al servizio del popolo. Anche da ministro faceva la fila alla mensa come tutti gli altri, e combatteva con forza le storture del socialismo reale, prima fra tutte la burocratizzazione.

Che Guevara, un Don Chisciotte all'assalto dei mulini a vento, immagine che gli calza a pennello e da lui stesso evocata nella lettera ai genitori, era un romantico “condottiero del XX secolo”, pieno di contraddizioni e tormentato dall'asma, ma che correva incontro al nemico senza fiato e senza paura. Fu sicuramente un rivoluzionario autentico e non si può che rendergli onore da ogni parte per le sue scelte: abbandonò cariche di Stato, retribuzioni importanti e privilegi, per continuare la sua strada di ribelle, ritirandosi fra monti e boschi, accettando sacrifici e stenti per portare fino in fondo la sua lotta contro l'oro.

“Se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui”. (E.Pound)

Fu guidato solo da sentimenti leali, da ideali autentici, lottò fino alla fine per contrastare l'imperialismo che, di qualunque origine esso sia, soffoca le identità nazionali.

“Ogni nostra azione è un grido di guerra contro l'imperialismo, è un appello vibrante all'unità dei popoli contro il grande nemico del genere umano, gli Stati Uniti d'America...”(Che Guevara)

L’Olocausto di Dresda e lo squilibrio della colpa – Riccardo Percivaldi

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«I democratici, che affermano di aver liberato il popolo tedesco da Hitler, non hanno portato nientaltro che terrore e distruzione. A Dresda, uccisero diverse centinaia di migliaia di persone in una sola notte dinferno e distrussero innumerevoli tesori darte. Le donne che stavano partorendo i propri figli, nelle sale parto degli ospedali in fiamme, si buttarono fuori dalle finestre, ma nel giro di pochi minuti, queste madri con i loro bambini, ancora appesi al cordone ombelicale, furono anchessi ridotti in cenere. Migliaia di persone che le bombe incendiarie avevano trasformato in torce umane si buttarono negli stagni, ma il fosforo continuava a bruciare anche nellacqua. Anche gli animali dello Zoo, gli elefanti, i leoni e gli altri, cercavano disperatamente lacqua, come gli umani. Ma tutti loro, il neonato, la madre, il vecchio, il soldato ferito e lanimale innocente dello Zoo e della stalla, morirono in modo orribile in nome della liberazione».

Thomas Brookes

 

«Volando abbastanza alto da evitare lartiglieria antiaerea, il pilota del bombardiere notturno che liberava il suo carico non ascoltò mai le grida della madre, né vide mai la carne bruciata del bambino. Questo fu il vero Olocausto, una parola che significa morte prodotta dal fuoco».

Nicholas Kollerstrom

 

In ogni tempo la storia di determinati conflitti, scritta da parte di coloro che hanno imposto con la spada il proprio dominio sui vinti, ne riporta esclusivamente una versione unilaterale e distorta, spesso in contraddizione con la realtà dei fatti, che risponde solo alla necessità di consegnare ai posteri un’immagine positiva del Potere che grazie a quella vittoria ha conseguito il suo trionfo, cancellando, per ragioni di opportunità e propaganda, tutto ciò che non si accorda con i suoi progetti di controllo e di dominio dei popoli soggiogati, i quali spesso, oltre alla sconfitta subita, perdono anche la memoria del proprio passato, quando questa non venga addirittura sostituita con una narrazione completamente falsificata dalla propaganda dei vincitori, una volta divenuta cultura ufficiale, al preciso scopo di avvilire, colpevolizzare e spegnere ogni desiderio di rivincita di coloro che da uomini liberi sono passati alla condizione di sudditi, educati per generazioni a considerare liberatori i propri carnefici ed eterni nemici.

Accade così che uno dei peggiori crimini di guerra della storia, quale fu in effetti il bombardamento di Dresda, venga dipinto dalla cultura ufficiale e accademica come “un inevitabile prezzo da pagare per la liberazione dell’Europa e del mondo dalla barbarie nazista". I tedeschi, si dice, diedero inizio alla guerra aerea, precipitarono il mondo nell’abisso del secondo conflitto mondiale e perpetrarono crimini infinitamente maggiori. In fondo “se lo sono meritati”. A Dresda, è vero, morirono tante persone ma lo si fece – concludono i custodi dell’ortodossia democratica – “per il bene dell’umanità”.

I fatti raccontano tutt’altra storia. I bombardamenti terroristici contro la popolazione civile cominciarono in realtà su iniziativa di Winston Churchill per provocare i tedeschi e indurli così a colpire per ritorsione le città inglesi. Per il cinico Primo Ministro britannico questo era l’unico sistema per infiammare il suo popolo di un feroce sentimento germanofobo e convincere la recalcitrante opinione pubblica del suo Paese, maggiormente propensa ad una politica di conciliazione con la Germania, a combattere una guerra che nessuno voleva.

L’idea di fondo era che bisognava provocare Hitler fino al punto che questi, per fermare il massacro dei suoi connazionali, fosse obbligato a trasformarsi in aggressore e a quel punto la propaganda di guerra britannica, capovolgendo i fatti, avrebbe fatto sembrare gli attacchi tedeschi come dei bombardamenti indiscriminati mentre quelli inglesi come delle giuste ritorsioni, innescando una spirale di violenza che avrebbe dato il pretesto a Churchill di mettere a ferro e fuoco l’Europa.

Un documento ufficiale della RAF suggeriva: «Se la Royal Air Force assalisse la Ruhr, distruggendo gli impianti petroliferi con le sue bombe più precise e le proprietà cittadine con quelle cadute fuori bersaglio, la richiesta di rappresaglie contro lInghilterra potrebbe rivelarsi troppo forte per la resistenza dei generali tedeschi. In realtà, lo stesso Hitler probabilmente guiderebbe la rivolta».

J.M. Spaight, primo Assistente Segretario al Ministero dell’Aeronautica durante la guerra, ammise nel suo libro del 1944 Bombing Vindicated che: «Poiché eravamo dubbiosi sull’effetto psicologico della distorsione della verità, che eravamo noi ad aver iniziato l’offensiva dei bombardamenti strategici, rifuggimmo dal dare alla nostra grande decisione dell’11 Maggio 1940 la pubblicità che meritava. Questo fu sicuramente un errore. Perché era stata una splendida decisione». [1]

Sin dall’inizio della guerra la Luftwaffe, al contrario, si era astenuta da qualunque attacco sull’Inghilterra. Nonostante ciò il 10 maggio 1940, appena divenuto Primo Ministro, Churchill ordinò di dare inizio ai bombardamenti aerei, chiarendo l’8 luglio: «Una cosa ci permetterà di ricacciare e piegare il nemico: una guerra aerea illimitata che distruggerà tutto».

La distruzione della Germania e dell’Europa era un chiodo fisso nella mente del Primo Ministro, che già nel 1936 aveva dichiarato arrogantemente al generale americano Wood: «La Germania sta diventando troppo forte, deve essere distrutta!»

Lo storico F. Veale afferma che il raid dell’11 maggio: «Sebbene in sé stesso poco importante, fu un evento epocale, poiché fu la prima rottura deliberata della legge fondamentale della guerra civilizzata secondo cui le ostilità devono essere condotte solo contro le forze armate del nemico», dato che «lesclusione dei non combattenti dalla sfera delle ostilità è la distinzione fondamentale tra la guerra civilizzata e quella barbarica».

Ma Churchill, che non si faceva condizionare da simili scrupoli, il 16 luglio incitò apertamente al massacro sbraitando: «e ora mettete a fuoco lEuropa!». La ritorsione tedesca tuttavia non arrivava. Anzi Hitler, dopo aver rifiutato sdegnosamente il consiglio di Raeder, Jodl e Jeschonnek di ordinare il bombardamento a tappeto di Londra, continuava a offrire all’Inghilterra la pace.[2]

Il 20 luglio 1940 l’ambasciatore inglese a Washington chiese all’ambasciatore tedesco, di sua iniziativa ed in modo informale, quali fossero le condizioni della Germania. L’offerta era la seguente: «La Germania ritirerà le sue truppe dalla Francia, dallOlanda, dal Belgio, dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia. Chiedo all’Inghilterra solo di avere carta bianca sui paesi dell’Est e, naturalmente, l’annessione delle antiche regioni tedesche». Condizioni molto modeste, che qualsiasi statista in buona fede avrebbe accettato. [3]

Ma Churchill, che agiva per conto dell’alta finanza ebraica i cui interessi capitalistici poco si accordavano con le politiche autarchiche e socialiste della nuova Germania – tese ad anteporre l’interesse del popolo su quello degli usurai – dopo esserne venuto a conoscenza, ordinò immediatamente una serie di attacchi terroristici contro Berlino. Questo era l’unico modo per scongiurare il pericolo di una pace duratura sul continente, che avrebbe segnato il definitivo affrancamento dell’intera Europa dalla criminalità organizzata di Londra e Wall Street. [4]

Infatti Churchill, nel suo discorso alla Guildhall nel luglio 1943, confesserà: «Siamo entrati in guerra di nostra spontanea volontà, senza che venissimo direttamente attaccati», vantandosi in una lettera a Stalin il 1 gennaio 1944: «Non abbiamo mai pensato alla pace, nemmeno in quellanno quando eravamo completamente isolati ed avremmo potuto fare la pace senza troppe conseguenze per l’Impero Britannico».

E tuttavia solo dopo 15 giorni di bombardamenti terroristici Hitler decise di ordinare la ritorsione sulla città di Coventry. Tale raid fu comunque condotto secondo le leggi di guerra e contro legittimi obiettivi tattici. Nel complesso, durante tutta la campagna di bombardamenti aerei, il rapporto tra vittime inglesi e tedesche fu di 1 a 10. [5]

Il dottor Wesserle, che aveva assistito al bombardamento tedesco su Praga, riconobbe che «non ci può essere paragone tra la brutalità delloffensiva aerea anglo-americana e la pochezza degli sforzi tedeschi e italiani». Analoga disparità emerge dalle istruzioni che le rispettive aeronautiche rilasciavano ai loro piloti. Le cavalleresche prescrizioni della Luftwaffe precisavano che «in linea di principio non è ammesso l’attacco alle città a scopo di terrorismo contro la popolazione. Qualora però si verifichino attacchi terroristici nemici contro città aperte, prive di protezione e difesa, attacchi di rappresaglia possono costituire l’unico mezzo per distogliere il nemico da questa tattica brutale di guerra aerea. La scelta del momento verrà determinata innanzi tutto dallo svolgersi dell’attacco terroristico nemico. In ogni caso l’attacco dovrà mostrare chiaramente il proprio carattere di rappresaglia».

I principi della RAF, al contrario, addestravano i piloti a compiere dei massacri indiscriminati e dopo un susseguirsi di direttive che indicavano con sempre maggior chiarezza che l’obiettivo da colpire era la popolazione civile, finalmente il 14 febbraio 1942, infrangendo ogni norma di diritto bellico, il Gabinetto di Guerra di Churchill istigò i capi militari: «Bersaglio degli attacchi del Bomber Command contro la Germania non dovranno essere le industrie o altri obiettivi militari, bensì il morale della popolazione civile, soprattutto dei lavoratori dellindustria».

Lo stesso giorno il Maresciallo dell’Aria Charles Portal, capo di Stato Maggiore della RAF, incitò più esplicitamente al genocidio, ordinando: «In riferimento alle nuove regole sui bombardamenti: io credo sia chiaro che i punti di mira devono essere le aree edificate e non, ad esempio, i dock o le fabbriche aeronautiche, nel caso siano menzionati. Questo deve essere evidente, se non è stato ancora compreso».

A conferma della criminale strategia britannica il Capo del Bomber Command, Maresciallo dell’Aria Arthur Harris (soprannominato dai suoi stessi equipaggio the Butcher, il Macellaio), famoso per vantarsi con la bava alla bocca «uccido migliaia di persone ogni notte», confessò nelle sue memorie pubblicate nel 1948 che: «Il nostro vero obiettivo fu sempre il cuore delle città».

Da questo momento inizia dunque la metodica distruzione di millenni di storia e di civiltà europea. Gli angloamericani cominciarono a radere al suolo città come Lubecca, Colonia, Dresda, in totale violazione della Convenzione dell’Aja concernente le leggi e gli usi della guerra per terra.

L’Olocausto di Dresda fu il crimine più mostruoso della Seconda guerra mondiale. Esso superò per barbarie e ferocia perfino il bombardamento atomico del Giappone [6]. Ancora oggi molti si interrogano sulle sue reali finalità. Dal momento che la città non ospitava né industrie pesanti né obiettivi strategici, esso sfugge ad ogni logica militare. Al contrario, la città in quel periodo era divenuta meta di migliaia di rifugiati in fuga dalla barbarie bolscevica. I vertici militari alleati erano perfettamente consapevoli di ciò e tuttavia ordinarono la distruzione di Dresda. Perché?

L’esercito americano si difese con il pretesto che la città era un importante nodo di comunicazione e che i bombardamenti a tappeto dovevano servire a distruggere l’infrastruttura che sosteneva lo sforzo bellico del nemico. Ma poiché le bombe ad alto esplosivo e gli ordini incendiari sganciati dalla RAF presero di mira solo le aree residenziali, questa giustificazione è assurda. Basti pensare che la ferrovia, appena scalfita, ritornerà a funzionare entro pochi giorni.

Ugualmente falsa è l’ipotesi che l’attacco servisse a minare il morale della popolazione per costringerla alla resa. Questa giustificazione poteva essere vera all’inizio della guerra aerea, ma già nel 1943 i vertici militari erano perfettamente consapevoli della loro inutilità, grazie ai rapporti costantemente negativi dell’US Strategic Bombing Survey. Come ci illustra Giuseppe Federico Gergo:

 

«Le persone morte per le incursioni della RAF furono vittime di una strategia che, oltre a non avere reali finalità militari, assai presto si sospettò non fosse neppure in grado di deprimere il morale della popolazione nemica, come è dimostrato dal atto che già alla fine del 1940 lo stato maggiore britannico dubitava che questo obiettivo si sarebbe mai raggiunto. Nonostante ciò i bombardamenti non furono interrotti dopo che si era dichiarato che non erano più indispensabili, ma anzi furono continuati e intensificati quando i pretesti per la loro continuazione da tempo erano venuti meno, in questo modo trasformando l’uccisione di massa di civili in una comune arma routinaria, che per di più si dimostrava assai lontana dall’essere di reale utilità per vincere il conflitto».

 

Il vero motivo della distruzione di Dresda è molto più inquietante di quello che si potrebbe immaginare. Qui siamo di fronte a un premeditato e sistematico sterminio di civili, che nella mente diabolica dei suoi pianificatori aveva come unico scopo quello di produrre il maggior numero di vittime, soprattutto donne e bambini

Nel 1990 David Irving portò alla luce una scioccante dichiarazione di Winston Churchill, in cui il “paladino della democrazia” ordinava a sangue freddo: «Non voglio nessun suggerimento su come distruggere obbiettivi militarmente importanti vicino a Dresda. Voglio suggerimenti su come possiamo arrostire i 600.000 profughi che si sono rifugiati da Breslau a Dresda[7]

  [caption id="attachment_11535" align="alignright" width="200"]Il criminale di guerra Winston Churchill Il criminale di guerra Winston Churchill[/caption]

Lo scopo principale del bombardamento era dunque uccidere i civili (non danneggiare l’industria, non piegare il morale della popolazione per indurla alla resa). Basti pensare dopo la tempesta di fuoco, quando ormai della città non rimaneva più nulla partì un terzo attacco di squadriglie aeree che scendevano a bassa quota per mitragliare gli ultimi superstiti che cercavano disperatamente di mettersi in salvo [7b].

Questo fatto è di estrema importanza poiché ci fa capire il vero movente criminale che dettò la partecipazione alla seconda guerra mondiale da parte dell’Inghilterra e degli Stati Uniti, falsamente dipinti dalla propaganda come “liberatori”. Churchill era spaventato poiché la fine della guerra sembrava imminente e se i tedeschi si fossero arresi troppo presto le vittime sarebbero state inferiori al desiderato. Secondo lui bisognava far durare la guerra più a lungo possibile per sterminare il maggior numero di civili.

Poco prima alla Conferenza di Yalta, parlando della pulizia etnica che avrebbe accompagnato le espulsioni dei tedeschi dai territori dell’Est confessò a Stalin «che cerano molte persone in Gran Bretagna che erano imbarazzate al pensiero della deportazione ma affermò che, lui personalmente, non aveva alcun scrupolo. Sei o sette milioni di Tedeschi erano già stati ammazzati e un altro milione o milione e mezzo sarebbe stato probabilmente sterminato prima della fine della guerra. Queste idee per il futuro non erano affatto discorsi a vanvera di propaganda, ma erano le opinioni vere e proprie del Primo Ministro Britannico. Alla 4^ sessione della Conferenza di Yalta, il 7 Febbraio 1945, Churchill rafforzò il suo concento anti-umanitario dichiarando “che non rientrava nei propositi di cessare l’eliminazione dei Tedeschi”. Una settimana più tardi avvenne il genocidio di Dresda da parte dei bombardieri inglesi e americani».[8]

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Possiamo dunque gettare nella pattumiera tutte le tesi-pretesto sulla “necessità morale” di impedire l’olocausto e annientare la “volontà nazista” di conquista del mondo, con cui si è cercato fino ad oggi di giustificare i crimini dei vincitori. La verità, invece, è che gli angloamericani non combattevano contro Hitler o contro il “nazismo”, e neppure soltanto contro i tedeschi e i loro alleati. Essi combattevano una guerra di sterminio contro l’Europa intera per distruggere la sua civiltà e i popoli che l’avevano creata.

Come ha giustamente riassunto John Kleeves: «Lideale per gli Stati Uniti [e gli inglesi ndr] sarebbe stato che tutti i paesi europei fossero giunti alla conclusione delle ostilità completamente distrutti, sia quelli alleati che avversari, sia vinti che vincitori, e possibilmente anche quelli neutrali».

Se il tempo glielo avesse permesso con tutta probabilità gli angloamericani avrebbero incenerito tutta l’Europa con decine o centina di bombardamenti atomici, chimici e batteriologici fino a trasformarla in una landa desolata e senza più nessuna forma di vita. I vertici alleati avevano già pianificato:

 

«Il lancio di bombe a gas su trenta targets cities, prima fra tutte Monaco, Augusta, Norimberga, Stoccarda, Karlsruhe, Berlino, Colonia, Dusseldorf, Lipsia e Dresda, considerato praticabile da Churchill in un discorso ai capi di Stato Maggiore il 6 luglio 1944 e in un memorandum agli stessi il 26 luglio; all’epoca, l’Inghilterra dispone di 26.000 tonnellate di bombe con gas mostarda e 6000 con fosgene, mentre viene previsto anche l’impiego dell’aggressivo gas chimico “Lhost” contro sessanta città. L’operazione di guerra chimica, della durata di quindici giorni, avrebbe comportato 5.600.000 tedeschi “direttamente colpiti” e in massima parte soccombenti, e 12 milioni di intossicati, essendo sprovvisto di maschere antigas il 65% della popolazione […]

«Invero, già nell’estate del 1940 l’uso dei gas contro le truppe nemiche era stato previsto da Churchill nell’evenienza di uno sbarco tedesco in Inghilterra. Ed egualmente, cessato ogni possibile ritorsione da parte nipponica, l’uso dei gas era stato previsto dagli americani nel Pacifico […] Quanto ad un altro aspetto della guerra, quella batteriologica, nel febbraio 1944 erano stati ordinati negli USA 250.000 ordigni da quattro libbre, le bombe “N” o “Braddock”, contenenti bacilli del carbonchio, con la previsione di usarli in un solo gigantesco attacco di 2700 velivoli col risultato di almeno tre milioni di morti e città ridotte a territori inabitabili anche per decenni». [9]

 

Questo sarebbe stato dunque il futuro che i “liberatori” avevano in serbo per l’Europa, non solo per la Germania e non solo per i “nazisti”, ed è stato solo il caso ad avergli impedito di portare a termine i loro diabolici piani.

 

***

 

Lo sterminio del nemico e di un’intera civiltà, per noi altrimenti inconcepibile, è il risultato della particolare forma mentis degli angloamericani, plasmata su una visione del mondo di stampo veterotestamentario, che attraverso il Puritanesimo e il Calvinismo (di chiara derivazione ebraica) ha costituito per secoli la base della loro identità nazionale e della loro coscienza politica.

Le atrocità degli inglesi contro i boeri, gli irlandesi e gli indiani e quelle degli americani contro i pellerossa e tutti i popoli “democratizzati” dal ‘45 ad oggi dimostrano che i crimini di guerra per i popoli anglosassoni non sono un’eccezione ma la norma. Nel corso della loro storia essi hanno dimostrato di essere posseduti da una mentalità sadica e vendicativa che gode dello spargimento di sangue fine a se stesso.

Questa particolare attitudine alla crudeltà discende direttamente dalla tradizione religiosa puritano-calvinista che fa credere agli angloamericani, così come agli ebrei, di essere il popolo eletto da Dio. Un dio geloso che esprime la sua predilezione per un popolo arricchendolo e permettendogli di sfruttare il resto dell’umanità. La nazione che rifiuta di farsi fruttare da loro deve per forza subire la vendetta di Dio, e il modo migliore di vendicarsi è appunto sterminando quel popolo.

A noi tutto ciò può sembrare assurdo e inverosimile, ma non si spiegano in altra maniera ad esempio le parole di un deputato ai Comuni nel maggio 1942, che dopo aver chiesto di fare di tutto per bombardare i quartieri operai in Germania, sbraitò con la schiuma alla bocca: «Io sono un uomo di Cromwell, credo al massacro nel nome di Dio!» [11]

L’esigenza dello sterminio del nemico discende direttamente da questa commistione tra fanatismo religioso e avidità di ricchezza che fa si che gli angloamericani concepiscano la guerra non tra eserciti in armi, dotati di uguali diritti e doveri, ma contro le popolazioni civili, come conflitto mortale fra popoli buoni ed “eletti” e popoli malvagi e “dannati”. Anche oggi i politici alla Casa Bianca agiscono guidati dal medesimo fanatismo.

In questo senso gli angloamericani sono stati gli inventori della guerra totale. Già nella guerra anglo-boera gli inglesi furono accusati di condurre una guerra di sterminio contro la popolazione civile, soprattutto donne e bambini [12]. Ugualmente nella prima guerra mondiale, a causa del blocco alimentare, gli inglesi provocarono più di un milione di vittime tra i civili tedeschi, con una moralità infantile elevatissima [13]. Gli americani, a loro, volta, si sono sempre distinti per una morbosa predilezione nell’uso del fuoco per bruciare vive le loro vittime. Dall’incendio dei villaggi dei pellerossa ai bombardamenti al Napalm contro i vietnamiti e al fosforo bianco contro gli iracheni non esiste soluzione di continuità. John Kleeves, in una sua celebre opera, dimostra che per gli americani gli obiettivi dei bombardamenti strategici non sono militari ma psicologici e pseudo-religiosi. In particolare in essi si esprime il desiderio di vendetta e l’esigenza inconscia di compiere sacrifici umani:

 

«Questa esigenza fu soddisfatta dai bombardamenti incendiari delle grandi città tedesche, Dresda, Amburgo, Colonia, Berlino e così via, luoghi che furono trasformati in enormi bracieri di fuoco i cui abitanti venivano immolati al Dio del Vecchio Testamento. E’ chiaro che in un angolo della mente dei pianificatori dei bombardamenti era al lavoro il Vecchio Testamento. Ad uno dei più distruttivi – quello eseguito su Amburgo dal 24 luglio al 2 agosto del 1943, che fece come minimo centomila vittime, per la maggioranza arse vive -fu dato il nome in codice di “Operation Gomorrah”. Gomorra è una delle due città – l’altra è Sodoma – che nel Vecchio Testamento Dio distrusse con una pioggia di fuoco […]

 

E’ interessante la scelta della fotografia: sullo sfondo di un cumulo di nere macerie ci sono in primo piano i cadaveri carbonizzati di quelli che erano stati due giovanissimi uomini, forse due adolescenti; essi giacciono uno accanto all’altro, sulla schiena, entrambi con le ginocchia piegate e gli avambracci in posizione verticale come protesi al cielo in un gesto di supplica,o di autodedizione. Sono due vittime sacrificali. Ecco perché l’autore scelse tale fotografia fra le tante a disposizione: gli ricordava un sacrificio umano, gli suggeriva il vero, intimo significato del fatto. Tale pensiero dei sacrifici umani si agitava certamente anche nell’inconscio di Sir Arthur Harris, l’uomo che progettò il bombardamento con quei mezzi (bombe incendiarie)e gli diede il nome di “Operation Gomorrah”». [14]

Dresda9  

***

 

La decisione di ricorrere ai bombardamenti strategici era stata presa dai vertici militari angloamericani molto prima della guerra. Essi infatti avevano già da tempo avviato la produzione di bombardieri pesanti come il B17, il B15 e l’Avro Lancaster. Al contrario, gli aerei della Luftwaffe, come lo Stuka, erano leggeri, maneggevoli, e costruiti per effettuare bombardamenti a bassa quota e di alta precisione, progettati per il supporto alle truppe di terra e non per la strategia genocida.

Di fatto gli inglesi avevano deciso per i bombardamenti strategici già nel 1918, quando pianificarono di radere al suolo Berlino con una flotta di bombardieri Handlev-Page. Ma la mente criminale del genocidio, colui che pianificò in maniera fredda e scientifica lo sterminio dei civili, fu l’ebreo Frederick Lindemann, definito da sir Charles Snow in Science and Gouvernement edito nel 1961, un essere «pervaso da un impulso sadico profondamente radicato [] che lo condusse a far annientare i quartieri civili delle città tedesche, portando a morte migliaia di donne e bambini». Lo scrittore Alex Natan noterà: «Col tempo la totale distruzione della Germania divenne per lui una vera ossessione».

Proprio per queste sue caratteristiche psicopatologiche esso, oltre che intimo consigliere, era anche grande amico di Churchill che, in “The Second World War”, così lo ricorda: «Lindemann era già un mio vecchio amico [] divenne il mio principale consigliere per quanto riguardava gli aspetti scientifici della guerra moderna».

Questi loschi individui, assieme ai loro colleghi americani, Morgenthau e Roosevelt (quest’ultimo il 19 agosto 1944, sulla base del disgustoso opuscolo German Must Perish [15] scritto dall’ebreo Theodore N. Kaufmann, aveva dichiarato: «Dobbiamo o castrare il popolo tedesco o trattarlo in maniera tale che non possa più generare uomini che vogliano seguitare nel vecchio spirito»), misero a punto la soluzione finale del problema tedesco, che oltre a sterminare milioni di persone doveva servire anche a spazzare via l’identità dei popoli europei. Lo scopo era di distruggere tutti i tesori che testimoniavano la grandezza dell’antica civiltà dell’Europa, poiché i valori tradizionali europei venivano considerati dagli angloamericani come inconciliabili con quelli della società dei consumi e dell’american way of life. Occorreva perciò fare tabula rasa e ricostruire dalle fondamenta un nuovo mondo e una nuova umanità rieducata, più incline a farsi dominare e sfruttare dalle oligarchie capitalistiche di Londra e Wall Street.

A questo proposito, dopo aver sterminato una parte considerevole della popolazione europea e aver distrutto le più belle città dell’Europa, occorreva occupare interamente il continente e procedere ad un opera di lavaggio del cervello su vasta scala con cui inculcare i valori dell’americanismo: avidità di denaro, egoismo, individualismo sfrenato, materialismo, edonismo, droga, pornografia, degrado morale, cultura pop, esaltazione del negro e imbastardimento razziale. La volontà alleata di distruggere in maniera metodica i tesori e le testimonianze della civiltà europea viene ben sottolineata dalla trasmissione radiofonica tedesca Sprechabenddienst n.22, settembre 1944 dal titolo “L’americanizzazione sarebbe la fine dell’Europa”:

 

«Non a caso i bombardieri americani cercano di distruggere con particolare sadismo i grandi monumenti culturali dell’Europa. Queste opere non si possono comprare, ma nascono solo in comunità sane. E quindi, poiché non potrebbero mai nascere negli USA, anche gli altri paesi dovrebbero perdere e non più riaverle. A questo provvederebbe, brutale, un’America vittoriosa. Poiché il nemico ce le invidia, perderemmo inevitabilmente tutte le piccole e le grandi opere di civiltà che abbiamo ereditato e sviluppato dalle generazioni passate. Per questo gli ebrei ritorneranno in tutti i settori e la danza mortale che nel 1933 abbiamo bandito dalla Germania riprenderebbe con maggior vigore: dileggio di tutto quanto ci è sacro: la madre, l’eroe, Dio, esaltazione del negro, decadenza della donna a girl, sporcizia e porcheria per bambini e per adulti, degenerazione in tutti i settori di cultura e di vita».

 

Ma una nazione che fa ricorso al bombardamento terroristico si scredita moralmente di fronte al mondo. Da qui deriva perciò la necessità di giustificare i propri crimini accusando l’avversario di crimini peggiori e di convincere l’opinione pubblica che il fine giustifica i mezzi. A questo scopo doveva servire la farsa di Norimberga, il cui statuto venne scritto dagli Alleati nell’intervallo tra un’incursione terroristica e l’altra, mentre essi riducevano in cenere migliaia di donne e bambini innocenti. Assolutamente ineccepibile l’analisi di Maurice Bardèche:

 

«Per scusare i crimini commessi nella [loro] condotta di guerra, [per gli Alleati] era assolutamente necessario scoprirne di ancora più gravi dall’altra parte. Bisognava assolutamente che i bombardieri inglesi e americani apparissero come la spada del Signore. Gli Alleati non avevano scelta. Se non avessero affermato solennemente, se non avessero dimostrato – non importa in che modo – che essi erano stati i salvatori dell’umanità, sarebbero stati solo degli assassini».

 

Bisognava perciò criminalizzare il Terzo Reich e trasformare la propaganda di guerra in verità storica, poiché come sosteneva nel 1948 Walter Lippmann, uno dei personaggi più influenti dell’entourage rooseveltiano: «Solo quando la propaganda di guerra dei vincitori avrà trovato accoglienza nei libri di storia dei vinti e sarà creduta dalle generazioni successive, si potrà considerare pienamente compiuta la rieducazione».

In questo modo, grazie alla sentenza di Norimberga e alla propaganda sull’olocausto, oggi la maggioranza delle persone è portata con l’inganno a giustificare moralmente i crimini di guerra alleati, poiché hanno sviluppato la convinzione inconscia secondo cui era moralmente giusto massacrare milioni di civili tedeschi e i loro alleati, come punizione per i crimini “nazisti”.

In altri termini ci hanno fatto vedere la storia con gli occhi dei nostri nemici. È proprio questa idea di giustizia, intesa come vendetta dei buoni contro i cattivi, in grado di presentare come legittima ogni atrocità, se perpetrata da coloro che si sono autoproclamati “eletti da Dio”, che determina quello squilibrio della colpa in forza del quale è possibile che oggi ai popoli europei sia imposto di commemorare le vittime di un popolo straniero - quello ebraico - mentre il ricordo dei loro stessi connazionali sterminati dagli invasori è stato fatto cadere intenzionalmente nell’oblio, quando non addirittura disprezzato.

È un’idea, questa, che fa implicitamente proprio l’assunto talmudico che la vita di alcuni popoli, gli ebrei e gli angloamericani, valga più di quella del resto dell’umanità e che pertanto considera crimini autentici e meritevoli di essere condannati solo alcuni e non altri. È da questo squilibrio che trae legittimazione ogni intervento delle Potenze che oggi costituiscono il braccio armato del mondialismo, nonché l’odierna sudditanza del continente europeo all’egemonia americana.

Dresda10  

Il paradigma di Norimberga è il presupposto in virtù del quale ai macellai di Washington e ai loro alleati è tutto permesso in nome della “democratizzazione” del pianeta: bombardamenti al fosforo, guerre preventive, torture e stermini di civili. Per questa ragione è assolutamente necessario distruggere il fondamento su cui esso si basa, ossia il pretesto della necessità morale degli angloamericani di liberare il mondo dallo spauracchio di turno, sia esso il “nazismo”, il “comunismo” o il “terrorismo”.

 

***

 

Per nascondere i crimini degli Alleati la municipalità di Dresda, al servizio del governo di occupazione statunitense, ha vergognosamente ridotto il numero delle vittime dei bombardamenti a tappeto. I negazionisti dell’olocausto tedesco sostengono che a Dresda morirono solo 35.000 persone . Cifra che in realtà rappresenta solo la piccola percentuale che dopo la tempesta di fuoco è stato possibile identificare con certezza, dato che la maggior parte dei corpi era completamente carbonizzata o orribilmente mutilata [16].

Questi falsari della storia, che sono gli stessi che al contrario aumentano a dismisura le vittime quando si tratta dell'olocausto ebraico, perseguono solo un fine politico, quello cioè di occultare e distorcere i fatti per impedire la nascita di un risentimento che potrebbe rivelarsi politicamente dannoso per Washington.

Come giustamente fa notare John Kleeves:

 

«Il danno politico causato da Stati Uniti e Gran Bretagna dai bombardamenti della seconda guerra mondiale continua nel tempo. Potrebbe sembrare che tutto sia stato dimenticato: Giappone, Germania e Italia paiono ottimi amici di Stati Uniti e Gran Bretagna. Ma limitiamoci ai sentimenti dei tre paesi nei riguardi degli Stati Uniti: sono davvero così amici degli Stati Uniti? No davvero. In questi paesi il risentimento antiamericano, dovuto al ricordo della seconda guerra mondiale, è represso dai rispettivi governi,ma in forma latente esiste e in circostanze adatte potrebbe tornare alla luce. In ogni giapponese, sotto una crosta di rispetto e buona disposizione, permane un immancabile nucleo duro di risentimento nei confronti degli Stati Uniti, il loro macellaio della seconda guerra mondiale. Più o meno è lo stesso per quanto riguarda i tedeschi, e più o meno può essere lo stesso negli italiani, e tale risentimento latente nei tre paesi potrebbe rivelarsi nefasto per gli Stati Uniti. In futuro potrebbe anche darsi infatti che gli Stati Uniti abbiano bisogno di loro per la propria autentica sopravvivenza, e che costoro abbiano la possibilità di decidere. Potrebbe allora anche darsi che decidano di ignorare un tale appello, o addirittura che contribuiscano allo scavo della loro fossa. Sono possibilità più concrete di quanto non s’immagini».

  Dresda11     NOTE:   [1] L’INGHILTERRA INIZIATRICE DEI BOMBARDAMENTI SULLE CITTA’ di Nicholas Kollerstrom. Spaight sottolineò inoltre che Hitler sarebbe stato disponibile in qualunque momento a fermare la carneficina se gli inglesi fossero stati d’accordo: “Hitler sicuramente non voleva che il bombardamento reciproco continuasse. I rapporti ufficiali tedeschi approvavano in continuazione il concetto di rappresaglia nelle azioni della Luftwaffe … voi smettete di bombardarci e noi smettiamo di bombardarvi”.   [2] ADOLF HITLER: UN CANDIDATO MANCATO AL PREMIO NOBEL: http://olodogma.com/wordpress/2013/03/20/0166-adolf-hitler-un-candidato-mancato-al-premio-nobel/ – Discorso di Hitler 19 luglio 1940: https://www.youtube.com/watch?v=EHcJJcvEHe0   [3] “INTERVISTA” ALLO STORICO INGLESE DAVID IRVING, Chi ha dato l’inizio agli attacchi aerei sulle capitali? Vedi anche l’ottimo documentario: https://www.youtube.com/watch?v=5m6z7Iax31k   [4] The Greatest Story Never Told: Winston Churchill and the Crash of 1929 https://churchillcrash1929.wordpress.com/ Per un profilo su Churchill vedi anche: WINSTON SPENCER CHURCHILL: UN OMAGGIO Di Harry Elmer Barnes: http://andreacarancini.blogspot.com/2008/04/churchill-visto-da-un-grando-storico.html – Churchill e Roosevelt: due mostri del 20° secolo: http://andreacarancini.blogspot.com/2008/07/churchill-e-roosevelt-due-mostri-del-20.html – The War Criminal Churchill di Alfred Rosenberg: http://research.calvin.edu/german-propaganda-archive/schul05.htm   [5] L’INGHILTERRA – INIZIATRICE DEI BOMBARDAMENTI SULLE CITTA’Di Nicholas Kollerstrom (2007)   [6] Lo scrittore Kurt Vonnegut, che fu testimone del bombardamento di Dresda, in quanto presente nella città come prigioniero di guerra, e che lo descrisse nel libro Mattatoio n°5, affermò in un’intervista concessa a The Independent (Londra, 20.12.2001, p. 19): “Sì, da parte dei nostri [gli inglesi], direi. Voi, ragazzi, l’avete ridotta in cenere, trasformata in una sola colonna di fuoco. Sono morte più persone lì, nella tempesta di fuoco, in quell’unica grande fiamma, che a Hiroshima e a Nagasaki messe assieme”   [7] “INTERVISTA” ALLO STORICO INGLESE DAVID IRVING, Chi ha dato l’inizio agli attacchi aerei sulle capitali? [7b] Testimonianza oculare dei mitragliamenti sui civili: http://www.timewitnesses.org/english/~angela2.html   [8] I PIANI ALLEATI PER L’ANNIENTAMENTO DEL POPOLO TEDESCO, Pubblicato sul Vierteljahreshefte fuer freie Geschichtsforschung (quaderni trimestrali per la libera ricerca storica) 5(1) (2001), pag. 55-65.   [9] Gianantonio Valli, La fine dell’Europa   [10] John Kleeves, Un paese pericoloso   [11] Il deputato era Sir Archibald Sinclair, Segretario per l’Air.   [12] In un discorso del 25 Luglio 1900, Lloyd George disse: “una guerra di annessione, comunque, contro un popolo fiero deve essere una guerra di sterminio ed è ciò che sembra stiamo commettendo, bruciando proprietà e buttando fuori dalle loro case donne e bambini”. Fonte: Bentley Brinkerhoff Gilbert, David Lloyd George: A Political Life (Ohio State University Press, 1987), pag. 183, 191.   [13] Vedi il nostro articolo: “La vera storia della Prima guerra mondiale. L’alta finanza all’assalto dell’Europa”.   [14] John Kleeves, Sacrifici Umani   [15] Consultabile all’indirizzo: http://www.ihr.org/books/kaufman/perish.shtml   [16] UN OLOCAUSTO VERO: DRESDA, 13 FEBBRAIO 1945 di Thomas Brookes (2008):

Più di 12.000 edifici nel centro della città vennero ridotti in polvere durante l’infernale tempesta di fuoco. Considerando che, oltre ai 600.000 abitanti di Dresda, altre 600.000 persone (profughi provenienti da Breslau) avevano trovato rifugio in questa città sovraffollata, si può tranquillamente presumere che ognuno di questi 12.000 edifici conteneva non meno di 50 persone. Ma di questi edifici non è rimasto praticamente nulla, e le persone che vi erano alloggiate vennero ridotte in cenere da un calore di 1.600 gradi Celsius.

I negazionisti dell’Olocausto Tedesco affermano spudoratamente che a Dresda morirono solo 35.000 persone. Considerato che venne distrutta una superficie di chilometri 7×4, vale a dire di 28 chilometri quadrati, la suddetta cifra “politicamente corretta” significherebbe che sarebbero morte meno di 1.5 persone ogni mille metri quadrati! Nel Febbraio del 2005, una commissione di storici “seri” ridusse ulteriormente tale cifra, affermando che a Dresda erano stati uccisi solo 24.000 tedeschi. Ma chiunque conosca il carattere del sistema politico tedesco sa che questi “storici seri” non sono nient’altro che volgari falsari della storia, pagati per impedire l’emergere della verità con menzogne sempre più sfacciate.

La cifra delle 35.000 vittime rappresenta solo la piccola parte delle vittime che poterono essere identificate con certezza. Erhard Mundra, membro del “comitato Bauzen” (un’associazione di ex prigionieri politici della Repubblica Democratica Tedesca) scrisse sul quotidiano Die Welt (in data: 12.2.1995, a p. 8) che “secondo l’ex funzionario del distretto militare di Dresda, nonché tenente colonnello in pensione del Bundeswehr, D. Matthes, 35.000 vittime furono identificate con certezza, e altre 50.000 vennero parzialmente identificate, mentre ulteriori 168.000 non poterono essere identificate”. Non c’è bisogno di dire che gli sventurati bambini, donne e anziani che vennero ridotti in cenere dalla tempesta di fuoco non poterono parimenti essere identificati.

Nel 1955, l’ex Cancelliere della Germania Ovest Konrad Adenauer dichiarò: “Il 13 Febbraio del 1945 l’attacco alla città di Dresda, che era sovraffollata di profughi, provocò circa 250.000 vittime” (Deutschland heute, edito dall’ufficio stampa e informazioni del governo federale, Wiesbaden, 1955, p. 154).

Nel 1992, la municipalità di Dresda diede la seguente risposta ad un cittadino che aveva chiesto il tasso di mortalità: “Secondo le informazioni attendibili della polizia di Dresda, fino al 20 Marzo [del 1945] vennero trovati 202.040 morti, la maggior parte dei quali donne e bambini. Solo circa il 30% di loro potè essere identificato. Se teniamo conto dei dispersi, sembra realistica una cifra tra le 250.000 e le 300.000 vitttime” (lettera di Hitzscherlich, datata 31.7.1992).

 

Nessuno è innocente – Enrico Marino

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wilhelm kusterer

Wilhelm Kusterer è un vecchio di 94 anni che nell’autunno del 1944 si trovava a Marzabotto inquadrato come sergente nella SS-Panzergrenadiere Division Reichsführer. Anche se a prima vista le “responsabilità personali” di un sergente, nella scala gerarchica di una Panzergrenadiere Division, appaiono irrilevanti ai fini della organizzazione e della realizzazione di un rappresaglia militare, Wilhelm Kusterer, a guerra finita, è stato giudicato e condannato all’ergastolo in Germania per i fatti di Marzabotto.

Alla stessa pena, ma con ipotizzabili differenti responsabilità, in Italia era stato condannato e poi graziato il maggiore Walter Reder. Questo solo per dire che nella autoflagellante Germania postbellica gli ergastoli, probabilmente, venivano comminati con una certa generosità, anche per la semplice appartenenza a determinati reparti militari.

Comunque sia, Wilhelm Kusterer l’ergastolo non l’ha scontato e, dopo un periodo di prigione più o meno lungo, è stato liberato, ha ripreso una vita normale nel suo comune di origine, Engelsbrand nel Baden-Württemberg, dove ha fatto il consigliere dal ’75 al ’97. Per i servigi resi in questa sua attività, nel 2015 è stato premiato con una medaglia dal sindaco e dalla sua comunità.

Appena questa notizia è trapelata ha scatenato i coriferi del partigianesimo che, come sempre egemonizzati dall’Anpi, hanno inscenato la solita gazzarra vetero resistenziale, chiedendo a gran voce la revoca di quel riconoscimento e annunciando persino interrogazioni parlamentari per ottenere soddisfazione dalle autorità tedesche.

Ascoltare l’agitazione e l’indignazione del comunistume nazionale può lasciare indifferenti o suscitare ilarità. E’ sufficiente opporre alle prefiche dell’antifascismo le indecenti vicende che in Italia hanno visto l’ex brigatista Curcio più volte invitato a confronti e dibattiti anche universitari, il terrorista rosso Mauro Azzolini nominato capo di gabinetto del vicesindaco nella giunta Pisapia a Milano o, addirittura, la vergogna dell'INPS che ha erogato annualmente quasi 30.000 pensioni, per un totale di più di 100 milioni di euro, nell'ex Jugoslavia, a coloro che sono stati artefici di deportazioni, rastrellamenti e stragi: criminali di guerra italiani e slavi responsabili del massacro o dell'esodo di migliaia di nostri fratelli e della pulizia etnica perpetrata dai partigiani italiani e titini.

Ma, purtroppo, conformismo e idiozia non risparmiano nessuno e anche nel centro destra c’è sempre qualcuno che punta a essere più realista del re. In questo caso è toccato a Giordano Bruno Guerri, sul Giornale del 6 marzo scorso, distinguersi in questa gara al crucifige! con argomentazioni tanto infondate e fuorvianti da meritare una smentita. Scrive in proposito GBG: “…qui non si tratta di un crimine qualsiasi. Si tratta di uno di quei crimini che hanno segnato con uno sfregio di barbarie il Novecento, uno dei più odiosi crimini di guerra, quelli che tuttora ci ripugnano leggendoli nelle cronache di conflitti mediorientali e africani. E’ per questo motivo che non sono stati trattati come crimini normali, dal processo di Norimberga in poi, né possono essere considerati come tali”.

Sicuri che le cose stiano così? Don Carboni, parroco a Ronca di Monte S. Pietro, paese dell’Appennino bolognese prossimo a Marzabotto, dichiarò: “Si era in tempo di guerra: la guerra ha le sue tremende leggi di sterminio e di vendetta: se ammazzate un tedesco (che importanza aveva l'ammazzare un tedesco nello svolgimento e nell'economia generale della guerra?) verranno fucilati dieci civili[...] Chi dobbiamo ringraziare noi, parenti delle vittime, delle reazioni tedesche? Non certo gli eroi che le provocarono e dopo si eclissarono dandosi alla fuga!”.

Questa è la domanda di don Carboni, giusta e naturale: “Che importanza aveva ammazzare un tedesco?”.

Questa domanda va trasferita e analizzata nel contesto politico del disegno organico costruito dai vertici del Pci: uccidere un tedesco (o un fascista), attendere la rappresaglia e, di conseguenza, guidare il terrore e l'odio dei civili nella direzione desiderata e atteggiarsi, quindi, a giudici e vendicatori di tante vittime innocenti. Dall'ottobre del '43 al luglio del '44 tedeschi e fascisti subirono (soprattutto i fascisti senza reagire) lo stillicidio di omicidi individuali o di gruppo operati dai comunisti nelle retrovie e nelle città dietro la linea Gotica. Omicidi operati con la tecnica del mordi e fuggi: i partigiani colpivano alle spalle e scappavano.

Per capire con quale determinazione i comunisti applicarono quella “tecnica”, va ricordato che nelle sole strade di Bologna furono uccisi, in attentati, più di 450 fascisti o presunti tali. I comunisti, con queste “azioni”, si aspettavano spietate rappresaglie ma queste, sia per gli ordini di Mussolini, sia per il sangue freddo dimostrato dai Prefetti, furono rare e, in ogni caso, mai proporzionate alle perdite subite.

È difficile credere che i capi e gli organizzatori di queste “azioni” non conoscessero le “Convenzioni Internazionali” e le relative deliberazioni del diritto di rappresaglia. Sulla base delle Convenzioni de L'Aja del 1899 e del 1907 sulla guerra terrestre si possono classificare quattro categorie di legittimi combattenti, nella prima rientrano i militari delle Forze Armate regolari di uno Stato belligerante, purché indossino una uniforme conosciuta dal nemico, portino apertamente le armi, dipendano da ufficiali responsabili e dimostrino di rispettare le leggi e gli usi di guerra.

Gli illegittimi combattenti, invece, vengono dovunque perseguiti con pene severissime e sono generalmente sottoposti alla pena capitale.

Nella guerra terrestre i franchi tiratori che operano nelle retrovie nemiche, infiltrandosi alla spicciolata sotto mentite spoglie, vengono passati per le armi in caso di cattura, lo stesso dicasi per i sabotatori.

Sempre dal “Diritto Internazionale” alla voce “Rappresaglia” si può leggere: “La rappresaglia si qualifica innanzitutto come “atto legittimo”[...]La rappresaglia, condotta obiettivamente illecita, diventa, per le particolari circostanze in cui viene attuata, condotta lecita. La rappresaglia è, fondamentalmente, una “sanzione”, cioè una reazione all'atto illecito e non un mero atto lecito, la cui liceità deriva dall'esistenza di un precedente atto illecito.

[...]Poiché la rappresaglia si pone come “risposta” ad un illecito, per essere legittima deve obbedire a queste condizioni: vi deve essere stata lesione di un diritto o di un interesse giuridico dello Stato autore e deve essere mancata la riparazione[...]non può mai violare le leggi umanitarie, cioè fondamentali ed elementari esigenze di umanità[...]La scelta delle misure da infliggere spetta allo Stato offeso. Questo, però, prima di passare all'azione, deve assicurarsi che l'offensore non voglia o non possa riparare il danno[...]Compiuto inutilmente questi passi, potrà applicare le misure che meglio crederà uniformando però la sua condotta alle condizioni di legittimità sopra esposte[...]”.

L’art. 33 della IV Convenzione di Ginevra del 1949, in deroga a quanto prima era consentito dall'art. 50 dei regolamenti del L'Aja del 1899 e del 1907, proibisce in modo tassativo le misure di repressione collettiva, di cui si ebbe “abuso delittuoso nell'ultimo conflitto”, ma in verità questo dettato non è stato rispettato, dopo, dagli stessi americani dal Vietnam alla Somalia.

Tutto questo per dire che all’epoca dei fatti di Marzabotto anche la “repressione collettiva” era ammessa dalle leggi di guerra e che perciò anche il richiamo di GBG ai criteri del processo di Norimberga è fuorviante. Quel processo, oltre alla inaccettabile composizione dell’organo giudicante e alla alterazione e alla costruzione di prove false, rappresentò una mostruosità giuridica anche nell’applicazione di norme speciali e del tutto innovative rispetto a quelle vigenti all’epoca dei fatti, per cui le valutazioni di quella Assise furono consapevolmente viziate e illegittime.

Tornando invece alla vicenda di Marzabotto, va ricordato che nella zona apparve un manifesto, un vero ultimatum, a firma delle SS und Polizeifuehrer-Oberitalien-West, ove, fra l'altro, era chiaramente indicato: “[...]1) chi aiuta i banditi è un bandito egli stesso e subirà lo stesso trattamento; 2) Tutti i colpevoli saranno puniti con la massima severità[...] Gli autori degli attentati ed i loro favoreggiatori saranno impiccati sulla pubblica piazza. Questo è l'ultimo avviso agli indecisi[...]” .

A seguito di questi ammonimenti la popolazione locale aveva iniziato ad allontanarsi dalla zona. A questo punto i stellarossapartigiani che operavano in quell’area, cioè i comunisti della “Stella Rossa” intervennero e proibirono a quella povera gente di mettersi in salvo, costringendoli a tornare indietro garantendo che, se i tedeschi li avessero minacciati, loro li avrebbero protetti. I tedeschi inviarono negli accampamenti dei partigiani della “Stella Rossa”, alcuni parlamentari con la proposta che, se i partigiani fossero rimasti al loro posto, senza intraprendere azioni di disturbo contro i tedeschi questi, a loro volta, si impegnavano a non iniziare alcuna rappresaglia.

I parlamentari tedeschi furono trucidati. Questo fatto indusse il Comando germanico ad agire con la più grande decisione. Quello che accadde dopo è noto e doloroso, ma è noto anche che i comunisti della "Stella Rossa" non solo non intervennero a difesa delle popolazioni, ma addirittura si andarono a rifugiare all’interno delle linee americane!!!

Per una più esatta valutazione sulle persone che componevano la brigata “Stella Rossa” va ricordato che ai primi colpi dell'attacco tedesco alcuni partigiani, approfittando della occasione, uccisero il loro capo Mario Musolesi detto “Lupo” per rubargli un tesoro che questi aveva accumulato per distribuirlo, diceva, a guerra finita. C'è anche un'altra mistificazione: quello che sostengono i partigiani e cioè che il Lupo cadde combattendo eroicamente per contrastare l'attacco delle SS.

Altra montatura riguarda il numero dei caduti nell' “Eccidio di Marzabotto” indicato in 1830 vittime, cifra imposta dai partigiani a guerra finita. Ma la mistificazione apparve palese quando risultarono fra le vittime, persone ancora in vita, caduti nella prima Guerra Mondiale, deceduti per polmonite o per bombardamenti e, addirittura, nomi di fascisti uccisi durante (e dopo) la guerra civile.

Nel Sacrario inaugurato a Marzabotto nel 1961 sono raccolte solo 808 salme. Di queste, però, 195 sono di persone che morirono per scoppi di mine, o di militari deceduti nella Prima Guerra Mondiale: solo circa seicento appartengono a vittime del massacro.

Si può fare un'ultima notazione di fronte alle sconsiderate osservazioni di GBG: viviamo in un Paese che è nato, senza vergogna, dalla repressione e dalla rappresaglie. Furono distrutti dai piemontesi 51 paesi alcuni dei quali non sono più stati ricostruiti; simboli di tanta tragedia ricordiamo Pontelandolfo e Casalduni, due comuni del Sannio. Il 14 agosto 1861 alle quattro di mattina arrivarono due colonne dei bersaglieri, partite da Benevento, al comando del colonnello Pier Eleonoro Negri e del maggiore Carlo Magno Melegari, con l’ordine di Cialdini che delle due cittadine ”non rimanesse pietra su pietra”; esse circondarono i paesi per impedire ogni via di fuga e li dettero alle fiamme, cominciarono allora: il tiro al bersaglio sui civili inermi che scappavano per non essere arsi vivi, gli stupri, il saccheggio delle abitazioni, la profanazione delle chiese, mentre i responsabili della rivolta erano già al sicuro sulle montagne; solo tre case rimasero in piedi, al suolo centinaia di civili uccisi [una stima parla di circa 1000]; il colonnello Negri comunicò per telegrafo che ”Ieri, all’alba, giustizia fu fatta, contro Pontelandolfo e Casalduni” e terminò la sua carriera 26 anni dopo con la Gran Croce dell’Ordine della Corona d’Italia.

Siamo sicuri di avere le carte in regola per giudicare le SS?

Enrico Marino

Lebensraum – Franca Poli

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Per quale motivo è scoppiata la seconda guerra mondiale? Tutti i libri di storia raccontano che la causa della dichiarazione di guerra di Francia e Gran Bretagna alla Germania, fu l’invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche, ma è tutto davvero così semplice? Hitler è stato descritto come un pazzo sanguinario, uno psicopatico con manie di grandezza, che avrebbe provocato una guerra solo per impossessarsi di parte della Polonia. Occorre, a mio avviso, tentare di dare una visione più ampia o meno parziale per capire che non vi fu un’unica responsabile e cioè la Germania, ma che in parti diverse tutte le potenze contribuirono a scatenare il più sanguinoso conflitto del Novecento.

Va detto che, sicuramente, Hitler aveva nei suoi progetti la conquista di uno “spazio vitale” proprio della Germania, ma che la casta dominante britannica glielo rifiutava. Ciò che avrebbe dovuto essere, per quei tempi, un diritto semplice, basilare, elementare era presentato dagli Inglesi come una richiesta abnorme, sospetta, senza alcun merito e la Polonia divenne così il simbolo di questo conflitto.MK_800[1]

È stata consentita, recentemente, anche in Germania la pubblicazione de il “Mein Kampf” e chi ne ha affrontato la lettura saprà che il giovane Hitler già dai tempi in cui era in carcere per il fallito Putsch di Monaco del 1923, durante la stesura del libro aveva ampiamente disegnato il suo dettagliato programma ideologico e affrontava l’argomento della politica di espansione a Est che, a suo parere, la Germania avrebbe dovuto attuare. In primo luogo l’espansione avrebbe dovuto andare unicamente a scapito della Russia, poiché questa rappresentava il focolaio del pericolo bolscevico, in secondo luogo Hitler sognava la riunificazione di tutti i Tedeschi in un unico Reich e infine un altro importante argomento che gli stava profondamente a cuore, era la revisione dello stato di cose dopo l’iniquo trattato di Versailles, le cui pesanti condizioni imposte alla Germania, avevano devastato l’economia tedesca. Così, a tal proposito, commentava Philipp Sheidemann (alla guida di un governo di coalizione nel 1919) “Quale mano non si seccherebbe, mettendo se stessa e noi in simili catene!(R.D.Muller “La fine del Terzo Reich”)

Nel “Mein Kampf “ al capitolo XIV, Hitler parlava dell’importanza di ampliare il proprio territorio:
”...soprattutto in un’epoca in cui la terra viene a poco a poco spartita fra gli stati di cui alcuni sono vasti come continenti…”

facendo così un fermo riferimento alle potenze come Francia e Gran Bretagna che detenevano vasti imperi coloniali, possedimenti che parimenti avrebbe dovuto avere di diritto anche la Germania ma che le erano sempre stati negati.

Dalle sue pagine inoltre criticava aspramente i politici contemporanei che ambivano conservare buoni rapporti con la Russia, poiché reputava i suoi governanti “volgari delinquenti coperti di sangue, la feccia dell’umanità, che, favorita dalle circostanze di un’ora tragica, diede l’assalto ad un grande Stato, scannò, avida di sangue, milioni di intellettuali ed esercita da quasi dieci anni il più tirannico dominio di tutti i tempi”.

Ed è proprio ad Est che Hitler individuava il suo “Lebensraum”, lo spazio che riteneva vitale per sopperire alla mancanza di colonie e per far fronte alla carenza di territorio per il suo popolo, sperando di incontrare il favore delle altre potenze europee che avrebbero dovuto, come lui, intravedere nel bolscevismo il nemico comune da abbattere.

“Se in Europa si vogliono acquistare terra e suolo ciò può avvenire in linea di massima solo a spese della Russia, e il nuovo Reich deve mettersi di nuovo in marcia sulla strada dei cavalieri dell’ordine di un tempo per dare con la spada tedesca la zolla all’aratro tedesco e alla nazione il pane quotidiano” (Mein Kampf pag.154)

Hitler con il suo libro aveva presentato la visione teorica riguardante lo spazio vitale e vi rimase coerente e, quando mkdopo circa dieci anni si trovò alla guida del Paese, riportò in auge il suo disegno politico, pronto alla realizzazione, sperando di ottenere aiuto e comprensione dalla Gran Bretagna che invece non accettò, né appoggiò mai le sue richieste di un maggiore spazio vitale “Sono profondamente rammaricato che questa spiacevole situazione sia nata per effetto dell’unica rivendicazione che ho avanzato e che continuerò ad avanzare e cioè la restituzione delle nostre colonie” (H.Hitler discorso al Reichstag 28 aprile 1939) Egli continuò fino alla fine ad aggrapparsi alla realizzazione del benessere per il suo popolo e nel suo ultimo messaggio dal bunker ribadiva ancora una volta che il dovere dell’esercito era “vincere per lo spazio del popolo tedesco ad est”.

Nel 1939 si era arrivati alla genesi del grande conflitto, il governo tedesco, un anno prima, aveva proposto alla Polonia alcune richieste:

“lo stato libero di Danzica ritorna al Reich tedesco. Attraverso il corridoio scorre un’autostrada extraterritoriale del Reich appartenente alla Germania e una ferrovia a più binari altrettanto extraterritoriale. La Polonia otterrebbe nella zona di Danzica una strada o un’autostrada e una ferrovia extraterritoriale nonchè un porto franco. Nella zona di Danzica, la Polonia ottiene una garanzia di smercio dei suoi prodotti”.

Danzica era una città quasi totalmente di etnia tedesca che, in barba al principio di autodeterminazione dei popoli di Woodrow Wilson era stata separata dalla madrepatria alla fine della prima guerra mondiale e dove, la popolazione votava al 99% per Hitler. Nessun uomo di stato aveva ritenuto giusta questa separazione, ma la casta dominante europea, non le permise di ritornare alla Patria della sua razza, della sua storia, della sua lingua, della sua “democratica scelta” e sabotò ogni trattato, non tanto perché lo reputasse ingiusto, quanto perché un risultato positivo avrebbe significato il riconoscimento al diritto dello spazio vitale tedesco.12516209_10204559596589657_1029179291_n

La questione di Danzica era una delle maggiori problematiche che il trattato di Versailles aveva lasciato in sospeso tra Germania e Polonia, e costituiva la principale rivendicazione di Hitler: ”…Danzica è una città tedesca che desidera appartenere alla Germania, ma purtroppo esistono degli accordi con la Polonia che ci sono stati imposti dai dittatori della pace di Versailles(…)ritengo indispensabile che la Polonia abbia uno sbocco sul mare e ho di conseguenza tenuto in considerazione questa necessità (…) considero tuttavia doveroso far presente al governo di Varsavia che come la Polonia desidera uno sbocco sul mare, così la Germania ha bisogno di aver accesso alle sue province situate a est” (estratto dal discorso di Hitler del 28 aprile 1939 al Reichstag)

Gli abitanti di Danzica chiedevano dunque a gran voce di riunirsi alla Germania, ma con il sostegno britannico, la Polonia si sentì in grado di rifiutare ogni proposta e ogni accordo sull’argomento. Anche la Francia avrebbe potuto adoprarsi per ottenere una soluzione pacifica, ma la sua diplomazia non si impegnò altrettanto bene di come aveva fatto nel 1914 annodando l’alleanza franco-russa.

Dunque è evidente che non solo la Germania, ma anche le altre potenze europee erano propense a un conflitto, e i motivi sono da ricercare in qualcosa di più profondo e veritiero che non la difesa, peraltro non richiesta, delle poche migliaia di abitanti di una città “polacca”. La vera questione non era Danzica, ma si trattava di fermare con ogni mezzo l’avanzare di quei movimenti rivoluzionari, fascisti e nazionalisti che, pur con le loro diversità, si stavano espandendo in Europa (Italia, Germania, Spagna, Portogallo), che osteggiavano l’utilitarismo capitalista anglo-americano e il materialismo proletario-sovietico. Hitler, dipinto come il “male assoluto”, aveva fatto senza dubbio della Germania una potenza, la più forte, e andava distrutto, il suo pensiero e il suo esempio estirpati dall’Europa. La pressione degli USA e del Giudaismo internazionale sulla Gran Bretagna fecero sì che si arrivasse a una guerra mondiale, durante la quale il Reich schiacciato da ogni lato non avrebbe potuto sopravvivere.

11100007_10204559596669659_2076716049_nL’intervento tedesco in Polonia fu un pretesto dunque per tutte le potenze contendenti, ma per correttezza d’informazione vorrei concludere con un episodio avvenuto prima dell’intervento militare di Hitler e di cui non si fa menzione nei libri di storia. Hitler rivendicò anche il diritto a difendere il popolo tedesco che in Polonia aveva subito diverse azioni di discriminazione etnica. Una politica che culminò con il massacro di Bromberg, conosciuto come la “domenica di sangue”, dove barbaramente vennero uccise un numero imprecisato di tedeschi, numero che è ancora motivo di contendere tra gli storici, ma che va dalle 5.000 alle 55.000 unità. Fu un vero genocidio, compiuto dai comunisti polacchi, torturando e trucidando vilmente uomini, donne, vecchi e bambini. Sevizie tali da inorridire e di cui è stata raccolta un’ampia documentazione su un libro pubblicato in Germania nel 1940: “Die polnischen Grausamkeiten an den Volksdeutschen in Polen” (le atrocità polacche contro i tedeschi etnici in Polonia). Nel testo sono riportate, molteplici immagini di una crudezza tale che non mi sono sentita di riproporre. Di questo e di altro sulle mire espansionistiche polacche a danno dei tedeschi e sui disegni di una “guerra preventiva” contro il Reich, si può leggere quanto scritto dal dottor Gianantonio Valli su ”La fine dell’Europa”, dove mette in luce la lucida strumentalizzazione voluta e compiuta dalle “Grandi Democrazie per creare il casus belli contro il Reich”.

La seconda guerra mondiale ci viene descritta come una "guerra contro il razzismo", la lotta della libertà contro il totalitarismo, in realtà, anche se agli occhi dei più potrebbe sembrare un paradosso, erano proprio gli Alleati a detenere colonie e a praticare politiche razziali, ben più diffusamente rispetto alle forze dell’Asse: basti pensare soltanto allo sfruttamento economico coloniale inglese e francese e alla segregazione razziale in atto negli Stati Uniti verso i neri, contro cui era attivo il KKK, i sudamericani, i giapponesi, che la popolazione guardava con pregiudizio e chiamava “rats”, gli stessi Italiani, per non menzionare il genocidio dei nativi americani. La responsabilità di tutto non fu assolutamente solo di una parte, anche in gran Bretagna, nessuna autorità o politico ha mai rifiutato l’idea di guerra, anzi alla popolazione era continuamente ribadito che una eventuale guerra in cui la Gran Bretagna si fosse trovata coinvolta, sarebbe stata totale.

La politica tedesca del Lebensraum non era esclusiva opera del demonio, come si è sempre voluto far apparire, ma faceva parte di uno sviluppo generale iniziato proprio dalle potenze Occidentali: la politica tedesca, di ricercare uno spazio vitale, come anche quelle italiana e giapponese in maniera diversa, furono un atto di salvaguardia economica dalla politica delle grandi plutocrazie, una strenua difesa contro lo strangolamento delle sanzioni, contro il dominio dei mari, contro la minaccia costante di uniformarsi all’egemonia britannica.

La guerra disastrosa e sanguinaria scoppiata nel 1939 fu dunque un aspetto della lotta: spazio vitale contro imperialismo egemonico. Si possono ben definire egemoniche, le potenze che, ancora oggi, per i loro interessi s’immischiano nelle politiche dei continenti lontani, negli spazi vitali stranieri e, fregiandosi di spirito umanitario, democratico, sono pronte a combattere. È lontana, nonostante il trascorrere dei secoli, l’inviolabilità di spazi vitali propri, le potenze occidentali pretendono ancora direttamente o attraverso organismi internazionali intrusione, ingerenza e diritto di controllo.

“A un ragazzetto dei nostri giorni, l’Europa detta “fascista” appare un mondo lontano, già confuso. Questo mondo è sprofondato, dunque non ha potuto difendersi. Quelli che lo hanno steso al suolo rimanevano soli sul terreno, nel 1945. Essi hanno, da allora, interpretato i fatti e le intenzioni, come conveniva loro. (Léon Degrelle – Hitler per mille anni)

Discorso del Presidente Federale Joachim Gauck all’evento commemorativo del 70° anniversario della distruzione di Dresda

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Croce di chiodi Coventry

Un testo rivelatore: Gauck ne emerge come il Gran Sacerdote della nuova religione tedesca, la cui pietra angolare è rappresentata dal senso di colpa. Quella officiata a Dresda nel settantesimo anniversario della distruzione della città è stata, anzitutto, una cerimonia penitenziale. L'enfasi posta dal celebrante sul concetto di riconciliazione non deve far perdere di vista la premessa e il fondamento del rito, ovvero il mea culpa recitato in nome e per conto della maggioranza dei tedeschi, di cui Gauck si erge ad interprete.(La Redazione)

Dresda, 13 febbraio 2015

Martedì 13 febbraio 1945: questa data è impressa nella memoria di ogni cittadino di Dresda sopravvissuto a quella notte. Fece buio presto in quel fosco giorno d’inverno, martedì di Carnevale. I bambini indossavano cappelli dai colori sgargianti e nasi rossi da clown. Molti abitanti di Dresda cercavano tornare alla normalità, di evadere dal grigiore di quella guerra senza fine, di dimenticare il dolore degli sfollati presenti in città e dei resoconti circa l’avvicinarsi della linea del fronte.

Per cinque anni i bombardieri Alleati avevano per lo più ignorato la città. Ma quella sera, come scrisse il professore di lingue romanze Victor Klemperer “la catastrofe  colpì Dresda: le bombe caddero, le abitazioni si sgretolarono […] le travi in preda alle fiamme caddero sulle teste degli ariani e dei non ariani, e la medesima tempesta di fuoco condusse alla morte ebrei e cristiani; per alcuni dei circa settanta che portavano la stella gialla scampati a quella notte, tuttavia, essa significò la salvezza, poiché riuscirono ad evadere dalle celle della Gestapo approfittando del caos generale” – proprio come l’autore che, essendo il marito di una cosiddetta ariana, non era ancora stato deportato. Klemperer sopravvisse ai raid aerei riportando lievi ferite e si sottrasse all’arresto fuggendo dalla città.

Ma le bellezze barocche della “Firenze sull’Elba” giacquero in macerie e migliaia di vite andarono perdute. La bombe e gli incendi le reclamarono indiscriminatamente: colpevoli e innocenti, membri del partito e bambini, criminali di guerra e suore, guardie dei campi di concentramento e lavoratori forzati, soldati in servizio attivo e sfollati che, per mettersi in salvo, avevano abbandonato i propri luoghi d'origine pensando di trovare in città un rifugio sicuro.

Erich Kästner[1], un figlio illustre di questa città, si ritrovò due anni più tardi a camminare fra i mucchi di rovine: “Quella che sapevamo essere Dresda non esisteva più. Si camminava fra le macerie come se si stesse camminando in sogno a Sodoma e Gomorra. […] Quindici chilometri quadrati di città rasi al suolo e spazzati via.

Persino oggi, settant’anni dopo, possiamo ancora avvertire gli effetti di quell’incubo. Testimoni oculari che vissero l’inferno portano con sé i ricordi di luoghi e persone che non rividero mai più. In molti di loro la distruzione provocò duratura sofferenza psicologica. In alcuni casi, essa passò ai loro figli e nipoti. Per la città, la notte del bombardamento divenne un momento decisivo, il punto di riferimento nella lotta per l’identità e la percezione di sé stessa.

Ecco il motivo per cui siamo radunati qui oggi, in questo anniversario. Ci dogliamo per tutti coloro che soffrono da allora. E ricordiamo tutti quelli che persero la vita in quell’epoca, non solo a Dresda ma in qualunque altro luogo.

Molte città furono bersaglio di terribili bombardamenti aerei durante la guerra. Città attaccate dai tedeschi: Wieluń in Polonia, Rotterdam, Belgrado, Londra, Leningrado o Coventry. E città sulle quali i piloti Alleati sganciarono le proprie bombe: Kassel, Darmstadt, Essen, Lubecca, Berlino, Würzburg, Swinemünde o Pforzheim. Ma, a causa del numero di vittime e dell’orribile incendio, sono Amburgo e in special modo Dresda  ad esser divenuti simbolo delle sofferenze della popolazione civile tedesca a causa dei bombardamenti aerei.

Gli ordigni incendiari piovuti appresso alle bombe ad alto esplosivo innescarono tempeste di fuoco che trasformarono centri cittadini e cantine in trappole mortali. Il bombardamento di aree puramente residenziali su tale scala e con una simile forza distruttiva non aveva precedenti. La questione se questa forma di guerra fosse militarmente utile, permessa dalle leggi internazionali e moralmente accettabile fu oggetto di accese controversie anche mentre la guerra infuriava – persino in Inghilterra e fra gli Alleati. E’ a tutt’oggi in corso un dibattito di natura legale e morale per stabilire se mezzi illegittimi possano essere utilizzati per eliminare ingiustizie.

Un’altra cosa che rende speciale Dresda è la seguente: in nessun altro luogo il dolore è stato così grandemente strumentalizzato a scopi politici come qui. La falsificazione della storia cominciò addirittura prima della fine della tirannia nazionalsocialista, proseguì sotto la DDR ed è proseguita sino ad ora da parte di alcuni individui incorreggibili.

Pochi anni or sono, una commissione indipendente di storici, dopo aver effettuato minuziose ricerche, fissò il numero delle persone uccise nella notte fra il 13 e il 14 febbraio 1945 a venticinquemila. Ciò nonostante, taluni seguitano ad asserire che la cifra effettiva fosse più alta, allo scopo di mettere sullo stesso piano  gli attacchi Alleati e i crimini nazionalsocialisti contro l’umanità – in altre parole, per relativizzare la colpa tedesca. E sul fronte opposto vi sono coloro che, nonostante le indicibili sofferenze umane, giustificano il bombardamento a tappeto come una punizione adeguata, affermano il principio della colpa collettiva e ignorano pertanto completamente la sofferenza tedesca.

So assai bene che da quando in Germania abbiamo preso piena coscienza – grazie a chi si prodigò a tal fine negli scorsi decenni – dell’ampiezza della colpa tedesca, tanta gente ha trovato difficile ammettere che anche le vittime tedesche ebbero a soffrire. Tuttavia, so anche che una nazione che consente un’atrocità come un genocidio non può aspettarsi di uscire impunita e indenne da una guerra che essa stessa ha scatenato.

Oggi desidero ricordare con gratitudine il successo degli abitanti di Dresda nel resistere ad almeno due tentativi di strumentalizzazione della memoria. Negli anni Ottanta, piccoli gruppi di persone coraggiose che reggevano candele in mano, resistettero ai tentativi dello Stato di trasformare le commemorazioni in manifestazioni anti-occidentali. E oggi, decine di migliaia di persone a Dresda, scegliendo come simbolo la rosa bianca, si stanno opponendo a un genere di rimembranza di cui l’estrema destra in particolare ma a volte anche l’estrema sinistra cercano di abusare nel solco di un nazionalismo esacerbato o, al contrario, negativo.

La rosa bianca non si ricollega solo al gruppo di resistenza antinazista di Monaco di Baviera; rose bianche era dipinte anche su due piatti di porcellana usciti intatti dal bombardamento del 13 febbraio. La donna di Dresda che ritrovò i piatti dopo l’incendio regalò uno di essi ai sopravvissuti di Guernica.  E la sua richiesta di perdono, la sua espressione di solidarietà nel dolore, il suo desiderio di riconciliazione, furono compresi e accettati.

Vogliamo sancirlo ancora una volta: sappiamo chi cominciò quella guerra omicida. Lo sappiamo. E questo è il motivo per cui non dimenticheremo mai le vittime della guerra tedesca. Non dimenticheremo mai, anche se oggi ricordiamo le vittime tedesche.

Il ricordo non ci mette in connessione solo con i defunti, ma crea una connessione fra coloro che ricordano. Dopotutto, noi intendiamo guardare al passato per trovare risposte alle questioni del presente e del futuro. Ciò che è accaduto non deve rimanere senza conseguenze. E così noi osserviamo il passato per trarre orientamenti, lezioni, esempi, forse anche alla ricerca di metodi che ci rendano capaci di far progredire ciò che è bene e di prevenire ciò che è male.

Pertanto decidiamo a quali eventi del passato rivolgeremo speciale attenzione e a quali aspetti dedicheremo il nostro interesse.

Così facendo, ci rendiamo conto di quanto le persone differiscano nel modo di ricordare, e di come il ricordo non conduca affatto automaticamente a comportamenti buoni e giusti. Il ricordo può essere una forza proficua per una società. Ma in molte parti del mondo ancor oggi vediamo come una memoria selettiva e  per così dire truccata serva a promuovere scopi distruttivi, revanscisti o nazionalisti. Anche qui nel nostro paese, siamo tenuti continuamente a discutere, talvolta animatamente, a proposito di ciò che vogliamo ricordare, e come.

[caption id="attachment_13809" align="alignleft" width="201"]foto di Susan Judd foto di Susan Judd[/caption]

Perciò il fatto che siamo radunati qui oggi nella Chiesa di Nostra Signora insieme con rappresentanti dei nostri nemici d’allora non va affatto dato per scontato.

Dalla Storia impariamo che vi possono essere risposte molto diverse alla distruzione, alle perdite territoriali, alla disfatta.  Ricordiamo come i tedeschi uscirono dalla Prima guerra mondiale. Essi, o quantomeno una gran parte di essi, si sentirono umiliati dal Trattato di Versailles. E andarono in cerca di vendetta – che è anch’essa una forma di ricordo. Svariati Stati hanno reagito in modo simile, da allora, come abbiamo visto recentemente nei Balcani, per esempio. Ci rendiamo di questo, e dovrebbe esserci di monito. Le inimicizie non possono guarire se le ferite sono mantenute aperte. Coltivare il risentimento accresce il desiderio di vendetta e di rivalsa. Una memoria che si concentri esclusivamente sulle colpe altrui pone le nazioni le une contro le altre anziché avvicinarle in un dialogo pacifico. Di recente siamo stati testimoni di preoccupanti alla manipolazione e alla strumentalizzazione del ricordo.

Non è trascorso molto tempo da quando politici ed esperti militari in Germania professavano questo credo: "Giusto o sbagliato, il mio paese!". La lealtà incondizionata nei confronti della madrepatria era considerata più importante del fatto che la condotta della madrepatria fosse irreprensibile o meno. Gli insorti del 20 luglio dovettero apprendere una dura lezione: il tirannicidio da essi pianificato fu considerato dai più come tradimento ai danni della patria. Io, tuttavia, concordo con Carl Schurz, il figlio di un insegnante della città renana di Liblar, un uomo del secolo XIX, un combattente per la libertà che guadagnò profondo rispetto - non in Germania, però, ma come politico indipendente in America.  Schurz dichiarò: "Il mio paese, giusto o sbagliato; se giusto, per esser mantenuto tale; e se sbagliato, per esser rettificato".

Da molti anni a questa parte, il nostro ricordo non è più stato ispirato al criterio secondo cui la priorità è la difesa dell'onore nazionale. Non siamo più disposti a negare o a difendere violazioni e crimini commessi nel nome del nostro paese. La maggior parte di noi ha rigettato un'immagine di noi stessi quali vittime, immagine cara ai molti che negli anni del dopoguerra si cullavano nell'autocommiserazione e rifiutavano di riconoscere le sofferenze delle vittime della Germania.

Poiché oggi noi sappiamo questo: coloro che sono disposti a smettere di rimuginare sul proprio destino, renderanno sé stessi liberi. Impareranno ad osservare sé stessi sotto una luce nuova, secondo una prospettiva storica più ampia, e diverranno più sensibili alla sorte altrui.

E' pur vero che talvolta siamo spettatori di quella potrebbe esser definita come una competizione fra diversi gruppi di vittime. Ma sempre più sta diventando possibile focalizzare il nostro ricordo verso ciò che è umano, verso la preservazione e la difesa di tutto ciò che rende umane le persone; la loro dignità e la loro capacità di provare empatia.

Un frutto di questo modo di ragionare è una comprensione che trascende le frontiere fra le nazioni. Pertanto noi oggi siamo lieti di accogliere qui, nella Chiesa di Nostra Signora, ospiti dal Regno Unito, dalla Polonia, dalla Russia e da tanti altri paesi del mondo. Siamo profondamente grati e felici che voi siate qui. Grazie a tutti voi per essere venuti. Sappiate che non è vi è alcuna traccia di rancore nei nostri cuori, come non vi è nei vostri. Ci sentiamo uniti nel ricordo, ricordo che si rivolge alle vittime e al riconoscimento delle loro sofferenze. Ricordo che esprime altresì una profonda empatia, grazie alla quale possiamo avvertire ciò che accadde alle persone a causa della guerra - fossero a Londra, Varsavia, Leningrado, Dresda o Breslavia. Noi non dimentichiamo. E ci uniamo nel rivolgere i nostri pensieri e sentimenti al destino di tutte le vittime.

Un tempo le rovine della Chiesa di Nostra Signora servivano a ricordarci gli orrori della guerra. Rammento bene l'arrivo da Rostock, la visione di quel cumulo di pietre nero-grigiastre. Oggi la chiesa ricostruita è un simbolo di pace e riconciliazione.Croce di chiodi Coventry

Venticinque anni fa, Dresda chiese sostegno per la ricostruzione della Chiesa di Nostra Signora e, ammirevolmente, i nemici del tempo di guerra furono tra coloro che risposero. Venticinque anni fa il Duca di Kent, in rappresentanza della corona britannica, promise una nuova croce per la cupola della torre campanaria[2]. Dieci anni fa, una delegazione da Coventry fece dono alla comunità della Chiesa di Nostra Signora di una croce di chiodi, costituita da tre grossi chiodi da carpentiere ritrovati nelle travi della cattedrale di Coventry dopo la sua distruzione da parte delle bombe tedesche[3]. La croce così divenne davvero un simbolo di riconciliazione.

Oggi la Chiesa di Nostra Signora è un luogo in cui apprendere insegnamenti sulla pace. Il denaro necessario per la sua ricostruzione fu raccolto un po' ovunque: due terzi della somma giunsero da donatori privati da ogni parte del mondo, ma in special modo dal Regno Unito e dagli Stati Uniti d'America. Che magnifico segno di solidarietà fra le nazioni! Quale buon esito per le parole della Bibbia ripetute nella litania di riconciliazione a Coventry: "Siate gentili gli uni verso gli altri, pieni di tenerezza, pronti a perdonarvi a vicenda, come Dio in Cristo ha perdonato voi".

Ed ancora, una lezione che abbiamo appreso e sperimentato: malgrado i molteplici fallimenti, malgrado il potenziale per azioni distruttive, gli esseri umani sono creature che possono sollevarsi, dal ricordo sincero e rispettoso, verso grandi cose - umanità, comprensione e pace.

    NOTE [1] Scrittore, nato a Dresda nel 1899 e deceduto a Monaco di Baviera nel 1974. Numerosi suoi romanzi apparvero anche in Italia sin dagli anni Trenta. Ricordo, fra essi, Till Eulenspiegel, ndT. [2] La croce fu poi realizzata dall'artigiano-scultore Alan Smith, figlio di un pilota della Royal Air Force che prese parte alla distruzione della città, il quale ebbe a dichiarare: "Mio padre mi raccontava degli orrori e delle sofferenze di Dresda.  Non voleva che fossero dimenticate. Lavorando alla croce, mi sono avvicinato di più a mio padre: un modo per dirgli addio e adempiere i suoi desideri" (The Telegraph, 22 giugno 2004). [3] In realtà la croce di chiodi originale è custodita nella cattedrale di Coventry. Quella donata a Dresda è una semplice copia. Copie della croce di chiodi di Coventry sono presenti in circa 160 comunità in giro per il mondo, ndT.   Traduzione e note di Pietro Ferrari

L’anno della svolta – Fabio Calabrese

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Nel 2014, in occasione del venticinquennale della caduta del muro di Berlino, vi fu una grande abbondanza di manifestazioni, convegni, mostre, e fu per certi versi una kermesse. Io allora dissi e scrissi su “Ereticamente” un articolo che portava precisamente questo titolo, che a mio parere non vi era “Nulla da festeggiare”, perché questo evento non aveva rappresentato la vittoria dei “valori occidentali di libertà e democrazia”, quanto piuttosto semplicemente lo sfascio del comunismo, il fallimento del sistema sovietico.

“L'Occidente” era semplicemente rimasto a guardare, e poi la fine del sistema dei blocchi contrapposti non ha certo significato l'avvento di una nuova Età dell'Oro di pace e benessere. In qualche modo, i due blocchi contrapposti dell'epoca della Guerra Fredda si frenavano a vicenda, ciascuno impedendo con la sua presenza all'altro di arrivare alle conseguenze più estreme, per non incrementare oltre misura i ranghi della parte avversa.

Questo non significa, sia chiaro, rimpiangere il comunismo: se a quest'ultimo fosse arrisa la vittoria nella Guerra Fredda, non sappiamo quali scempi avrebbe potuto commettere, ma riconosciamogli almeno il merito di essere crollato, quanto meno nella variante sovietica.

I fenomeni cui abbiamo assistito da allora, tuttavia, ci fanno comprendere che la speranza che dalla fine dell'era dei blocchi sarebbe cominciata un'epoca migliore, è andata amaramente delusa: il formarsi di una fallimentare Unione Europea che si è rivelata uno strumento per depredare i popoli europei delle loro risorse a beneficio di una ristretta oligarchia di privilegiati, favorita dalla logica adottata dalle sinistre che, visto che “il socialismo” (sovietico) non ha funzionato, si sono messe a giurare e spergiurare sulla bontà del liberismo, rendendosi complici della politica capitalista di saccheggio dell'Europa.

In più oggi il nostro continente è minacciato, e l'Italia si trova proprio in prima linea, da movimenti migratori che, in concomitanza con il nostro declino demografico, prospettano la minaccia della sostituzione etnica, della nostra sparizione come popoli. Tutto ciò, deliberatamente provocato all'indomani della fine della Guerra Fredda, è un'arma potente nelle mani del potere mondialista che mira all'estinzione dell'uomo europeo (piano Kalergi).

E' persino strano che oggi si parli così poco del venticinquennale della dissoluzione dell'Unione Sovietica, senz'altro a livelli molto minori del quarto di secolo dalla caduta del muro di Berlino che è ricorso due anni fa, tanto più che per quanto riguarda l'Italia il 1991 ha segnato un considerevole rivolgimento interno, un rivolgimento che bisognerebbe davvero credere troppo nel dio delle coincidenze per non collegare al mutamento della situazione internazionale.

I Paesi dell'Alleanza Atlantica sono “a sovranità limitata” non meno di quanto lo fossero quelli del Patto di Varsavia, oggi e a maggior ragione ieri. In Italia, con lo spazio dell'opposizione ingombrato dal maggior partito comunista del mondo “occidentale”, la Democrazia Cristiana, il partito borghese egemone poteva contare su di una permanenza al potere virtualmente eterna, e che di fatto si è protratta ininterrottamente dal 1945 al 1991.

Nelle cosiddette democrazie, la gente, quel 99,9 e passa per cento della popolazione che sta fuori dalle stanze del potere, conta molto poco, ma nella sedicente democrazia italiana contava (e continua a contare) meno di nulla. Non temendo il rischio di finire all'opposizione per il proprio malgoverno, la Democrazia Cristiana ha creato il più esteso sistema di corruzione, di appropriazione della cosa pubblica, del denaro che esce dalle tasche dei contribuenti, che si sia mai visto.

Per quasi mezzo secolo, la vita politica italiana si è polarizzata intorno alla DC e al PCI. Gli Italiani votavano DC per paura del comunismo o PCI per rabbia verso la corruzione democristiana. I dirigenti democristiani e comunisti hanno capito presto la loro reciproca interdipendenza, e alla contrapposizione di facciata hanno presto affiancato la collaborazione sottobanco e la presa per i fondelli delle rispettive basi, quella che è stata eufemisticamente chiamata democrazia consociativa, in pratica il totale esproprio della volontà popolare: per chiunque il cittadino votasse, non cambiava e non contava assolutamente nulla.

Questa situazione per la Democrazia Cristiana poteva anche durare in eterno, ma per i comunisti era solo una tappa in vista della completa conquista del potere, ed è stato proprio il crollo della casa madre sovietica a fornire loro l'occasione attesa. Non solo perché agli Italiani era passata la paura del comunismo ma non la rabbia verso il sistema di corruzione democristiano, ma soprattutto per il via libera degli USA ormai non più minacciati nei loro interessi da un PCI legato a un'Unione Sovietica che non esisteva più. Una volta salvi i loro interessi, gli Italiani potevano impiccarsi all'albero che volevano.

L'offensiva comunista, dei comunisti ormai con la casacca cambiata in quella di “democratici di sinistra” assunse l'aspetto di un'azione giudiziaria. Era questo uno dei frutti del “pactum sceleris” sessantottesco che aveva portato nelle file comuniste una nutrita schiera di rampolli dell'alta borghesia che ovviamente nel frattempo avevano fatto le stesse carriere dei loro padri, e non pochi di loro avevano fatto carriera nella magistratura dove i comunisti – o sedicenti ex – godevano e godono di un'estesa rete di complicità, le famigerate toghe rosse che hanno fatto e fanno a questa nostra disgraziata Italia danni ben maggiori delle Brigate Rosse.

Essa assunse la forma di un'inchiesta giudiziaria, la ben nota inchiesta “mani pulite” o Tangentopoli, concepita per portare a un risultato preciso che non era di sicuro l'accertamento della verità su mezzo secolo di corruzione in Italia.

Il ruolo avuto dagli stessi comunisti nel sistema di corruzione italiano, ruolo che a quanto è dato di capire, non è stato affatto marginale, per prima cosa fu occultato non sempre in maniera sapiente. Ad esempio, quando il PM Tiziana Parenti si mise a indagare sulla Lega delle Cooperative, l'organo economico del PCI, fu brutalmente estromessa dal pool “mani pulite” dal procuratore (o dovremmo dire inquisitore) capo Francesco Saverio Borrelli.

La punta maggiore del grottesco di questa parodia di giustizia fu probabilmente raggiunta quando i giudici russi che indagavano sugli abusi commessi dal partito comunista sovietico con le risorse del popolo russo, vennero in Italia a portare ai colleghi italiani un dossier sui finanziamenti occulti del PCUS al PCI, non trovarono nessun magistrato italiano disposto a ricevere tale documento, e furono costretti a tornare in Russia con un nulla di fatto.

Poiché non è pensabile che tutti i magistrati italiani fossero comunisti, dobbiamo pensare che la lobby comunista dentro il sistema giudiziario fosse in grado di intimidire coloro che comunisti non erano, in perfetto stile mafioso.

C'è poi il vastissimo capitolo delle tangenti, un vero e proprio pizzo, che un qualsiasi imprenditore italiano era costretto a versare al PCI per poter fare affari con i Paesi dell'est e poi anche con la Cina. Questa è una cosa che fino al 1989-91 sapevano tutti, e poi è stata “stranamente” dimenticata.

Mentre il marcio in casa socialista e democristiana è stato messo in piazza, per quanto riguarda i comunisti, Tangentopoli è stata un'accorta operazione di occultamento dell'immondizia sotto il tappeto, in modo che i compagni “non più” comunisti potessero falsamente presentarsi come i campioni dell'onestà e della legalità.

Tangentopoli non è stata solo questo, è stata anche uno strumento in mano agli “ex” comunisti per distruggere il partito socialista di Bettino Craxi. Sicuramente i socialisti non erano estranei al sistema di corruzione in cui si era trasformata la politica italiana, ma altrettanto sicuramente non vi erano maggiormente implicati di quanto lo fossero democristiani e comunisti, questi ultimi tanto più bravi a fingere candore quanto più luridi.

Il motivo dell'accanimento delle toghe rosse verso il PSI era un altro: negli anni precedenti Craxi aveva portato avanti un tentativo niente affatto risibile di cambiare gli sclerotici equilibri politici italiani, con l'intento di strappare al PCI l'egemonia della sinistra e di costruire con essa una forza alternativa alla centralità fin allora monopolio democristiano. Arrivare insomma alla situazione tipica delle democrazie occidentali dell'epoca, dove forze centriste-conservatrici si alternavano al governo con forze socialiste o socialdemocratiche. Poiché nessuno scandalo, nessuna corruttela si poté imputare a lui personalmente, si disse che “non poteva non sapere”, asserzione che stranamente oggi non sembra toccare il nostro premier Matteo Renzi, mentre gli esponenti del partito di cui è segretario, sono di continuo sotto inchiesta per illeciti, scandali e ruberie.

A essere onesti, la Prima Repubblica ha espresso alcuni uomini non del tutto indegni, specialmente se confrontata allo squallido quarto di secolo che ne è seguito, e Bettino Craxi è stato certamente uno di questi, ricordiamo la sua difesa della nostra sovranità nazionale contro l'arroganza yankee nell'episodio di Sigonella, quando rifiutò di consegnare agli USA i dirottatori dell'Achille Lauro. Se i sedicenti ex comunisti sono riusciti a distruggerlo politicamente come sappiamo, probabilmente hanno ricevuto un via libera da Washington.

Un altro caso simile è stato quello di Aldo Moro: era notoriamente odiato dagli Israeliani per la sua politica di apertura verso i Paesi arabi, in relazione soprattutto alla non autonomia energetica dell'Italia. Ora, caso strano, è stato l'unico politico italiano di alto livello caduto vittima delle Brigate Rosse. Il discorso dell'infiltrazione dei servizi segreti nei gruppi terroristici ci porterebbe forse troppo lontano, ma quanto meno non si può non notare l'analogia con lo “strano” incidente aereo, che oggi sappiamo essere stato un attentato, che costò la vita a Enrico Mattei, anch'egli ugualmente promotore di una politica volta ad assicurare le forniture energetiche all'Italia indipendentemente dagli interessi delle “sette sorelle” petrolifere e degli USA.

Avere a cuore gli interessi dell'Italia piuttosto che quelli della mostruosità bicefala USraeliana, sembra propiziare la fine tragica e improvvisa di carriere, come nel caso del leader socialista, o di vite, come nei casi di Moro e Mattei. Che le Brigate Rosse fossero infiltrate dalla CIA mi sembra assai più che probabile, molto chiaro se si pensa al fatto che esse furono lasciate libere di agire finché si limitarono a massacrare nostri connazionali, ma furono subito spazzate via non appena toccarono un americano, il generale Dozier.

In realtà, ed è molto importante capirlo, la guerra per impedire ai socialisti o a chicchessia di modificare lo status quo italiano, era cominciata prima di prendere la via giudiziaria con Tangentopoli. All'epoca ci fu il periodo delle cosiddette giunte anomale che in realtà di anomalo non avevano nulla, ossia negli enti locali cominciarono a pullulare giunte DC-PCI emarginando i socialisti. L'idea era chiaramente quella di schiacciare il partito di Craxi come un incauto facocero che fosse andato a mettersi fra due elefanti.

Possiamo dire che era già allora iniziata quella convergenza dichiarata di comunisti e democristiani (allora non ancora sedicenti ex né gli uni né gli altri), che in seguito li avrebbe portati a generare il più gigantesco e repellente aborto della politica italiana, il cosiddetto Partito Democratico.

Il resto è storia di oggi. Il gattopardesco cambiamento del 1991 (cambiare qualcosa perché nulla cambi) fu accompagnato anche da una riforma elettorale che allora fu presentata come una panacea, il rimedio di tutti i mali, il passaggio dal sistema elettorale proporzionale a quello maggioritario.

La differenza fra i due sistemi elettorali, è che nel proporzionale si utilizzano i resti dei voti di chi non è stato eletto nei nei singoli collegi per dare un certo numero di seggi alle forze non direttamente vincitrici, in modo che l'assemblea risultante sia quanto più possibile “la fotocopia” del voto espresso, mentre con il maggioritario chi la spunta la spunta in ciascun collegio. Se per ipotesi un partito avesse il 51% dei voti in tutti i collegi elettorali e un altro il 49%, il primo avrebbe il 100% della rappresentanza e il secondo niente.

Si tratta, come è facile da capire, di un sistema meno equo di quello proporzionale, che deforma l'esito di una consultazione penalizzando le formazioni minori. Il motivo, almeno quello dichiarato, della sua introduzione, fu quello di semplificare il quadro politico e avere maggioranze parlamentari e governi più stabili.

Ciò di cui non si tenne conto, oltre all'innata italica tendenza alla litigiosità e al frazionismo, è che la nostra costituzione, “la più bella del mondo”, piena di trappole che piacciono tanto alla sinistra per aggirare e vanificare la volontà popolare, stabilisce che coloro che sono eletti, lo sono “senza vincolo di mandato”, cioè non devono rispondere agli elettori dei loro atti, possono fare quello che vogliono, anche giocare il gioco degli scissionismi più esasperati.

In più, la “democrazia interna” dei partiti e il correntismo fanno sì che il cittadino non sia mai messo di fronte a delle scelte chiare, ma possa solo firmare delle deleghe in bianco agli eletti che poi faranno quel che loro aggrada.

Non ricordo chi fu; un editorialista all'epoca fece notare un'altra probabile conseguenza dell'introduzione del maggioritario: il capetto locale con una solida base nel proprio collegio, l'avrebbe avuta facilmente vinta sull'intellettuale magari apprezzato a livello nazionale ma senza un radicamento in un preciso territorio. Avremmo avuto una classe politica più rozza e ignorante.

Una previsione tristemente confermata dai fatti. Oggi abbiamo una classe politica che per rozzezza, ignoranza e pressappochismo esce dalla media europea ed è accostabile a quelle del Terzo Mondo. A ciò va naturalmente aggiunta la corruzione, che non è stata intaccata dalla falsa moralizzazione di Tangentopoli.

L'esperienza del 1991 ci mostra una cosa con estrema chiarezza: il sistema politico italiano non è emendabile dal suo interno. L'unica via percorribile è quella della rottura rivoluzionaria.

Fabio Calabrese


Dresden, a Survivor’s Story – Pietro Ferrari

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Victor Gregg

Vi presentiamo un testo eccezionale, pubblicato da The Independent il 12 febbraio 2015. Si tratta di un brano tratto dal libro di memorie “Dresden, a Survivor’s Story”, scritto da Victor Gregg con la collaborazione di Rick Stroud (edizioni Bloomsbury). Durante l’ultima guerra Gregg militò come fuciliere nell’esercito britannico. Catturato dai tedeschi durante la battaglia di Arnhem, tentò più volte la fuga dal campo di prigionia. In seguito, non esitò ad appiccare il fuoco alla fabbrica di saponette presso cui era stato assegnato come lavorante. Esasperati dalla sua condotta, i tedeschi lo condannarono a morte e lo trasferirono in un carcere situato a Dresda. Qui, l’allora venticinquenne Victor Gregg fu testimone dell’immane tragedia che si abbatté sulla città e i suoi abitanti. Ciò che vide nella notte fra il 12 e il 13 febbraio e nei giorni seguenti lo turbò a tal punto da esserne tormentato per decenni.

The Independent, 12 febbraio 2015

Come le guardie carcerarie e la popolazione cittadina, Gregg non credeva che la città sarebbe stata bombardata; era diffuso il convincimento che gli Alleati avrebbero risparmiato il suo retaggio culturale, così come i tedeschi si erano trattenuti dall’attaccare Oxford. Ma era una supposizione infondata. Gregg  dovette essere testimone di una carneficina inimmaginabile che gli causò un persistente stress post traumatico. Sebbene egli fosse un patriota per niente pacifista, settant’anni dopo quell’evento è ancora convinto che coloro i quali ordinarono i tre giorni di bombardamenti su Dresda dovrebbero essere ritenuti colpevoli di un crimine di guerra, in quanto consapevoli della devastazione che sarebbe stata inflitta alla popolazione civile.

Dopo il raid, egli infine raggiunse le linee russe avanzanti. Questo è il suo resoconto della tempesta di fuoco.

 

Alle dieci e trenta circa di sera, le sirene si misero a suonare; poiché ciò accadeva ogni notte non vi si prestò attenzione. Ma dopo un breve periodo di silenzio, un’ondata di ricognitori cominciò a sganciare bengala. Li vedemmo attraverso una cupola di vetro: riempivano il cielo di luce accecante, fluttuavano verso terra, gocciolando fosforo incandescente sulle strade e le case.

Come in una sequenza al ralenti, i detenuti nella prigione cominciarono a rendersi conto di essere in trappola (le guardie avevano chiuso le porte e se l’erano data a gambe). Poi, il rombo di centinaia di bombardieri pesanti prese a saturare l’aria, facendosi sempre più vicino e assordante. I prigionieri battevano sulle porte delle celle supplicando che li si lasciasse uscire. Mi accovacciai accanto a una parete, più in basso che potevo. I bengala ancora cadevano quando la prima formazione ci sorvolò, sganciando migliaia di ordigni incendiari insieme alle prime bombe. Una serie [di incendiarie, ndr] colpiva il suolo in successione, come un rullo di tamburo, e il cielo passava da un bianco brillante a un rosso cupo che lampeggiava prima di spegnersi.

Quando l’interminabile formazione ci superò, quasi quattro incendiarie sfondarono il soffitto in vetro, riducendolo in pezzi e facendo a brandelli gli sfortunati che si trovavano di sotto. Il fosforo aderì ai corpi dei feriti, trasformandoli in torce umane, ma fu impossibile estinguere le fiamme e le loro urla si aggiunsero alle altre grida. Io ero ancora indenne – ma non lo sarei rimasto per molto.

All’improvviso, una “blockbuster” cadde all’esterno del nostro palazzo, abbattendo la cinta muraria (questi massicci ordigni dal rivestimento sottile potevano demolire interi isolati, di qui il nome). Fui scagliato dall’esplosione  a diversi metri di distanza  e ricoperto di calcinacci. Quando mi riebbi, realizzai che il fumo e le esalazioni provenienti dal guscio in fiamme dell’edificio venivano spazzati via da un vento che si andava gradualmente rinforzando. Incespicando fra le macerie, uscii all’aria aperta, fuori dall’edificio che stava lentamente collassando. Qui m’imbattei in pochi altri superstiti, e la prima cosa che mi colpì fu il calore. Ovunque mi volgessi, scorgevo fiamme, fumo e cenere –e dal cielo cadevano continuamente detriti. All’incirca una dozzina di individui nel nostro gruppo erano in grado di camminare o reggersi in piedi, e altri piccoli gruppi si spostavano fra i cumuli di macerie e le fiamme che, senza preavviso, sprizzavano dalle brecce nei muri.Dresden, a Survivor’s Story

Il rombo degli apparecchi si attenuò e la gente cominciò ad uscire dalle poche abitazioni rimaste in piedi. I sopravvissuti si aprivano la strada fra i mucchi di rovine che un’ora prima erano stati le loro case. Barcollammo lungo ciò che restava di un ampio viale, fiancheggiato da incendi e montagne di macerie roventi (fui salvato dalle suole di legno delle mie calzature, così spesse da permettermi di camminare sulle ceneri infuocate). Infine giungemmo in campo aperto, nei pressi della linea ferroviaria. In cerca di salvezza, vedemmo un altro gruppo avvicinarsi: si trattava di due dozzine di vigili del fuoco, con un carro pieno di picconi, badili, secchi, funi arrotolate e bidoni d'acqua potabile. Il capo ci mise subito in riga, scelse quelli che parevano idonei e ci fece mettere in marcia, lasciando i feriti a badare a sé stessi.

Non tutti gradivano di essere consegnati come combustibile alla fornace distante meno di 500 metri. Ma quando tre uomini esitarono, il nostro capo si girò, estrasse la pistola e sparò a due di loro a bruciapelo (il terzo si mise a correre più forte che poté). Ed eccoci lì, in una trentina, guidati da un tedesco la cui soluzione ai problemi consisteva nel prima sparare, poi porre domande.

Da principio trovammo persone che erano state sorprese all'aperto ed erano ancora vive. Fissando pezzi di legno ai picconi e ai badili, costruimmo delle barelle e li trasportammo via. Ma dopo due ore, ritornammo alla ferrovia dove scoprimmo dei rinforzi e un vagone carico di cibo che era stato inviato in qualche modo da Dio sa dove. Poi le sirene lanciarono di nuovo il loro terribile urlo  e le persone si strinsero in piccoli gruppi, quasi a volersi far scudo dall'attacco le une con le altre.

Gli aerei volavano a migliaia di piedi sopra di noi, ma si potevano scorgere i loro contorni  stagliarsi nel bagliore. Le nuove bombe erano talmente grandi da poterle vedere nel cielo. Persino le incendiarie erano differenti - non cilindri lunghi un metro, ma ordigni da quattro tonnellate che esplodevano nell'impatto al suolo, incenerendo ogni cosa nel raggio di sessanta metri - e insieme a questi caddero altre blockbuster, questa volta da dieci tonnellate.

Appena cinquecento metri di terreno aperto ci separavano dall'epicentro del primo raid. Potevamo avvertire il calore tremendo, i nostri corpi erano scossi mentre il suolo vibrava. E come se ciò non bastasse, un altro orrore fece sentire la sua presenza: non esattamente quel che si potrebbe definire vento, piuttosto, l'aria veniva aspirata ad alimentare l'inferno come se fosse un oggetto solido, talmente immensa era la sua forza.

Il secondo raid si stava svolgendo da quindici minuti quando il suolo eruttò in enormi nubi di fumo e fiamme, e immediatamente dopo le esplosioni, venne quella tremenda aspirazione allorché l'aria affluì nel vuoto creatosi. Ma il nostro capo sembrava impaziente di riportarci nella fornace una volta che i bombardieri se ne fossero andati, cosa che fecero trenta minuti più tardi. Anche se erano rimasti dei ritardatari in cielo, ora era l'azione sul terreno a contare. Tutto bruciava, persino le strade, che erano fiumi ardenti di bitume ribollente e sibilante. Grossi detriti volavano nell'aria, risucchiati nel vortice. Potevamo vedere persone strappate a qualsiasi cosa fossero aggrappate e aspirate nel globo rosso fuoco in costante espansione a meno di duecento metri da noi. Un piccolo gruppo cercò di raggiungerci attraversando quella che un tempo era stata una strada, solo per ritrovarsi intrappolato in un impasto di catrame disciolto ribollente. Uno ad uno, caddero al suolo esausti e morirono nel rogo, tra il fumo e le fiamme. Individui di tutte le taglie, d'ogni età e costituzione furono lentamente risucchiati nel vortice, quindi gettati di colpo nelle colonne di fumo e fuoco, coi vestiti e i capelli in fiamme.

E come se il Diavolo in persona avesse deciso che i loro tormenti non erano sufficienti, sopra l'ululato del vento e il ruggito dell'inferno di fuoco, risuonavano le interminabili grida d'agonia delle vittime che arrostivano vive.

Ciò che ci salvò fu il fatto di trovarci in uno spazio aperto con ossigeno da respirare. Siccome gli incendi stavano peggiorando, abbandonammo - per il momento - ogni idea di avvicinarci al centro cittadino. Era un mare di fiamme che salivano verso un cielo denso di fumo. E mentre l'aria si faceva così rovente che inalarla provocava dolore, ci ritirammo in un luogo sicuro. All'alba, vedemmo che altri gruppi erano sopraggiunti per colmare i crateri e riposizionare i binari, ed entro metà mattina un piccolo convoglio di vagoni ci passò accanto.  Dovemmo consegnarne il carico ai crucchi: la prima cosa cui pensarono fu di riempirsi lo stomaco, e in mezzo c'era un vagone-cucina, con tanto di minestra calda, pane nero e un fusto da quaranta galloni del loro surrogato di caffè.

Dopo aver mangiato, circa 40 di noi arrancarono fra le braci sobbollenti che bordavano l'immenso rogo che ancora infuriava dappresso. Mentre altri gruppi scavavano fra i cumuli di mattoni, aprendo passaggi, noi fummo incaricati di individuare le cantine. Ma proprio allora cominciò il terzo raid. Ora era il turno degli americani, e le aree prospicienti alla linea ferroviaria erano i loro obiettivi. Ciò fece si che quelli che erano riusciti a fuggire in precedenza ricevessero ora il medesimo trattamento. E sebbene gli americani sganciassero bombe molto meno distruttive dei britannici, molti di più furono uccisi.

Quando l'incursione finì, continuammo con le cantine, forzandone gli ingressi con picconi e palanchini. All'interno, rinvenimmo i  cadaveri delle vittime, di solito rattrappiti sino a ridursi alla metà delle proprie dimensioni o peggio (i corpi dei bambini sino a quattro anni si erano semplicemente fusi). Molti però sembravano essere morti tranquillamente, per mancanza d'ossigeno, perdendo conoscenza.

Trascinammo i loro resti all'aperto, dove furono esaminati per l'identificazione e in seguito impilati in attesa della cremazione - e questa doveva rivelarsi la parte più facile. Persino i più duri fra noi vacillarono quando raggiungemmo l'epicentro del raid, in cui gli incendi più feroci avevano imperversato. Prima però ci diedero da mangiare a da bere, e potemmo riposarci in un paio di vecchie carrozze ferroviarie che gigantesche gru avevano sollevato fuori dai binari.

Il terzo giorno, ovunque guardassi vedevo gruppi di una dozzina di uomini al lavoro;  e fu quando raggiungemmo il centro storico che cominciò il compito più terribile.

Alcuni dei cadaveri erano  così friabili che si sbriciolavano in nubi di cenere e carne disseccata. Eppure i tedeschi erano così metodici da ordinarci di collocare in sacchi qualsivoglia frammento identificabile di questi cadaveri. Ci chiedevamo se il successivo giorno di lavoro potesse mai rivelarsi peggiore. Ma quando ci veniva ordinato di passare al setaccio un settore dove c'era la possibilità di trovare dei sopravvissuti, la notizia ridava nuova vita al gruppo.

Fummo assegnati a un piccolo piazzale; dove prima cresceva l'erba ora c'era un tappeto di cenere e i primi tre rifugi che scoperchiammo erano vuoti. Ulteriori ricerche all'interno del terzo, tuttavia, rivelarono l'esistenza di un tunnel, ostruito da un soffitto crollato, che conduceva a un altro rifugio. Quando aprimmo una breccia e trovammo quattro donne e due ragazzine vive,  esultammo. Ci sentivamo come eroi - non c'erano nemici né odio, solo un senso di soddisfazione.  Purtroppo però, questo fu un episodio isolato, come scoprimmo nei giorni seguenti.

Arrancando lungo strade in cui lingue di fiamma sprizzavano ancora sin quasi a cento metri d'altezza, giungemmo all'ingresso di un rifugio pubblico, che impiegammo tutto il pomeriggio ad aprire. Al primo spiraglio, udimmo un suono sibilante e la polvere circostante fu risucchiata nell'apertura. Poi, non appena la breccia fu ampliata, fummo colpiti da un lezzo terribile - e pian piano l'orrore che giaceva all'interno si manifestò.

Non c'erano veri e propri cadaveri integri, solo ossa e brandelli di indumenti bruciacchiati sul pavimento, appiccicati insieme da una sorta di gelatina. Ora capimmo quel che avremmo potuto trovare nei rifugi del centro. Io però non ero destinato a questo. Quella sera, mi fu detto che sarei dovuto tornare in prigione - così mi allontanai alla chetichella, attraversai il ponte e mi diressi verso est per raggiungere i russi.

Ho omesso parecchie cose. Spesso, sono colto da vaghe reminiscenze di cui nulla poi rimane. Tutto è stato sopraffatto dai compiti raccapriccianti che eseguimmo. E' l'orrore ad essere rimasto impresso nella mia memoria. E come gli incendi di Dresda, sembra impossibile da spegnere.cCiò

Victor Gregg, “Dresden, a Survivor’s Story”.

Nel Bunker… prima le donne – Andrea Andrighetti

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Impianto di ventilazione, filtrazione e rigenerazione  dell'aria della S.A.A. Marelli.

Nella prima metà del XX secolo in Italia e in Europa sono stati progettati e costruiti vari rifugi antiaerei in cemento armato, rispondenti a criteri anti bomba e “antigas”. Si ricorda che in Italia i rifugi erano generalmente denominati «ricoveri» nei documenti ufficiali, in quanto si riteneva che questa parola risultasse meno allarmante e più rassicurante alle orecchie della gente. Bastava poi non far sapere con esattezza quali fossero gli effetti delle bombe d’aereo di grosso calibro e limitarsi a parlare solo di bombe da 50 e 100 chilogrammi.

Dal 1943 al 1945 a Milano si costruirono alcuni “bunker” e uno lo si realizzò in Via Bernardino Luini, per l’esattezza al di sotto del cortile del Museo Archeologico (Civiche Raccolte Archeologiche e Numismatiche), destinandolo al Comando del 52° Corpo dei Vigili del Fuoco. Ed è rimasto “in carico” fino agli anni Cinquanta, probabilmente a causa della così detta “guerra fredda”; fredda sì, mai dai caldi risvolti.

Due grandi rifugi si costruirono in Piazza del Duomo e in Piazza San Fedele, destinati all’uso pubblico e per altro ancora incompleti al temine del conflitto.

Oggi rimangono in evidenza, letteralmente parlando, cinque rifugi antiaerei di tipo speciale in elevato: il grande “rifugio a torre” della Magneti Marelli in Via Adriano, la più piccola Torre delle Sirene della Prefettura e gli analoghi, ma più bassi e tozzi, tre rifugi dell’Industria Meccanica Piaggio oggi Caserma 3° CE.RI.MANT, che si affacciano su Via Riccardo Pitteri.

Sempre ad uso della “Regia” Prefettura si costruì anche un curioso bunker a due piani, uno sotterraneo per il Prefetto e quello soprastante, seminterrato, per la Provincia di Milano. Varcando le porte blindate e percorrendone le stanze si possono vedere i resti degli impianti di aerazione, filtrazione e rigenerazione dell’aria prodotti della Società Anonima Aeromeccanica Marelli. Ci si accorgerà che il passo si è fatto cauto, perché si sta camminando sulla storia di una Milano d’altri tempi, ma tutt’altro che scomparsa.

Il libro scritto da Padovan, BUNKER. Il grande monolite di cemento armato tra Prefettura e Provincia di Milano, documenta questa insolita struttura e ne ripercorre le vicende edilizie e storiche. I documenti d’epoca riportati nel testo sono inediti e le foto a colori danno l’idea di cosa ancora si celi nel buio più assoluto, chiuso da pesanti porte “antiscoppio” della Ditta Fichet di Torino.

Impianto di ventilazione, filtrazione e rigenerazione  dell'aria della S.A.A. Marelli.Una circolare del 24 luglio 1943, firmata dal Preside della Provincia di Milano, spiega come disciplinare l’accesso al Bunker in caso d’allarme, sottolineando che prima dovevano accedervi le donne: «Al primo segnale d’allarme tutto il personale femminile appartenente all’Amministrazione Provinciale e agli altri Enti che hanno sede nel Palazzo Provinciale affluirà al ricovero blindato sotto la sorveglianza della Sig.na Faruffini e in sua assenza della Sig.ra Galimberti Borioli, mentre tutto il personale maschile rimarrà al posto di lavoro, salvo quella parte di esso che è incaricato di portare le carte, i documenti, i registri od altro materiale di particolare importanza nell’apposito ricovero sottostante l’atrio principale di Via Vivaio. Al segnale di imminente pericolo (suono prolungato della campana d’allarme sita nell’atrio scala principale) anche il personale maschile lascerà il lavoro».

Ma non si parla solo di Bunker: Mussolini vi transitò quel 25 aprile e qualcuno, successivamente, fece sparire in un impeto di damnatio memoriae i fregi del ventennio, ma pure alcuni stemmi rinascimentali e medievali. Eppure qualcosa, a dispetto dei passati eventi, è recentemente emerso dalla collinetta artificiale che sovrasta due degli ingressi al “monolite”.

Il Bunker rimane il testimone di un’epoca e come tale deve indurre a profonde riflessioni sulla stessa, in primo luogo per evitare che si torni ad un nuovo stato di guerra. Buona lettura.

    Autore:           Gianluca PadovanCOVER_BUNKER_LOWRES-page-001 Titolo              Bunker. Il grande monolite di cemento armato tra Prefettura e Provincia di Milano Editrice:          Lo Scarabeo Editrice Milano Formato:         24 x 17 cm Copertina        brossura Pagine:            80 (104) Inserto            24 pag. d’immagini a colori fuori testo Prezzo             € 20,00  

Dublino, 24 aprile 1916. Un popolo mai domato. Una fiera identità. Una rivolta per affermarla – Maurizio Rossi

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“Al momento della resa, l’insurrezione del 1916 è sembrata un fallimento, ma quello sforzo eroico e il martirio che lo ha seguito hanno infine svegliato lo spirito dormiente d’Irlanda.”

(Michael Collins)

   

Un popolo meno orgoglioso e meno tenace di quello irlandese non sarebbe sopravvissuto a secoli di soprusi e di angherie perpetrati con tanta metodica ferocia dall’occupazione colonialista di una potenza straniera. Alla fine avrebbe piegato la testa e riconosciuta la sconfitta, si sarebbe allora adeguato, si sarebbe sottomesso, avrebbe obtorto collo accettato la ferale logica del meglio schiavi che morti. Non però gli irlandesi.

I loro stessi antenati avevano già posto vittoria e sconfitta sullo stesso piano, ciò che aveva davvero importanza era soltanto la possibilità di poter continuare a sollevarsi e a combattere.

La strada della libertà sarebbe stata lunga e dolorosa.

In tutti questi secoli, gli irlandesi accolsero quindi con gioia e disperazione ogni occasione per farlo. Il dolore li aveva resi forti.

Pesanti politiche discriminatorie, l’utilizzo sistematico della violenza repressiva e dell’umiliazione, unite ad interventi di autentico e scientifico genocidio culturale avevano da tempo immemore caratterizzato la brutalità della dominazione britannica dell’Isola verde. Perfino lo statista italiano Camillo Benso Conte di Cavour giunse a commiserare le tristi condizioni in cui versavano gli irlandesi: Il contadino irlandese fu ridotto in uno stato selvaggio peggiore del negro delle Antille, gli era più difficile ottenere giustizia da un giudice protestante di quanto non possa oggi uno schiavo delle colonie francesi ottenerne dal magistrato della metropoli.

D’altronde, in quale altra maniera potrebbero essere definite le misure che vennero adottate con prassi chirurgica dagli inglesi per annientare l’identità di un popolo; proibendo la sua tradizione e il suo credo religioso; imponendo la sostituzione di usi e costumi con quelli dell’occupante; negando perfino il diritto ad esprimersi nella propria lingua, il gaelico, sapendo bene che la lingua è lo strumento con cui viene tramandata la cultura di un popolo; come qualificarli, se non come atti deliberati di genocidio culturale?

Scrisse nel 1920 il nazionalista irlandese Terence Mac Swiney: Quando l’Irlanda sarà completamente libera, l’Irlanda sarà tutta gaelica. Quando l’Irlanda sarà tutta gaelica, sarà completamente libera. Terence Mac Swiney morirà di fame in un carcere inglese, vittima sacrificale di uno sciopero della fame di protesta.

Più di cinquant’anni prima di Long Kesh.

Narrava una antica leggenda che la genesi della storia dell’Irlanda risiedesse in una mitica stirpe solare discesa dal cielo, che nel luogo iperboreo di Avallon aveva affinato le sue vaste conoscenze sovrannaturali che portò in Irlanda , manifestando una tale superiorità nella sapienza e nel sapere che la indusse a scontrarsi e a sconfiggere le oscure nature elementari e telluriche dei Fomori, imponendo, così, la legge olimpica e solare e una dinastia sacrale e guerriera.

Questa stirpe eroica, i cui campioni manifestavano caratteristiche riconducibili alla figura dell’Eracle dorico, era quella dei Tuatha dé Danann.

Con buona probabilità anche questa narrazione, come quasi tutte le leggende, andava a poggiare su un fondo di verità al momento in cui, con il rimando ad ancestrali origini, riconduceva i Tuatha dé Danann all’evento delle grandi migrazioni delle genti indoeuropee. In tale contesto i Gaeli, appartenenti alla vasta Koiné celta integralmente compresa nella famiglia delle stirpi di matrice indoeuropea, costituirono l’ondata che investì la parte occidentale e insulare dell’Europa sommergendo il substrato neolitico precedente.

In questa storia, dove spesso e volentieri le cronache e le narrazioni si intrecciavano con leggende, miti e ballate, gli irlandesi hanno sempre orgogliosamente attinto a piene mani. D’altronde in Irlanda i riferimenti alle origini da cui discende la loro tradizione popolare e culturale, anche quando vengono rievocati eventi storici o pseudo tali, inevitabilmente portano ad una narrazione mitica, ad una particolare manifestazione della profonda anima irlandese, dove le eventuali sottili distinzioni tra il reale e il fantastico, l’agone umano e la dimensione divina, perdono assolutamente di importanza.Ireland_007

Non per ultimo, la stessa figura dal sapore quasi mitologico di San Patrizio. Prima di lui l’Irlanda era celta e pagana, dopo di lui, rimase celta, ma cristianizzata senza però perdere la sua anima.

Il druidismo, la trasmissione sapienziale del significato degli Ogam, le narrazioni eroiche dei Clan guerrieri e lo specifico simbolismo della croce celtica si fusero sincreticamente nel cristianesimo attraverso la persona di San Patrizio e grazie alla diffusione della scrittura fecero in modo di trasmettere, in maniera integrale, la storia mitologica ed epica dell’Irlanda dando luogo alla fioritura di una ricca letteratura nazionale in speciale modo gaelica.

Eroi epici diventeranno Eroi nazionali come la leggendaria figura di Cuchulainn eroe guerriero dai tratti semidivini. Impavido, generoso e irruento, temibile in battaglia quando veniva posseduto da un sacro e terribile furore belluino.

Figura principe della tradizione letteraria irlandese e particolarmente vicina al cuore del popolo irlandese, basti pensare che a Dublino un monumento dell’artista Oliver Sheppard, voluto a ricordo degli eroi morti in occasione della Pasqua di sangue del 1916 e collocato all’interno del General Post Office – che fu il quartier generale degli insorti – raffigura proprio l’agonia dell’eroe epico Cuchulainn.

Cuchulainn, l’eroe posseduto da una sacrale psicopatia capace di misurarsi nelle prove più difficili e ben presente nel ciclo della letteratura epica dell’Ulster, seppe pienamente rappresentare tutto l’ardore e tutta la passionalità che hanno sempre contraddistinto l’irrequieta identità nazionale irlandese, manifestando al contempo una rigorosa aderenza ai principali canoni dell’universo spirituale indoeuropeo.

L’orgoglioso attaccamento identitario irlandese non avrebbe potuto fare a meno nemmeno di questi riferimenti e se la forma del riconoscimento identitario, con il tempo, apparirà sempre più rarefatta in Eire, la repubblica del Sud, continuerà invece a manifestarsi prepotentemente proprio nell’Ulster, nelle sei contee occupate del Nord.

Ireland_009Nel periodo precedente l’inizio della prima guerra mondiale nel Regno Unito divampava una acuta crisi istituzionale, nella quale si evidenziava come motivo centrale l’incandescente «questione irlandese».

La Gran Bretagna aveva stabilito di rinforzare le guarnigioni militari di stanza in Irlanda, ufficialmente per meglio difendere i depositi di armi e di munizioni da eventuali insurrezioni irredentiste. Oramai la situazione interna irlandese si era ancor più incancrenita nel conflitto tra nazionalisti e unionisti, un conflitto risalente ai tre secoli precedenti e che si era drammaticamente aggravato nel secolo precedente.

Gli unionisti, protestanti anglicani e presbiteriani connotati da un forte senso di appartenenza all’Impero britannico, si fronteggiavano sempre più spesso armi alla mano con i nazionalisti irlandesi, prevalentemente repubblicani e cattolici e radicali nel rivendicare l’indipendenza e la sovranità nazionale.

Nel tessuto politico del nazionalismo irlandese erano già presenti movimenti politici come l’Irish Parliamentary Party e l’Irish Republican Brotherhood, ma sarà la nascita nel 1906 di un nuovo movimento politico, il Sinn Fein, caratterizzato da un senso d’identità maggiormente marcato e da un precisa volontà di risveglio culturale gaelico a dare nuovo entusiasmo all’irredentismo nazionalista. Altresì il panorama nazionalista andava anche arricchendosi di formazioni paramilitari di autodifesa come l’Irish Citizen Army e l’Irish Volunteer Force.

Le differenze fra le due formazioni vertevano sugli orientamenti politico-sociali che le contraddistinguevano: la prima era connotata da un forte indirizzo sindacalista e reclutava principalmente tra i lavoratori salariati e i disoccupati, mentre la seconda faceva riferimento al mondo contadino e al bracciantato agricolo e aveva solidi agganci con le gerarchie ecclesiastiche cattoliche.

Anche gli unionisti protestanti non rimasero con le mani in mano e dettero vita alla loro milizia armata, l’Ulster Volunteer Force, direttamente addestrata e armata dagli ufficiali britannici.

Sarà Winston Churchill, in quegli anni primo Lord dell’Ammiragliato, tra i più duri sostenitori della necessità dell’utilizzo della forza bruta congiunta delle milizie paramilitari unioniste con l’esercito inglese per ripristinare la «legalità» in Irlanda minacciata dall’attivismo nazionalista repubblicano.

D’altronde i nazionalisti irlandesi non volevano più mordere il freno e saranno sempre più convinti dell’urgenza di dovere prendere l’iniziativa, e nel loro linguaggio «iniziativa» faceva necessariamente rima con insurrezione.

Già nel 1914, Padraigh Pearse, leader dell’Irish Republican Brotherhood, aveva annunciato agli irlandesi emigrati negli USA che: Non so quando, né come, i volontari irlandesi andranno contro l’Inghilterra, ma so che ciò avverrà un giorno, perché l’Irlanda riprenderà la nobile attività delle armi e lo si capirà quando si sentirà per le campagne il passo pesante delle legioni in marcia.

Troppe erano state le angherie che, per secoli, intere generazioni di irlandesi avevano dovuto subire e in taluni casi anche sopportare e l’avvilente risultato delle estenuanti e fallimentari trattative che i politici repubblicani avevano tentato di intavolare con gli inglesi al fine di giungere ad una piattaforma comune ragionevole e soddisfacente per entrambe le parti, sulla questione territoriale dell’Irlanda, li convinse dell’inutilità della trattativa, alla fine lesiva esclusivamente degli interessi dei patrioti irlandesi.

La pratica riformistica era ormai giunta ad un guado che non era più in grado di attraversare, l’unica opzione disponibile e ancora spendibile risiedeva nell’uso delle armi e nella rivoluzione.Ireland_008

La data della sollevazione armata venne stabilita in occasione della Pasqua del 1916.

I più irriducibili nazionalisti insorgeranno il 24 aprile a Dublino, guidati dalle carismatiche figure del poeta del risveglio gaelico Padraigh Pearse e dai leaders nazionalisti e sindacalisti Michael Collins e James Connolly, quest’ultimo introdusse nell’irredentismo identitario interessanti elementi di critica sociale che portarono alla formulazione di una piattaforma politica al contempo nazionalista e socialista.

Dettero vita all’IRA, l’Irish Republican Army – chiamata in gaelico Oglaigh na hEireann – che in breve tempo divenne l’unica, seria e organizzata formazione di combattimento del nazionalismo irlandese, strutturata in brigate e battaglioni e proclamarono la libera Repubblica d’Irlanda, il cui manifesto politico venne pubblicato sia in gaelico, sia in inglese: Uomini e donne d’Irlanda, nel nome di Dio e delle generazioni scomparse da cui essa deriva la sua antica tradizione nazionale, l’Irlanda per mezzo nostro chiama i suoi figli sotto le sue bandiere e lotta per la sua libertà(…) Noi proclamiamo il diritto del popolo irlandese al possesso della sua terra e al pieno controllo del destino dell’Irlanda, diritto sovrano e inviolabile. La lunga usurpazione di questo diritto da parte di un popolo e di un governo stranieri non lo ha estinto, né potrà mai estinguerlo se non con la distruzione del popolo irlandese. A ogni generazione il popolo irlandese ha riaffermato il suo diritto alla libertà e alla sovranità nazionale: sei volte nel corso dei tre secoli passati, lo ha affermato con le armi.(…) In quest’ora suprema la nazione irlandese deve, col suo valore e la sua disciplina, e con la prontezza dei suoi figli, a sacrificarsi per il bene comune, dimostrarsi degna dell’augusto destino cui è chiamata.

La proclamazione dell’insurrezione nazionale legittimata dai punti programmatici espressi nella Dichiarazione della Repubblica d’Irlanda rappresentò un salto di qualità per l’irredentismo irlandese e proprio per tale motivo verrà giustamente considerata una pietra miliare nella storia del movimento repubblicano e nazionalista irlandese.

Un riferimento imprescindibile per i suoi postulati ideali e le sue concrete rivendicazioni, che evidenziarono la raggiunta maturità politica nello sviluppo di una piattaforma unitaria per il nazionalismo combattente irlandese finalmente consapevole delle sue enormi potenzialità e forte della sua manifestazione identitaria: concetti come sovranità nazionale, autodeterminazione politica, sviluppo sociale autonomo e risveglio culturale gaelico, anima della tradizione popolare, saranno dal 1916 in poi granitiche architravi nel patrimonio di lotta dei patrioti irlandesi.

All’indomani della proclamazione di indipendenza le autorità di occupazione britanniche, comandate da Sir John Maxwell, proclamarono la legge marziale mettendo sotto assedio Dublino e dando inizio ad una violenta e feroce repressione fatta di esecuzioni sommarie e bagni di sangue indiscriminati.

L’inferno in versione inglese calava inesorabile sull’Irlanda.

Gli insorti resistettero per una settimana prima di venire schiacciati dall’esercito inglese preponderante in uomini e mezzi, vennero contati più di 500 morti, in maggioranza civili vittime dei cannoneggiamenti dell’artiglieria inglese.

Gli insorti furono costretti a cedere le armi e ad arrendersi. Oltre ai patrioti combattenti che si erano arresi, gli Inglesi procedettero a rastrellare e ad arrestare tutti quei patrioti considerati dalle autorità militari britanniche come nazionalisti irlandesi radicali, che avessero o meno, partecipato alla rivolta – vennero rinchiusi circa 3.500 irlandesi nella sola città di Dublino – e cominciarono a fucilare sommariamente i leaders dell’insurrezione, tra i quali figuravano i sette firmatari della Proclamazione della Repubblica: Thomas Clarke, Sean Mac Diarmada, Thomas Mac Donagh, Padraigh Pearse, Eamann Ceannt, James Connolly e Joseph Plunkett.

Lo stillicidio delle esecuzioni capitali e la brutalità repressiva del Governo britannico fecero inorridire l’opinione pubblica dell’intera Irlanda, che inizialmente aveva considerato l’insurrezione come una impresa disperata, salvo poi comprenderne la necessità politica e apprezzandone poi la generosità del gesto e del sacrificio.

Dei capi si salvarono solo Eamon De Valera che venne graziato perché dimostrò di essere in possesso della cittadinanza statunitense e Michael Collins che probabilmente non venne riconosciuto come tale e fu pertanto rimesso in libertà.

La popolazione irlandese, all’indomani della fine sanguinosa della effimera repubblica, abbracciò con rinnovato entusiasmo la causa indipendentista e riversò le proprie speranze nel giovane movimento Sinn Fein che diventerà con l’adozione di una accorta strategia il punto di riferimento di una nuova alleanza tra il nazionalismo irredentista e la Chiesa Cattolica, trascinandosi dietro anche quei settori della sinistra irlandese che, costretti dagli eventi, dovettero mutare la loro impostazione con ardenti professioni di fede nel nazionalismo e nel cattolicesimo.

Nel frattempo venne ristabilita la pax britannica in Irlanda.

Le cause del fallimento della rivoluzione furono oggetto di una attenta analisi da parte degli ambienti nazionalisti che maturarono la convinzione che il dominio britannico dovesse essere battuto, non soltanto con l’uso delle armi, ma anche sul terreno legalitario e istituzionale, ovvero quello politico ed elettorale.

Il Sinn Fein dovette attrezzarsi per potersi misurare sul campo, ampliare la fascia di consensi e impegnarsi a vincere le future consultazioni elettorali che gli inglesi avrebbero sicuramente indetto. Una campagna elettorale che si sarebbe prospettata dura e improntata sulla richiesta del rilascio dei prigionieri politici irlandesi e su rivendicazioni di carattere politico e sociale. Avvenne anche la nomina di Eamon De Valera a presidente del Sinn Fein.

Come previsto nel 1918 si svolsero le elezioni politiche che videro la schiacciante affermazione del Sinn Fein, il movimento nazionalista conquistò ben 73 seggi contro i 26 raccolti dagli unionisti protestanti. Pochi mesi dopo, nel gennaio del 1919, gli eletti nazionalisti si rifiutarono di recarsi alla Camera dei Comuni a Westminster e forti della maggioranza incontrastata conseguita nelle elezioni e del vasto sostegno popolare costituirono il Dail Eireann, ovvero il libero parlamento irlandese che come primo e significativo atto proclamava l’indipendenza dell’Irlanda dalla Gran Bretagna e nominava il governo provvisorio della Repubblica irlandese con alla guida proprio Eamon De Valera: Noi, rappresentanti eletti del Popolo Irlandese, riuniti in Assemblea nazionale: considerato che il Popolo Irlandese è di diritto un popolo libero; considerato ch’esso non ha mai cessato durante 700 anni di ripudiare l’usurpazione straniera e che l’ha più volte respinta con le armi; considerato che il Governo inglese, in questo paese, è fondato oggi, come sempre durante il passato, sulla forza e sulla frode e che si sostiene per mezzo dell’occupazione militare malgrado la volontà dichiarata del popolo; (…) ratifichiamo, in nome della Nazione irlandese, la Costituzione della Repubblica d’Irlanda e ci impegniamo, noi e i nostri cittadini, a rendere questa dichiarazione efficace con tutti i mezzi in nostro potere; (…) dichiariamo solennemente che il Governo dell’Irlanda da parte di una potenza straniera è un attentato al nostro diritto nazionale, che non tollereremo mai, ed intimiamo alle guarnigioni inglesi di evacuare il nostro paese; (…) invochiamo la benedizione divina su quest’ultima tappa della lotta che noi siamo impegnati a condurre fino alla libertà.

L’indignata e furibonda reazione della Gran Bretagna non si farà attendere.

Sarà, quindi, di nuovo guerra in Irlanda, ma sarà anche una sporca e crudele guerra.

Per due anni, tanto durò, l’esercito inglese godette di carta bianca, ogni sopruso anche il più disgustoso gli venne perdonato, ogni impunità gli venne garantita.

Fu una guerra al massacro che venne combattuta senza onore dagli inglesi, che si resero responsabili di una serie incredibile di crimini e di violenze gratuite, comprese le sadiche torture e gli innumerevoli stupri consumati.

Si trattò di una autentica pulizia etnica, consumata deliberatamente dai militari inglesi, contro l’inerme popolazione irlandese, contro donne, vecchi e bambini.

In queste atrocità si distinsero gli aguzzini dei reggimenti di Sua Maestà Black and Tans, unità militari inglesi composte da assassini, sadici e viziosi che con le loro feroci rappresaglie colpivano prevalentemente la popolazione civile; furono così disgustosamente efficienti che spesso e volentieri venivano persino encomiati, dagli ufficiali inglesi, per ogni maschio irlandese che assassinavano e per ogni donna irlandese che violentavano.

A fronte di tutto questo i combattenti dell’IRA, l’Esercito Repubblicano Irlandese, guidati da un veterano dell’indipendentismo, Michael Collins, risposero con la guerriglia e il terrorismo. Poche migliaia di combattenti dell’IRA fronteggiarono con un coraggio inaudito e con un discreto successo oltre 60.000 soldati britannici e circa 15.000 gendarmi della polizia collaborazionista unionista, la Royal Irish Constabulary.

Con spregiudicate incursioni guerrigliere condotte dalle colonne volanti e l’avvio di una campagna terroristica condotta su larga scala contro le installazioni militari, le unità combattenti dell’IRA organizzate in brigate e battaglioni riuscirono, pur pagando un elevato prezzo in perdite umane, a contenere i rastrellamenti e le rappresaglie e a infliggere duri colpi all’esercito inglese, fiaccandone il morale, nella quasi totalità del territorio irlandese.

Solamente nelle regioni del nord-est, corrispondenti alle contee di Antrim, Down, Derry, Armagh, Fermanagh e Tyrone, le operazioni dell’esercito repubblicano, purtroppo, dovettero segnare il passo, per il semplice fatto che, oltre a fronteggiare l’esercito inglese, si trovarono costretti a dovere reggere l’urto dell’offensiva scatenata dai paramilitari unionisti dell’UVF, l’Ulster Volunteer Force,  estremamente motivati, ben radicati e organizzati in quelle zone e avvantaggiati dalla protezione politica degli orangisti.

Gli unionisti lanciarono la loro milizia contro la popolazione civile cattolica, promuovendo anch’essi operazioni di pulizia etnica, dei veri pogrom contro i cattolici, considerati dagli unionisti come certi simpatizzanti dei nazionalisti.

L’obbiettivo perseguito dai paramilitari unionisti dietro indicazione strategica degli orangisti era quello di costringere, con il terrore, le famiglie cattoliche ad abbandonare definitivamente le proprie abitazioni e quei territori. All’indomani di una campagna di violenze terroristiche, condotta dall’UVF, vi furono più di ventimila profughi cattolici nella sola area di Belfast.

Pertanto, in quelle contee, l’IRA fu costretta a cambiare strategia e a concentrare i suoi sforzi nell’organizzazione della difesa dei quartieri e degli agglomerati cattolici contro le scorrerie dei paramilitari unionisti sostenuti dai reparti britannici.

La deplorevole e in fin dei conti fallimentare condotta della guerra da parte dei vertici militari britannici e le efferate violenze delle milizie unioniste produssero effetti negativi sull’opinione pubblica inglese, oltre che minare il prestigio mondiale della Gran Bretagna, anche grazie ad una accurata opera di controinformazione giornalistica avviata dalla comunità degli emigranti irlandesi che si era stanziata negli Stati Uniti.

Gli irlandesi emigrati negli USA, organizzati tra loro nella Clann na Gael, oltre che inviare denaro e armi ai combattenti irlandesi, riuscirono con iniziative di denuncia e di sensibilizzazione a coinvolgere la stampa nord-americana e di riflesso anche quella estera, in una vasta campagna che spiegasse la reale situazione in cui versava la popolazione irlandese e le sue legittime richieste di indipendenza.

Una serie di circostanze avverse che spinsero Re Giorgio V a fare pressione su il primo ministro Lloyd George affinché avviasse un negoziato con i nazionalisti per giungere alla fine delle ostilità nella forma più onorevole per la Gran Bretagna.

I negoziati giunsero a buon fine il 6/12/1921 con la firma dell’armistizio da ambo le parti, e con l’accettazione da parte del Dail Eireann di alcune condizioni, poste dal Governo inglese, che molti irlandesi giudicheranno più che umilianti: l’abbandono delle sei contee del nord-est alla Gran Bretagna e la fine delle pretese irlandesi su di esse, il riconoscimento, da parte della Gran Bretagna, di una autonoma Repubblica irlandese del sud comprendente 26 contee, vincolata però al giuramento di fedeltà alla Corona e assoggettata, come dominion, all’Impero britannico.

La firma e la ratifica dell’accordo lascerà una Irlanda di nuovo divisa, ma questa volta al suo interno, tra coloro, con alla testa Michael Collins, che riterranno, firmando il trattato, di avere fatto la scelta migliore, ovvero la «scelta del danno minore» pur di porre termine alla guerra ed essere riusciti nell’obbiettivo del conseguimento di una Repubblica irlandese riconosciuta, anche se mutilata e vincolata; e tra coloro che rifiuteranno quella che definiranno come una «elemosina inglese» alla cui testa si porrà Eamon De Valera.

Anche l’IRA e il Sinn Fein si divideranno al loro interno e sarà l’inizio di una guerra civile, una sanguinosa guerra fratricida che opporrà irlandesi ad altri irlandesi.

Il nuovo governo irlandese, guidato da Michael Collins, approverà la nuova costituzione il 16/6/1922. Il 22 giugno unità combattenti dell’IRA – preventivamente messa fuorilegge e poi ricostituitasi in clandestinità – daranno inizio alle ostilità contro il nuovo governo occupando a mano armata, a Dublino, una serie di uffici governativi.

Irlandesi dell’IRA si troveranno a dover sparare contro gli irlandesi del nuovo Esercito della Repubblica. La guerra civile irlandese conoscerà tutta quella spaventosa ferocia che sempre è stata espressione delle guerre fratricide e spesso l’esercito irlandese, pur di reprimere l’insurrezione, utilizzerà gli stessi metodi che in precedenza avevano utilizzato gli inglesi contro di loro.

Il 22 agosto Michael Collins verrà assassinato in una imboscata da un commando dell’IRA. Eamon De Valera, a nome del Comando dell’IRA, il 1/6/1923, darà l'ordine del cessate il fuoco. La guerra civile aveva ormai già fatto più di cinquemila vittime, una ferita aperta che non si rimarginerà mai più. Alcuni vertici dell'IRA non accetteranno la scelta della tregua come definitiva, e si  riserveranno di riprendere le ostilità, in un qualsiasi momento che ritenessero opportuno, contro quelli che, ormai consideravano come nemici sia interni che esterni.

Dopo il risultato delle elezioni politiche del 1923, le prime all’indomani della fine della guerra civile, il Sinn Fein rifiuterà di occupare i propri seggi in segno di protesta per la perdurante divisione della Nazione. Con il proseguimento delle polemiche politiche, continuamente rinfocolate dai ricordi della guerra civile e della repressione governativa, Eamon De Valera, nel frattempo migrato da posizioni di intransigenza politica verso sponde più accondiscendenti e legalitarie, produsse una scissione ulteriore all’interno del Sinn Fein  e nel 1926, giunse a fondare un nuovo partito pragmatico nei programmi e politicamente moderato, il Fianna Fail, con il quale vincerà le elezioni  politiche del 1932 divenendo il Primo ministro della Repubblica irlandese del Sud, l’Eire, costruendosi così l’immagine salvifica di «padre della Patria».

A nord della Repubblica rimaneva, però, sanguinante la piaga dell’occupazione inglese: le sei contee dell’Ulster erano definitivamente diventate parte integrante della Gran Bretagna. Una commissione internazionale, nel 1925, che era stata incaricata di verificare il rispetto del trattato stipulato tra inglesi e irlandesi, confermò la legittimità dei nuovi confini e approvò la separazione tra le sei contee dell’Ulster e le ventisei contee dell’Eire.

I giochi erano fatti. La guerra di liberazione sarebbe continuata nel Nord occupato.

Maurizio Rossi

Ante Pavelich, l’Ustacha e il sogno nazionalista croato – Valerio Ferri

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Antonie “Ante” Pavelic nasce nel 1889 a Bradina, una cittadina a sud di Sarajevo, allora nel vasto Impero austro-ungarico, studia in una scuola elementare musulmana e poi in un collegio gesuita, comincia ad interessarsi di politica a Zagabria durante i suoi studi universitari di Diritto avvicinandosi alle idee indipendentiste. Nonostante la sopportabile disciplina del governo di Vienna, in Croazia era diffuso il desiderio di poter vivere in una nazione sovrana. Allo scoppio della Prima Guerra mondiale, Ante Pavelic, è chiamato alle armi e inquadrato nel reggimento croato dell’esercito Imperiale. La fine della Grande Guerra segnò profondamente la geografia europea: nei Balcani sorse il regno serbo-croato-sloveno. In questo nuovo scenario ogni movimento politico di tendenza autonomista era soffocato. Le prime esecuzioni di dissidenti avvennero a Zagabria nel dicembre del 1918. La repressione non era solo quella della polizia e dell’esercito ma anche quella dei terroristi Cetnici e dei sicari della “Mano Bianca” ai quali era lasciato campo libero dal governo serbo. Il duro prezzo delle persecuzioni fu pagato non solo dai Croati, ma da tutti gli oppositori non importa se Bosniaci, Sloveni o Macedoni. Questo sangue, secondo l’atroce realtà secolare balcanica, dovrà essere lavato con altro sangue.

Ustacha in serbo-croato significa “insorto”, “ribelle”. Questo nome venne assunto per la prima volta dagli oppositori croati alla dominazione Ottomana e successivamente, seguendo un filo logico, dai nazionalisti in lotta contro Alessandro I, monarca assoluto serbo. L’Ustacha da simbolo dei patrioti divenne una formazione armata insurrezionale nel 1929, con il crollo del governo parlamentare e con l’affermarsi del potere autoritario e spietato di Alessandro. Ma facciamo un passo indietro, era il 20 giugno del 1928, durante una seduta del Parlamento del Regno il deputato montenegrino Ratchitch, fedele alla Corte reale e appoggiato dagli estremisti serbi, spara a sangue freddo sui deputati dell’opposizione, uccidendo tre politici croati e ferendone altri due. L’attentato provocò una grave crisi politica: la Croazia si infiammò di manifestazioni e l’opposizione chiese una revisione dei negoziati sull’unificazione del Regno e nuove elezioni. Il 6 gennaio del 1929 il re Alessandro, non potendo rispondere in maniera democratica alle sollevazioni dei nazionalisti e alle richieste dei deputati croati, istaurò una dittatura sospendendo la Costituzione e dando vita al Regno di Jugoslavia con l’obbiettivo di sopprimere ogni diversità etnica e culturale nei Balcani.

Noto avvocato, deputato a Zagabria, sposato con una donna ebrea e padre di tre bambini, a 40 anni Ante Pavelic decide di reagire con la forza alla tirannide. La polizia e i servizi segreti di Belgrado già lo consideravano un pericoloso difensore di repubblicani e nazionalisti croati, macedoni e bosniaci, ma soprattutto un possibile ‘’collante’’ tra i vari gruppi ribelli dei Balcani, per via della sua influenza e della sua fama. Con la presa di potere da parte di 2828e3a9d2521f0b590b37b84f8a2270Alessandro si moltiplicano gli arresti dei dissidenti. Pavelic non aspetta le manette, il 7 gennaio del 1929 annuncia la creazione dell’Ustacha e fugge a Vienna, dove continua la sua attività politica e di reclutamento. Ora è il Poglavnik, capo assoluto dell’Ustacha. Viene condannato a morte in contumacia. Si reca a Sofia dove entra in contatto con Mikailoff, conosciuto col nome di “Tigre dei Karpazi”, capo di un vero e proprio esercito criminale balcanico, molti uomini della “Tigre” sono stati difesi in tribunale da Pavelich al quale vengono forniti denaro e armi, ma soprattutto un numero di aiduchi, audaci mercenari esperti di guerriglia, per addestrare i ribelli dell’Ustacha. Anche se le notizie sono poche sul movimento, l’Ustacha è subito guardato con sospetto dal governo jugoslavo e le pressioni sull’Austria spingono Vienna a decidere l’espulsione di Pavelich, che viene accolto in Italia insieme a tanti altri croati. Ufficialmente erano detenuti in “campi di raccolta”, che gli ‘’internati’’ avevano trasformato in campi di addestramento, ma godevano di estrema libertà, dell’appoggio velato del governo italiano e di un piccolo finanziamento. Veri e propri campi di addestramento militare sorgevano in Ungheria dove l’Ustacha era appoggiato dal governo nazionalista di Mikos Horty.

Il primo obiettivo dell’Ustacha è di mandare all’altro mondo il re Alessandro I. La propaganda del movimento incita continuamente al regicidio con parole infuocate. Il primo attentato avviene a Zagabria nel 1933. Il re si recherà nella capitale croata in occasione dell’anniversario dell’assorbimento della Croazia nel regno. Il piano è di lanciare delle granate sull’auto reale e poi finire il sovrano a colpi di pistola, agiranno in due. Per una fuga di notizie i servizi segreti vengono a conoscenza degli intenti della cellula terroristica che dal primo momento capisce di essere braccata e isolata: i loro contatti non si fanno vivi. Ma l’obiettivo è quello di uccidere il re a tutti i costi. Pochi secondi prima che entrino in azione, decine di agenti in borghese sono addosso ai due croati, che cercano di reagire, sparano, uccidono un poliziotto. Saranno torturati e impiccati in segreto per azzerare lo scalpore dell’azione. Un nuovo regicidio viene programmato in Francia, dove si recherà il tiranno jugoslavo per un incontro diplomatico il 9 ottobre 1934. In un campo militare in Ungheria vengono estratti a sorte tre uomini. Nell’Ustacha l’estrazione è una regola, non si chiedono volontari, sono tutti volontari. I tre si dirigono in Treno a Zurigo con dei documenti falsi e disarmati, lì si uniscono ad altri due uomini, con un battello turistico si spostano oltre il confine francese per raggiungere Parigi, dove una giovane donna, tutt’oggi non si sa chi fosse e da dove venisse, fornisce ai croati pistole e bombe a mano. Il piano è duplice, due uomini colpiscono a Marsiglia, in caso di fallimento, entrerebbero in azione gli altri due uomini a Parigi, il quinto deve partire per raggiungere il Poglavnik a Torino. La vettura di Alessandro attraversa Marsiglia, un ustacha all’improvviso esce dalla folla, si getta sull’automobile reale e spara a brucia pelo al sovrano. Una pioggia di sciabolate e di proiettili si abbatte sull’attentatore, il suo complice non riesce a lanciare le granate per l’ondata impazzita di folla che lo travolge, morirà poco dopo in una caserma. La polizia francese reagisce duramente allo scacco dei croati mobilitando tutte le sue forze. Gli ustacha vengono arrestati insieme ad altri sospettati croati, la sorte peggiore toccherà a quanti saranno consegnati alle autorità jugoslave per interrogatori “più approfonditi”. Il re Alessandro I è morto. Subito dopo l’attentato, in Italia, Ante Pavelich e molti croati vengono arrestati, il governo di Roma adesso li tiene sotto controllo e li reputa inutili e pericolosi ma non concede l’estradizione richiesta dalla Francia.

Dopo l’uccisione di Alessandro I era salito al trono Pietro II, appena undicenne, sotto la tutela dello zio, il principe Paolo. Il regicidio non aveva cambiato in modo sostanziale la situazione della repressione dei dissidenti, ma aveva riempito le carceri di nazionalisti e patrioti e moltiplicato le esecuzioni e le torture: una polveriera sul punto di esplodere. Nel frattempo in tutta Europa si avvertiva un clima sempre più teso, lo scoppio di un conflitto era prossimo. Il Poglavnik confidava in uno sconvolgimento internazionale che potesse mettere in crisi il regno jugoslavo.

Era scoppiata la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1940 l’Italia era entrata in guerra e le forze tedesche avevano raggiunto le coste francesi sull’Atlantico. Il governo jugoslavo aderisce al Patto Tripartito il 25 marzo del 1941, due giorni dopo un colpo di mano fa salire al potere un gruppo di militari che si dichiara nemico dell’Asse. La Wermacht invade e occupa la Jugoslavia. La Carinzia, la Stiria e la Serbia passarono sotto il controllo del Reich, i territori della Serenissima, l’Albania e la Slovenia al governo di Roma, il Banato all’Ungheria, le zone macedoni alla Bulgaria. In questo stravolgimento la Croazia proclama la sua autonomia. Ante Pavelich, simbolo della lotta senza compromessi e del sogno nazionalista, prende le redini del paese, l’Ustacha non è più un’organizzazione clandestina ma diventa una struttura politico-militare.

L’offensiva tedesca in Jugoslavia era stata fulminea, ma condotta in modo troppo sbrigativo: aveva messo fuori gioco il nemico, non l’aveva distrutto. Sulle montagne dell’Erzegovina un contingente serbo non fu nemmeno sfiorato dalla Wermacht. Tra quei picchi montuosi il colonnello jugoslavo Dragoliub “Draja” Mihajlovitch creò un’enclave. Draja era un militare serbo, un monarchico profondamente anticomunista e antitedesco. Chiamò la sua gente e i suoi combattenti col nome di Cetnici, dal serbo-croato ceta (banda). I cetnici erano formazioni per lo più serbe ma anche greche, bulgare e valacche che si impegnarono nel combattere i turchi e che nel 1918, con la nascita del regno jugoslavo erano diventati un’istituzione militare col compito di mantenere l’egemonia del nazionalismo serbo nel Paese. Non occorre un particolare sforzo per capire cosa suscitava il termine “Cetnici” nell’animo dei Bosniaci e dei Croati: i Cetnici sotto il re Alessandro erano gli incendiari delle chiese cattoliche, i torturatori dei dissidenti, i boia dei nazionalisti. Sicuramente Draja denominando Cetnici i suoi uomini non aveva previsto l’effetto che avrebbe provocato quel nome tra le genti balcaniche. Per i cattolici i Cetnici erano i rivali ortodossi, per i musulmani i nemici infedeli, per i Croati gli sterminatori da sterminare. Già nell’autunno del 1941 reparti dell’Ustacha entrano in azione per colpire i Cetnici, questi ultimi hanno la peggio. Lo scenario è tragico e sanguinoso, è il tipico scenario balcanico: chiese ortodosse devastate e feroci massacri di serbi. La strategia cetnica è attendista, gli Ustacha sono diventati troppo forti nello scontro diretto, è necessario aspettare, al massimo sabotare il nemico con azioni di guerriglia verso le unità musulmane inquadrate nell’esercito nazista e i patrioti croati dell’Ustacha: l’obiettivo primario, per ora, è salvaguardare la sopravvivenza biologica dei Serbi.

Nella primavera del 1941, a Zagabria, Josip Broz “Tito” raduna clandestinamente i dirigenti del Partito Comunista Jugoslavo, getta le basi per una lotta di classe jugoslava. Tito decide di combattere i nazisti tedeschi, i fascisti italiani, i monarchici serbi e i nazionalisti croati. Con l’Operazione Barbarossa ha inizio la crociata titina per il trionfo del comunismo. I partigiani non esitano ad intraprendere una guerra del terrore. Lo storico Michel Lespart rende bene l’idea: in una segheria vengono ritrovati i corpi di alcuni esploratori dell’Ustacha presi dai partigiani, sono inchiodati ai tavoli, tagliati in due, sgozzati, mutilati, decapitati, incoronati da bossoli inflitti a colpi di martello nel cranio, trapassati da un ferro e arrostiti o sepolti vivi.

La guerra civile balcanica oltre ai partigiani comunisti, alle bande di Cetnici e alle milizie Ustacha vede sul campo dello scontro i musulmani bosniaci che vestono l’uniforme delle SS con l’obiettivo di vendicare migliaia di loro correligionari. Alle atrocità di questa guerra etnica si sommano le torture rituali degli antichi guerrieri islamici. La testimonianza di un medico neozelandese al servizio dell’esercito britannico ci descrive una SS musulmana catturata dai partigiani jugoslavi: il prigioniero portava al collo un sacchetto contenente occhi umani cavati dalle orbite dei nemici.

Stragi di massa, torture efferate, esecuzioni sommarie: il timbro delle tante guerre che hanno insanguinato il carnaio dei Balcani.

I volontari dell’Ustacha vestivano uniformi del disciolto esercito jugoslavo e, materiale tedesco o italiano. Tuttiu-italy indossavano l’elmetto tedesco con la U bianca dell’Ustacha dipinta sul lato destro. La maggior parte dei volontari erano studenti, operai e contadini, ma scelsero la lotta armata anche molti uomini della Chiesa Cattolica. Dopo decenni dalla fine di quei fatti, in Croazia si ricordavano ancora i nomi di chi servì il Signore col crocifisso nella mano sinistra e la pistola in quella destra. Nel 1942 il Poglavink chiese volontari da inviare sul fronte russo, questi furono talmente tanti che fu necessaria una selezione. Vennero inquadrati nella Wermacht una brigata di frontiera croata e un battaglione bosniaco, furono creati due gruppi d’aviazione croati nella Luftwaffe dotati dei Messershmitt 90, gioielli dell’ingegneria aeronautica tedesca, volontari croati affiancarono Sloveni, Albanesi, Bosniaci, e persino Serbi nelle SS. In Russia le truppe croate fecero la loro parte, sui soldati croati piovevano bombe e proiettili, ma anche Croci di Ferro. Entrati a Stalingrado al fianco delle truppe tedesche, i volontari croati e bosniaci musulmani, accerchiati, si batterono con coraggio in quell’inferno di rovine fumanti. Il comando della V Armata tedesca gli propose, come premio per il valore dimostrato, un’evacuazione aerea, i croati rifiutarono, estrassero a sorte un gruppo che sarebbe tornato in patria per raccontare la storia di quegli uomini che non chiesero e non concessero sconti.

Nel settembre del 1943, l’esercito italiano è allo sbando: gli Ustacha e i titini ne approfittano per fare incetta di armi e di materiale bellico, i tedeschi penetrano tra mille difficoltà in Kosovo, in Albania, in Macedonia e nel Montenegro. La guerra etnica si inasprisce, nessun carnefice e nessuna vittima, non ci sono buoni e cattivi. I nazionalisti croati vengono sepolti vivi dai titini, non pregano, recitano poesie, e le giovani comuniste condotte sul patibolo rispondono agli Ustacha cantando. Ognuno a modo suo è un eroe della propria causa.

E’ la fine del 1944, lo scenario bellico è del tutto mutato. Mihajlovitch è fuori dalla partita, Londra e Washington lo hanno abbandonato. Ora è Tito a dialogare con gli Alleati concentrandosi sulla Jugoslavia e dimenticando le direttive di Stalin, se lo può permettere: la sua milizia partigiana ora è un vero esercito composto da più di 400 mila uomini, con artiglieria e armi pesanti. Le formazioni bosniache si sono sciolte, alcuni sono morti con la divisa delle SS, mentre gli altri sono troppo pochi e disorganizzati per continuare la loro lotta del terrore. Per Pavelic la situazione peggiora, i sovietici avanzano da Est e i Tedeschi non possono restare e presidiare i Balcani, devono far fronte ai Russi che si avvicinano alla Germania. Nonostante questo la popolazione croata continua a sognare di poter mantenere la sovranità nazionale e resta vicina al Poglavnik. La Serbia e la Jugoslavia sono in mano ai partigiani di Tito che fa valicare i suoi confini solo ad un numero esiguo, simbolico, di truppe sovietiche. Ante Pavelic capisce che non c’è più speranza di vincere, cerca di dimettersi, ma il governo di Berlino non glielo permette. Bisogna resistere, viene ordinata la mobilitazione generale per tutti i Croati.

Il 1945 si apre con le cattive notizie sulla situazione dell’Asse. Roosevelt e Churchill cedono alle richieste di Stalin: i Balcani vengono consegnati al comunismo. A maggio Pavelic e i componenti del governo fuggono in Austria. L’Ustacha si prepara all’ultima resistenza disperata nella speranza di un intervento angloamericano. In Europa la guerra è finita, ma non in questo fazzoletto di terra, quando tutto finirà i civili croati saranno sterminati, devono scappare, i combattenti nazionalisti coprono la loro fuga verso l’Austria. Le colonne di profughi sono colpite dall’artiglieria dei partigiani titini che non si avvicinano, gli Ustacha li tengono lontani. I Croati arrivano al confine austriaco e si consegnano agli Inglesi. Ma gli ordini sono netti: gli Alleati non accettano nessuna resa dei Croati, che non possono passare il confine e raggiungere la zona sotto il controllo militare alleato, l’alternativa è consegnarsi agli uomini di Tito: donne e uomini, vecchi e bambini, civili e soldati. Arrendersi ai partigiani significherebbe gettarsi nelle braccia della morte. I titini concedono un’ora di tempo agli Ustacha per deporre le armi, allo scadere del tempo concesso i partigiani apriranno il fuoco, i gruppi armati croati si dispongono a difesa dei loro compatrioti: meglio cadere combattendo che morire torturati. Allo scadere dell’ultimatum 300mila Croati sono colpiti da una pioggia di proiettili e bombe, è una carneficina, è guerra balcanica. L’ecatombe sul confine austriaco dura per lunghe ore, passerà alla storia come il “massacro di Bliburg”. Le violenze non si fermano lì: per due giorni i soldati di Tito danno la caccia agli jugoslavi di origine tedesca di quelle zone, la pulizia etnica va avanti per due giorni. Un brutale episodio fa comprendere la situazione: circa 300 prigionieri croati vengono sotterrati fino al collo dai partigiani, l’ordine è di passare su quel campo di teste una falciatrice meccanica.

Ante Pavelich è sparito, secondo molti è morto e con lui il sogno di una Croazia libera. Ma il Pglavnik è vivo e anche l’Ustacha, un milione di Croati erano riusciti a fuggire dall’inferno dei Balcani, non tutti avevano combattuto nei ranghi dell’Ustacha, gente povera ma tenace, ma nutrita a pane e odio per il comunismo. Pavelich era fuggito dalla Croazia grazie ai suoi rapporti con il clero cattolico, alla sua fitta rete di amicizie e ai suoi seguaci dispersi in tutto il mondo. Con il saio ‘’padre Gomez’’ attraversa l’Austria e giunge in Italia, a Roma, dove è segretamente accolto in un istituto religioso. Nel 1948 “Pablo Aranjos”, con un passaporto della Croce Rossa Internazionale, sbarca in Argentina. Il Poglavnik riprende la sua attività in nome della Croazia indipendente e sovrana, l’Ustacha ritorna un’organizzazione clandestina e terroristica. L’Ustacha riprende vita, nella Jugoslavia stessa, nell’Europa Occidentale, nel Sud America e negli Stati Uniti. I rapporti dei servizi segreti di Tito sui gruppi nazionalisti croati e sulle azioni di sabotaggio si moltiplicano. L’Ustacha fa paura al Governo jugoslavo, Le richieste di estradizione rivolte all’Argentina sono vane. Tito decide di eliminare fisicamente Pavelich. 10 aprile 1957, Buenos Aires, il Poglavnik scende da un autobus di linea affiancato da una guardia del corpo, un uomo gli si avvicina, estrae una pistola e scarica il caricatore sul capo dell’Ustacha, la fortuna assiste il croato: il sicario ha fallito, i primi quattro proiettili mancano il bersaglio gli altri due feriscono lievemente Pavelich, che viene trasportato in un ospedale in cui opera personale siriano e libanese. Ora è sotto i riflettori, e decide di ricevere i giornalisti, la voce secondo cui si trovava in Argentina ora è una certezza. La stampa si chiede quali sono i propositi futuri per Pavelich. Il croato risponde scomparendo silenziosamente dall’ospedale. Ante Pavelich giunge nella penisola iberica e lì trova ospitalità in un convento francescano di Madrid, dove il 28 dicembre 1959 muore a 70 anni.

Il Consiglio Nazionale Croato in esilio passa sotto il comando di Andreas Hefner, uno dei fedelissimi del Poglavnik, mentre il musulmano bosniaco Branimir Jelitch, a suo tempo Console Generale di Croazia a Berlino, crea un proprio Comitato Croato Europeo: manca una strategia unitaria e una linea politica definita; ma tra i Croati resta radicata la necessità di far sapere al mondo che il sogno nazionale non è mai morto, con o senza Pavelich. Le azioni dei nazionalisti croati continuano in tutta Europa. Con l’arrivo degli anni ’70 la lotta si intensifica: una bomba distrugge una sala cinematografica a Belgrado, un aereo di linea jugoslavo viene fatto precipitare sulla Germania dell’Est, l’ambasciatore e il console jugoslavi in Svezia vengono freddati, e l’elenco sarebbe ancora lungo tra incendi, sabotaggi, omicidi e attentati. La repressione del Governo di Belgrado diventa più dura: licei e università croati sono spesso presi di mira, effettivamente sono vere e proprie fabbriche di dissidenti nazionalisti, e gli studenti periodicamente vengono arrestati. Arriva il 1980 e la morte di Tito, la Jugoslavia precipita nella crisi politica e nella bancarotta. I primi fermenti ribellistici di massa nascono in Kosovo nel 1981: i kosovari hanno fame e vogliono l’indipendenza da Belgrado. In Croazia, in Slovenia e in Bosnia salgono al potere i partiti anticomunisti, ormai il sistema comunista è crollato, la Lega dei Comunisti si è spezzettata. Passano gli anni, il Muro di Berlino crolla, l’Urss si sbriciola. Nel 1991 la Croazia si dichiara indipendente, sulle bandiere nazionali riappare lo scudo a scacchi rossi e bianchi. Ma la caduta del comunismo ha riacceso la miccia dell’odio etnico nei Balcani, l’oppressione aveva incatenato per anni le passioni nazionaliste dei popoli balcanici, quelle terre sono nuovamente bagnate dal sangue: la contesa per la Kranjna, il conflitto in Bosnia, la guerra nel Kosovo. Non ci sono le milizie croate degli Ustacha, i musulmani non combattono sotto la bandiera delle SS, le truppe di Belgrado non fanno capo a Tito, è passato più di mezzo secolo dalle lotte nazionaliste croate, ma nel cuore di quella terra martoriata scorre ancora il sangue degli Ustacha: terroristi assetati di sangue o combattenti che sognavano la libertà? Al lettore l’ardua sentenza.

Valerio Ferri

Gorla e gli Idioti del Partito Preso – Gianluca Padovan

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Gorla

 

Passeggiavo durante una giornata soleggiata, con il cielo terso e gli uccellini che chiassavano tra i rami stenti degli alberi metropolitani, quand’ecco che giunsi all’accesso di un rifugio antiaereo della Seconda Guerra Mondiale.

Non pensate ad un rifugio grande e grosso, di quelli in cemento armato e con le porte blindate antiscoppio. No, si trattava della classica cantina puntellata milanese, il “ricovero casalingo” di triste memoria. Triste perché là dentro si rischiava di fare la “fine del ratto”.

Scesi da basso e la frescura mi accolse, benefica seppure un pochino umidiccia.

Umidiccia per via del fiato emesso da almeno una trentina di persone che pendevano dalle labbra di una rampante guida turistica la quale elargiva la propria cultura universitaria agli astanti.

Non oso immaginare che cosa dovesse essere quell’ambiente durante i bombardamenti degli “alleati”, i quali erano “alleati” fors’anche prima che gli incaricati dal re d’Italia, Emanuele III di Savoia, firmassero a Cassibile il trattato di resa incondizionata. D’altra parte taluni non capiscono che se qualcheduno spara loro addosso non è certamente un “alleato”. Ma sorvoliamo.

Con grande interesse ho ascoltato le verità emesse dalla graziosa bocca della dispensatrice d’informazioni, chiedendomi se ci facesse apposta a infilare una inesattezza dietro l’altra o se la laurea universitaria l’avesse conseguita con i punti del supermercato.

Mi colse anche il dubbio che la signora fosse in buona fede, lasciando in me il pensiero che, in realtà, fossero stati i suoi professori ad assurgere al titolo d’insegnanti con i menzionati punti appiccicati sulla tessera del supermercato.

Per farvela breve e non tirare troppo la pasta, ad un certo bel momento, a visita ultimata, feci alla signora un paio di domande, cogliendola totalmente impreparata. Subito si avvicinarono un paio di persone che, lo capii dopo, erano di supporto a costei.

Amichevolmente scambiammo quattro chiacchiere sui rifugi antiaerei cittadini e concordammo sul fatto che l’ultimo pensiero dell’allora Governo italiano fosse quello di proteggere i civili dai bombardamenti.

Ecco un paio di dati per tutti e non levate gli scudi prima d’aver letto quanto segue.

Quanti rifugi antiaerei sono stati realizzati a Milano entro il temine della Seconda Guerra Mondiale? È difficile rispondere. Occorrerebbe prima effettuare una notevole opera d’indagine negli archivi non solo cittadini. Una considerazione dell’ing. Secchi, stilata nel 1938, quindi un paio d’anni prima dell’ingresso dell’Italia in guerra, ci fornisce una prima indicazione:

«La mia esposizione ha cercato di dare soprattutto l’idea di quanto è stato fatto nei diversi campi delle costruzioni milanesi, di questa Città che ritengo sia all’avanguardia delle costruzioni protettive private, perché sino ad oggi sono stati costruiti 450 ricoveri per una capienza complessiva di 17.000 persone. Poca cosa per una città di 1.200.000 abitanti, ma che in relazione all’apatia pressoché generale con cui viene considerata la costruzione dei ricoveri, è un sicuro indice di volontà e di aderenza alla realtà» (Secchi L.L., Alcuni tipi di ricovero antiaereo costruiti a Milano. Loro caratteristiche tecnico costruttive, Conferenza tenuta dal Dott. Ing. Luigi L. Secchi al corso di Urbanistica ed Edilizia Antiaerea per Ingegneri ed Architetti, svoltosi presso la R. Scuola di Ingegneria di Roma, dal 15 al 19 Novembre 1937-XVI, Estratto dagli “Atti dei sindacati provinciali fascisti ingegneri di Lombardia”, Febbraio, Industri Grafiche Italiane Stucchi, Milano 1938-XVI, p. 11).

Ovviamente, perché sottacerlo, l’onere di costruire un rifugio a protezione propria e della famiglia ricadeva sul cittadino. Certamente anche il Comune di Milano si diede da fare e alla data del 5 ottobre 1940 aveva approntato, in fretta e furia nel mese di settembre, 135 rifugi antiaerei ad uso pubblico, rimettendo in campo anche 40 o 50 spazi sotterranei già utilizzati durante la Grande Guerra. Ma per coloro i quali non l’avessero colto, l’Italia era entrata in guerra già da un pochino, ovvero il 10 giugno del 1940.

  Sugli argomenti sono stati scritti più libri e due ve li segnalo:02[1] - Maria Antonietta Breda, Gianluca Padovan, Milano: rifugi antiaerei. Scudi degli inermi contro l’annientamento, Lo Scarabeo Editrice, Milano 2012. _public_MILANOcopDEFINITIVA[1]- Maria Antonietta Breda, Milano 5 ottobre 1940. I rifugi antiaerei pubblici del Comune di Milano Milan, 5th October 1940. Milan Municipal public air-raid shelters, Lo Scarabeo Editrice, Milano 2015.  

Essendo a Milano, l’argomento è caduto ovviamente sul bombardamento di Gorla. In pratica il giorno 20 ottobre 1944 il quartiere Gorla è stato bombardato assieme a Precotto e ad altre zone di Milano da aerei americani. Una bomba centrò la Scuola Elementare Francesco Crispi, uccidendo centonovanta scolari tra i sei e gli undici anni, la direttrice e venti tra insegnanti e collaboratori, nonché un’ultima persona, Maria Maddalena, figlia quattordicenne della direttrice. Sull’area del dramma oggi ci sono una piazza e un ricordo, il Monumento Ossario alla memoria dei piccoli martiri di Gorla.

Si trattò di un errore, dal momento che una formazione di bombardieri, pare, avesse sbagliato rotta, seppure solo di circa un grado e mezzo. Di contro, quello che importava agli aviatori era solo di bombardare. E non mi si venga ancora a raccontare la storiella che gli “alleati”, ovvero i nostri Nemici, bombardassero solo ed esclusivamente i centri di produzione bellica. Difatti è vero l’esatto contrario.

Non ci credete? Anche qui una per tutte.

«Tornando ai bombardamenti subiti dalla città di Milano, molti si sono chiesti per quale ragione si sia penalizzata la popolazione civile, causando invece danni limitati ai centri di produzione industriale come, ad esempio, il polo di Sesto San Giovanni, situato appena a nord di Milano. Qui erano concentrate varie acciaierie e fabbriche d’importanza nazionale come, ad esempio, la Falk. Il dott. Giuseppe Vignati che lavora all’I.S.E.C. (Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea) di Sesto San Giovanni, ha confermato che in effetti Sesto ha subito pochi bombardamenti. In particolare ha dichiarato che in uno stabilimento della Falk lavoravano due tecnici americani e questi asserivano che non sarebbe stato necessario spendere tempo e soldi per realizzare i rifugi antiaerei per il personale, in quanto lo stabilimento non sarebbe mai stato bombardato. E così è stato» (Maria Antonietta Breda, Gianluca Padovan, Milano: rifugi antiaerei. Scudi degli inermi contro l’annientamento, Lo Scarabeo Editrice, Milano 2012, p. 213). Sulle Acciaierie e Ferriere Lombarde Falck non cadde nemmeno un vasino da notte.

Tanto per dirla fino in fondo, quel 20 ottobre 1944 la città di Milano registrò all’incirca 680 morti e 700-800 feriti. Venne colpita la scuola elementare di Precotto, fortunatamente senza causare vittime, numerose case operaie tra cui le Morbio, chiese, palazzi e la sede dell’Opera Pia dei Piccoli di Padre Beccaro.

Ma non è questo il punto.

Il simpatico terzetto mi scodellò la sua versione dei fatti sul perché gli Americani avessero bombardato proprio la Scuola Elementare Francesco Crispi.

Da ricerche condotte, secondo loro, è recentemente emerso un documento autentico in cui si evince che una delle maestre accettò di nascondere nella scuola… «le armi dei fascisti!», così esclamò un componente del terzetto.

Un altro corresse: «No, accettò di nascondere nella scuola le armi dei tedeschi!».

«In ogni caso», soggiunsero, «la scuola è stata bombardata per colpa di quelle armi». Difatti una “spia” avvisò gli Americani.

Al che, seraficamente, dissi loro: «A me non risulta alcunché di simile e vorrei vedere il documento o i documenti di cui parlate».

Cominciarono a tergiversare, ad arrampicarsi sui classici specchi e a borbottare che una “studiosa” li aveva “recuperati”, ma ovviamente non sapevano dire da dove. Altrettanto ovviamente non mi fornirono il nome di tale studiosa, né come potessi fare per rintracciarla. Anzi, mi diedero la pinocchiesca assicurazione che mi avrebbero contattato loro per indagare assieme sulla faccenda (diedi loro il mio recapito). Sono passati mesi e si sono ben guardati dal farsi vivi.

Chiesi inoltre di che “documento” si trattasse e loro farfugliarono che doveva essere una sorta di “ricevuta”.

Già, come quando Voi vi recate in lavanderia, lasciate gli abiti, pagate e ritirate la ricevuta con il numero di capi consegnati e l’importo corrisposto per il lavoro di lavaggio e stiro.

Ognuno di noi che possieda un cervello e desideri usarlo per proprio conto può riflettere sul fatto che i militari non possono cedere le proprie armi in “custodia” a chicchessia, tantomeno a un civile, nemmeno a fronte di una “ricevuta”. E per militari mi riferisco letteralmente a coloro i quali prestano servizio regolare in un esercito. Pertanto la notizia dei militari, fascisti o tedeschi, che danno alla maestra le armi è palesemente falsa.

È altrettanto falso e tendenzioso il racconto che qualcheduno abbia avvisato il Comando angloamericano del fatto che nella Scuola Elementare Francesco Crispi fossero nascoste delle armi e che, pertanto, occorresse bombardare l’edificio.

Ve l’immaginate?

«Pronto, sono la Cesira, quella di Milano, chè mi passate il Comando che devo dirci di bombardare la scuola perché quei manigoldi c’hanno imboscato le armi? E già che ci siete perché non ci date una bella spazzolata anche al resto della città?».

Ovviamente tali personaggi di mezza tacca continuano a raccontare ai boccaloni le loro menzogne.

Il mio articolo non desidera andare a rivangare la storia passata, ma semplicemente vuole denunciare che dopo 72 anni ci sono ancora idioti di partito che insultano la memoria dei cittadini inermi periti sotto le bombe di quello che è stato un genocidio programmato a tavolino e noto come Terror Bombing.

Curiosamente, più gli anni avanzano, più il numero dei civili italiani morti a causa dei bombardamenti diminuisce. Sarà forse colpa dell’“effetto serra”?

Ovviamente in Italia se ne parla poco o quasi mai di tale Terror Bombing e per saperne qualche cosa occorre rivolgersi ai cortesissimi “alleati”, i quali hanno già aperto i loro “archivi segreti”. Certo, non mi attendo che abbiano desecretato proprio tutto, ma proviamo a cercare dati negli archivi italiani. Vediamo chi è così bravo da riuscirci.

Quando parlo di “idioti di partito” mi riferisco a coloro i quali militano esenti tessera e quota d’iscrizione proprio nel partito degli idioti.

Sono gli Idioti del Partito Preso, che pur di poter dire la loro se la inventano.

Tale Partito è aperto a tutti, purché siano idioti, e se non risulta da alcuna parte comunque esiste. Non ha bisogno di colori e simboli perché incolore e inconsistente, ma pernicioso.

Tutti a casa… Settant’anni dopo – Franca Poli

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Tempo addietro in più occasioni, su varie pagine e riviste on line, Ereticamente in primis, ho raccontato la storia, raccolta da alcuni vecchi articoli di Renzo Rossi, giornalista conselicese che scrive per il Carlino, di quattro Marò della Decima Mas sepolti nel cimitero di Conselice. In molti hanno letto e condiviso la notizia. Senza nessuna pretesa, ma con sistematico impegno abbiamo cercato di fare informazione, ricerca storica seria e a volte si ricevono soddisfazioni che non hanno prezzo. Questa la mail ricevuta da Andrea Greco nel maggio scorso: “Buona sera, volevo ringraziarla perchè, grazie al suo articolo "Gli uomini che scelsero l'onore" ho rintracciato il luogo di sepoltura del mio prozio, Franco Lualdi, e sono riuscito a portarlo, dopo 70 anni, a riposare insieme alla sua famiglia".

Perchè parlarne ancora dunque? La novità di oggi è che grazie, al serio impegno alla dedizione, alla testardaggine perfino, dell'ingenere di Cotignola Fabrizio Turchi la storia ha un seguito e un lieto fine che desidero raccontarvi.

Brevemente l'antefatto: nel cimitero di Conselice, giusto alla sommità della 13a arcata del porticato, c'era una lapide con incisi i nomi di quattro giovani morti durante la guerra in terra di romagna: Carlo Quadrati, Mauro Monopoli, Costante Viviane e Franco Lualdi, tutti appartenenti al Battaglione Lupo della X Mas e morti nel 1945, mentre combattevano lungo l'argine del fiume Senio, per contenere l'avanzata angloamericana. Furono tre mesi di scontri durissimi, sostenuti coraggiosamente, in prima linea, verso forze enormemente superiori, soverchianti, e le compagnie del principe Borghese, subirono un altissimo numero di perdite. Le vicende umane dei quattro giovani venuti a morire nella nostra campagna, sono strettamente legate alle sorti del Battaglione Lupo, infatti è nel rapporto del comandante Strippoli, in merito allo schieramento del suo battaglione, che si poteva leggere: “Ai primi di gennaio del 1945 la Compagnia si spostò ad Ovest di Alfonsine, lungo l'argine sinistro del Senio, dove da parte nemica era molto intensa l'attività delle pattuglie” e dove Mauro Monopoli offertosi di individuare uno dei centri di fuoco che controllavano le nostre posizioni, consapevolmente e con coraggio, si avventurò su un campo minato... si abbattè al suolo colpito dallo scoppio di una mina”.

Nel resto del documento si trovano notizie anche su Franco Lualdi.

“È nel settore di Fusignano dove operava la 2a Compagnia che nella notte dal 15 al 16 gennaio 1945 il guardiamarina Cardillo e il sergente Lualdi uscirono dalle linee per un'azione di pattuglia, ma scoperti e bersagliati dal nemico si abbatterono gravemente feriti. Ritrovati da un'altra pattuglia e trasportati in ospedale successivamente vi decedettero”.

I quattro giovani vennero sepolti, in un primo momento, nel provvisorio cimitero di guerra tedesco, furono poi riesumati e tumulati in Conselice nel luglio del 1962 quando i caduti germanici vennero trasferiti nel sacrario tedesco al passo della Futa. Dai documenti trovati in Municipio è stato possibile verificare che, in seguito alle ricerche fatte sulla provenienza dei soldati per restituire le salme alle famiglie di origine, i resti di Carlo Quadrati erano stati trasferiti nel giugno 1970 al cimitero di Massa Carrara, quelli di Mauro Monopoli nel marzo 1970 a Pisogone, dove lo seppellirono il fratello e la madre ancora in vita. “Avevo quattro anni” si legge in un'intervista al fratello Luciano "quando mio fratello Mauro si arruolò nella X MAS - 1a Compagnia, Battaglione Lupo. Dopo l'8 settembre del 1943 molti si erano trovati davanti alla scelta di diventare disertori, oppure arruolarsi nell'esercito della RSI, i miei mi raccontarono che mio fratello fece volontariamente quest'ultima scelta".

Erano rimasti dunque, dietro la vecchia lapide del cimitero di Conselice, solo i resti di due soldati in grigioverde Costante Viviane e Franco Lualdi.

Quest'ultimo, come vi dicevo tornato a casa a maggio scorso, aveva lasciato Napoli, dove era al sicuro ed era salito al nord per aderire volontariamente alla RSI e aveva incontrato la morte. Restava a Conselice un solo Marò, Costante Viviane, di lui nella lapide non era indicato nemmeno l'anno di nascita, per certo si sa che anch'egli offrì la sua giovane vita alla Patria.

Ieri finalmente anche lui è tornato a casa e solo grazie alla tenacia di Fabrizio Turchi che ha telefonato ripetutamente al comune di nascita di Viviane, per tentativi alle famiglie con lo stesso cognome che ancora risiedono in quel paesino del Trentino che aveva visto i natali dello sfortunato Marò. E finalmente il successo. Anche l'ultimo Marò ieri è stato riportato al suo paese. Mi scrive Fabrizio, “Una volta chiusa l'urna nella vettura del nipote stamani, lo stesso ha detto ad alta voce: "zio, si torna a casa": queste parole per me sono la più grande ricompensa a questi mesi di ricerche personali”. Davvero una grande soddisfazione per te, per tutti noi che amiamo la storia, che onoriamo il sacrificio che tanti giovani coraggiosi offrirono alla Patria. Finisce così con un sorriso la storia tristissima dei quattro Marò di Conselice, e quale giornata migliore di oggi per ricordarli in eterno? Il 23 settembre iniziò l'avventura dei giovani che scelsero l'onore combattendo nella Repubblica Sociale e il 23 settembre di settantuno anni dopo finisce con ognuno di loro finalmente tornato a casa.

Turchia, 1913: la ferrovia Berlino-Baghdad e la “concessione” italiana di Antalya – Michele Rallo

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Quando andavamo all'estero

per fare gli interessi nostri

(e non degli "amici")

 

Gli inglesi e gli americani non ci hanno mai amato. Malgrado un secolo e mezzo (meno il deprecato ventennio) di innamoramento dei nostri politici, dei nostri intellettuali, dei nostri giornalisti e ‒ incredibile! ‒ dei nostri storici per il mondo anglosassone, la verità storica è là a testimoniarlo, incontrovertibile. Perché non ci hanno amati? Non per antipatia, e neanche per un insano pregiudizio. Semplicemente perché la nostra collocazione al centro del Mediterraneo ha dato sempre fastidio al loro disegno di dominare questo mare, di farne ‒ come dicevano i meno ipocriti ‒ un "great british lake", un grande lago britannico.

Senza arrivare agli anni di Mussolini ‒ che viceversa voleva tornare al Mediterraneo "mare nostrum" ‒ questa animosità antitaliana degli inglesi si palesava già al tempo del Regno delle Due Sicilie, quando le forze britanniche ci derubavano di Malta e Gozo, isole sicilianissime (per etnìa e per collocazione geografica) annesse all'Impero della Sua Graziosa Maestà nel 1814, e poi utilizzate anche come basi militari contro di noi.rallo1

L'ostilità nei nostri confronti si era naturalmente trasferita al nuovo Regno d'Italia (colpevole di mantenere una forza navale che faceva ombra alla Mediterranean Fleet) ed era cresciuta dopo la nostra vittoria nella guerra con la Turchia (1912); vittoria che ci aveva portato ‒ tra l'altro ‒ a conquistare Rodi e il Dodecanneso, un vasto complesso insulare dell'Egeo orientale, a poche braccia di mare dalle coste turche e della grande isola di Cipro, tenuta ‒ giustappunto ‒ dagli inglesi.

La nostra presenza nel Mediterraneo orientale era guardata con fastidio crescente; e quando nel 1913 ‒ dopo le guerre balcaniche ‒ l'Italia tentava di mettere piede sul suolo turco (anzi, ottomano), Londra ci aizzava contro i greci, mettendoli in concorrenza diretta con noi. La Grecia ‒ è giusto riconoscerlo ‒ aveva maggior diritto che non l'Italia ad installarsi sulle coste egee della penisola anatolica; non foss'altro che per la presenza di numerosi e popolosi insediamenti ellenici in quei luoghi, dai tempi di Troia in poi. Ma gli inglesi non sostenevano Atene per ragioni storiche, quanto piuttosto per stornare la sua attenzione da Costantinopoli e dagli Stretti del Mar di Marmara, territori che Londra ‒ in realtà ‒ avrebbe voluto acquisire per sé e per il suo progetto di great british lake.

rallo2Ecco che, nell'agosto 1913, il Ministro degli Esteri britannico, sir Edward Grey, così illustrava la politica mediterranea del Regno Unito ai governanti ellenici: «Riguardo alle isole dell’Egeo, vi è un punto sul quale noi per la nostra posizione nel Mediterraneo e per considerazioni d’indole navale abbiamo interessi particolari, e questo punto è il seguente: che nessuna di tali isole debba essere reclamata o tenuta da alcuna delle grandi potenze.»[1]  Era evidente il riferimento all’Italia e al Dodecanneso, pur se appariva francamente incredibile che una tale allusione potesse esser proferita dal rappresentante di una potenza che occupava l’isola di Cipro, peraltro poco più a sud del Dodecanneso stesso.

In ogni caso, la politica egea dell’Inghilterra era quanto meno miope, perché non era l’Italia bensì la Germania ad essere veramente una concorrente pericolosa, come poteva chiaramente evincersi dalla vicenda della costruenda ferrovia Berlino-Costantinopoli-Baghdad, la Baghdadbahn: linea concepita ufficialmente come tratta sud-occidentale del grandioso progetto di una Ferrovia Asiatica, ma in realtà messo a punto dagli strateghi berlinesi e viennesi come una sorta di continuazione del disegno austriaco di penetrazione verso Salonicco.

Fin dall’ultimo scorcio dell’800 la Germania si era assicurata le concessioni necessarie a costruire la quasi totalità delle ferrovie turche, nella convinzione – peraltro – che la penetrazione economica fosse il veicolo ideale per una futura penetrazione politica nell’Impero Ottomano; cosa che, in effetti, avveniva del tutto naturalmente alla fine del primo decennio del XX secolo, quando l’Inghilterra – impegnata a conquistarsi le simpatie della Grecia turcofoba – lasciava i primi spazi vuoti in Turchia.

Ma non appena, dopo la fine delle guerre balcaniche, interveniva una sorta di normalizzazione nei rapporti fra Costantinopoli e le diverse potenze europee, la Gran Bretagna – resasi conto del valore strategico delle linee ferrate – chiedeva di poter partecipare al progetto di costruzioni ferroviarie, riuscendo però ad ottenere soltanto una appendice periferica: la tratta Baghdad-Bassora. Nello stesso modo, la Francia otteneva una concessione per la tratta Aleppo-Damasco-Gerusalemme, mentre la Russia aveva riconfermata una vecchia concessione nell’Armenia ottomana, ai confini con l’Armenia russa. Nascevano così, ai margini della presenza “forte” della Germania sul territorio turco metropolitano, tre zone d'interessi economici delle altre potenze, zone che – come gli avvenimenti dei prossimi anni andranno a dimostrare – assumeranno ben presto la valenza di zone d'influenza politica: la Mesopotamia per la Gran Bretagna, la Siria per la Francia, l’Armenia per la Russia.

L’Italia – oggetto ormai accertato dell’ostilità inglese – veniva rigorosamente mantenuta estranea al lavorìo per ottenere le briciole del bottino tedesco e, in un primo tempo, rimaneva quasi del tutto tagliata fuori.

Era a questo punto – dall’agosto al novembre 1913 – che avveniva il viaggio in Turchia di un noto giornalista italiano, il futuro senatore Giuseppe Bevione, ufficialmente per raccogliere documentazione per un suo libro, ma in realtà – è il mio sospetto – su incarico ufficioso del governo italiano, al fine di poter meglio calibrare le iniziative nel settore delle ferrovie.rallo3

Bevione confermava e avvalorava con dovizia di particolari quel che era già presente ai governanti di Roma, e cioè che rimaneva libero dalle zone d’influenza altrui un ampio tratto di territorio ottomano (praticamente quasi tutta l’Anatolia meridionale, un quarto buono della penisola) ma che di questo territorio all’Italia ne sarebbe stata assegnata – come vedremo – solamente una parte, la cosiddetta regione di Antalya. E ciò – probabilmente – su pressioni dell’Inghilterra, che sperava di poter destinare prima o poi l’altra parte (la regione di Smirne) agli appetiti irredentistici dei greci.[2]

«Restano i territori posti a ponente della diagonale Haidar-Adana – scriveva il Bevione – contenuti fra il Marmara, l’Egeo ed il Mediterraneo. (…) I vilayet di Aidin e di Brussa, che ne formano la maggior parte, non sono sottoposti al “noli me tangere” di nessuna Potenza, perché nessuna Potenza vi ha spiegato un’azione economica predominante, o vi ha concentrato un’azione politica tendente ad escludere amici ed avversari.» Ed aggiungeva: «Se l’Italia vuole essere qualcosa nell’Impero Ottomano, se vuole (…) costituirsi una zona di prevalenza, non può ormai più cercare in altra parte dell’Asia Minore che qui.»[3]

Naturalmente, a prevalere erano gli inglesi, e l’Italia doveva accontentarsi di una concessione per la costruzione di un moderno porto attrezzato ad Antalya, e per una tratta ferroviaria di adduzione che da quel centro procedesse verso nord fino a Burdur per congiungersi con la Baghdadbahn.

Di certo Antalya (o Adalia, come si preferiva chiamarla in Italia), pur essendo il secondo scalo marittimo dell’Anatolia meridionale, era meno aperta, meno “europea”, meno prossima agli Stretti di quanto non lo fosse Smirne; ma in compenso era più vicina al Dodecanneso e si prestava certamente meglio al progetto italiano di dar vita ad una “via di Rodi”che unisse le acque dell’arcipelago alle grandi vie di comunicazione anatoliche, quindi alla ferrovia Berlino-Baghdad.  Antalya appariva al Bevione – che la visitava nel settembre 1913 – come «un paese vergine d’influenza europea», come un porto di preziosa collocazione geografica ma privo di quell’aria progredita e cosmopolita che si respirava a Smirne o in altri grandi porti dell’Impero Ottomano. Inoltre e fortunatamente, mancava ad Antalya una massiccia presenza ellenista potenzialmente pericolosa, ma vi abbondavano in compenso le vestigia dell’antica dominazione romana, elemento che sempre solleticava l’orgoglio italiano.

In ogni caso, benché rappresentasse meno della metà delle originarie aspirazioni italiane, la regione di Antalya non era poca cosa. Comprendeva tre sangiaccati[4] (quelli di Antalya, di Burdur e di Menteşhè), per un totale di 440.000 kilometri quadrati e di 560.000 abitanti.

Di opinione diversa era il Bevione: «Un territorio ampio quanto la Danimarca ed una popolazione grande quanto quella di Milano. (…) Non si tratta adunque di una grande cosa. Ma è il primo passo, quello che è più difficile a compiersi e che costa più fatica. » E aggiungeva: «Ora importa stabilire bene questo: come la concessione di Adalia non è che un’anticamera. Adalia stessa non può essere che una tappa della nostra marcia. I tre sangiaccati a cui si limita la concessione di studi per la ferrovia non sono adeguati alla nostra potenzialità, non possono soddisfare le nostre legittime aspirazioni. Altro bisogna cercare, altro bisogna fare, senza fretta, con metodo, con continuità di vedute e di volontà. (…) La prima cosa da tener presente è che tutto il blocco occidentale dell’Anatolia, quello che solo interessa noi italiani, ha una pupilla, uno sbocco, un centro che si chiama Smirne. Smirne è la seconda città dell’Impero Ottomano. Tutta la vita del litorale egeo dell’Asia Minore affluisce a Smirne e ne defluisce. Non si può svolgere ad occidente della ferrovia di Anatolia un’azione efficace senza interessarsi di Smirne. Interessarsi di Smirne non significa (…) volerla prendere d’assalto. Significa volervi esercitare un’azione legittima di civiltà. (…) E’ diffusa nell’aria la sensazione di una volontà presente e potente, tesa a maggiori cose. Così deve essere, perché nulla faremo in quest’ultimo lembo di Asia Minore, se trascurassimo Smirne. A Smirne dobbiamo lavorare con tenacia, con fede, con sacrifici, perché Smirne è il cervello e il cuore dell’Anatolia occidentale. Ad Adalia abbiamo preso la prima nostra ipoteca. Fra Smirne ed Adalia deve svolgersi l’opera nostra. Niente altro che questo, poiché teniamo le isole che lo comandano, ha da essere il lotto dell’Italia. Ancora una volta, dunque, il destino ci mette tra Francia ed Inghilterra, che in questa zona hanno gli interessi dominanti.»[5]

rallo4Quindi, malgrado avesse dovuto accontentarsi di Antalya, l’Italia continuava a guardare con non celato interesse a Smirne, che però era una città a prevalenza etnica greca (250.000 su 400.000 abitanti, anche se i turchi mantenevano una scarna maggioranza nel vilayet di pertinenza).  Con molta probabilità, comunque, il governo italiano si sarebbe volentieri accontentato della sola fascia costiera del “lotto” occidentale, che avrebbe voluto saldare alle acque del Dodecanneso, penetrando all’interno solo il necessario per congiungersi alle grandi linee di comunicazione e rinunziando quindi alla parte più settentrionale del lotto stesso.

Ma questo disegno confliggeva con le aspirazioni di Londra, che – puntando segretamente al controllo di Costantinopoli e degli Stretti – era obbligata a favorire gli appetiti greci verso tutti gli altri obiettivi del panellenismo in Anatolia, Smirne in primis. Esattamente come – volendo conservare il dominio su Cipro – l’Inghilterra era obbligata a stornare le aspirazioni del nazionalismo greco verso Rodi e il Dodecanneso. In ogni caso, comunque, l’Italia doveva rimanere fuori da Smirne e possibilmente da tutta l’Anatolia; anzi, la stessa sua fastidiosa presenza nel Dodecanneso doveva essere resa problematica e, possibilmente, eliminata a pro dei greci.

Tutto ciò spiega le ragioni dello scontro – incruento ma politicamente violentissimo – che dopo la prima guerra mondiale opporrà Italia e Inghilterra nel teatro egeo.

[1] Giulio COLAMARINO:  La Grecia nella guerra d'Europa. // I Balcani.  “Storia di ieri e di oggi”, fascicolo monografico, Roma, 1941.

[2] Dopo la conquista greca di Salonicco, nella lista delle aspirazioni della Megàli Idèa panellenista Smirne era ormai al secondo posto, sùbito dopo Costantinopoli. Si tenga presente che Smirne, benché indubbiamente turca dal punto di vista geografico, era prevalentemente greca dal punto di vista etnico.

[3] Giuseppe BEVIONE:  L’Asia Minore e l’Italia.  Fratelli Bocca editori, Torino, 1914.

[4] Il sangiaccato era costituito da una città e dai centri minori che le facevano corona; diciamo, grosso modo, una unità amministrativa simile alla nostra provincia. Il vilayet – che abbiamo già incontrato – riuniva invece più sangiaccati, ed era più o meno equivalente alla nostra regione.

[5] BEVIONE:  L’Asia Minore e l’Italia.  Cit.


Memorie controcorrente – Fabio Calabrese

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A volte si prova nausea per la “grande” politica, quella che riempie le prime pagine dei quotidiani, che è creduta grande e in realtà è piccola piccola. Allora è giocoforza abbandonare questo falso empireo per tornare ad una dimensione più umana e quotidiana dove però, se siamo fortunati, possiamo trovare le chiavi per comprendere davvero il senso della “grande politica” e della “grande storia” (anche perché è ben chiaro, riguardo a quest'ultima, che quella che ci raccontano i testi storici, a cominciare da quelli messi in mano ai ragazzi delle scuole e tutti i mezzi di cosiddetta informazione, non è la storia vera!).

Questo è tanto più vero se si vive a Trieste, città che si trova come sopra una linea di faglia culturale e storica, ed è come intrisa di memorie, alcune incredibilmente drammatiche e dolorose.

Fra tutte le cose che di certo nei libri di storia non si trovano, vorrei cominciare col citare questo fatto: una signora mia conoscente, parrucchiera, mi ha raccontato di aver raccolto la confidenza di un'anziana cliente che le ha narrato come durante la guerra, nel periodo dell'occupazione tedesca dal settembre '43 all'aprile '45, erano sempre le donne che avevano il compito di procurare la legna indispensabile per cucinare e per riscaldarsi d'inverno, rubandola ai Tedeschi che erano gli unici a possederne, perché i soldati tedeschi non sparavano mai alle donne, neppure in flagranza di furto, e certamente contravvenendo agli ordini ricevuti.

Un tratto di cavalleria che sa di antico e sorprende in mezzo ad una guerra fra le più brutali della storia umana, specialmente se la confrontiamo con il comportamento dei guerrieri del cosiddetto bene, della parte vincitrice. Anche a prescindere dall'impiego su larga scala dell'arma criminale e genocida dei bombardamenti terroristici sui centri abitati che colpivano la popolazione non combattente, cioè soprattutto donne, vecchi e bambini, cosa dire del fatto che in Italia centrale le truppe marocchine furono lasciate libere di saccheggiare e di stuprare?

I partigiani jugoslavi non furono certamente da meno. A parte le molte, moltissime donne italiane incolpevoli di alcunché tranne la loro nazionalità, finite nelle foibe, cosa dire del martirio della povera Norma Cossetto, una ragazza sedicenne ripetutamente stuprata e seviziata nella maniera più atroce prima di essere uccisa.

Avete una figlia dell'età di Norma? Immaginatela nelle mani di una banda di bruti, violentata a più riprese, poi torturata nella maniera più atroce ed infine assassinata: avrete la percezione esatta e reale di quel che significa comunismo.

Il vertice dell'orrore, probabilmente, fu però raggiunto dagli eroi proletari della “casa madre” sovietica. Nel febbraio 1945, una controffensiva tedesca portò alla temporanea liberazione di alcuni villaggi della Prussia orientale che erano già stati occupati dall'Armata Rossa.

Le scene che si presentarono agli occhi dei soldati della Wehrmacht erano tali da sconvolgere perfino i più incalliti veterani: cadaveri di vecchi e di donne che erano stati bruciati vivi dopo essere stati crocifissi alle porte delle case. Su tutti i cadaveri di donne che i medici della Wehrmacht riuscirono ad esaminare, furono trovate tracce di ripetuti stupri, e tracce di stupri furono trovati anche sui corpicini delle bambine, addirittura di tre anni di età.

A questa galleria degli orrori contro il sesso femminile, anche i partigiani italiani hanno dato il loro contributo, con una lunga casistica di ragazze che avevano militato come ausiliarie nella RSI uccise dopo essere state ripetutamente stuprate e spesso torturate, nella maggior parte dei casi dopo il 25 aprile 1945 quando non era rimasto più nessuno a difenderle, a conferma del fatto che la brutalità e la violenza bene si associano con la vigliaccheria.

Le atrocità commesse sia dai comunisti jugoslavi sia dall'Armata Rossa inducono a riflettere sul fatto che il comunismo è in sé un'ideologia assassina e genocida capace di scatenare quanto di peggio c'è nell'essere umano (umano, si fa per dire), ma che in questi due casi è venuto ad incontrarsi con un fondo di bestialità e violenza tipico dell'anima slava di cui abbiamo avuto anche esempi più recenti nella guerra civile nell'ex Jugoslavia, costellata di “pulizie etniche” ed atrocità fratricide.

Di un altro piccolo episodio davvero illuminante, ho avuto notizia da una coppia di signori di Rovigno d'Istria.

In tutta l'Istria, in tutte le terre italiane cadute sotto gli artigli degli assassini con la stella rossa, le foibe non hanno avuto un significato di vendette private, ma erano un metodo sicuramente pianificato di pulizia etnica, servivano a seminare il terrore per indurre gli Italiani alla fuga: in questo modo sono state snazionalizzate terre italiane da millenni. Così è stato per Rovigno come per gli altri centri istriani. Da questi signori rovignesi ho saputo la storia davvero interessante di tre fratelli antifascisti di Rovigno che avevano formato una piccola banda dedita a sabotaggi contro i Tedeschi. Catturati da questi ultimi, furono fucilati tutti e tre. I comunisti jugoslavi a guerra vinta hanno intitolato loro una strada a Rovigno, e la cosa è splendidamente ironica se si pensa che i genitori e i familiari di questi tre ragazzi, sempre dagli stessi comunisti jugoslavi, furono costretti a fuggire dalla città per non finire in una foiba, come tutti gli Italiani dell'Istria.

Tocchiamo con mano il paradosso dell'ideologia assassina simboleggiata dalla falce e martello, dalla bandiera e dalla stella rossa, che riesce a essere nel contempo internazionalista e ferocemente etnica e razzista.

Devo tuttavia dire che, in tutta onestà, quello di poter conservare la memoria mi sembra un privilegio che si estende alle persone della mia generazione, nata negli anni '50, o poco oltre.

Il 10 febbraio 2006 fu inaugurato il monumento nazionale della Foiba di Basovizza. Questo monumento dovrebbe ricordare non solo le migliaia di Italiani colpevoli solo di essere tali trucidati e gettati in quest'inghiottitoio carsico dai partigiani comunisti jugoslavi, ma anche le decine di migliaia di nostri connazionali e fratelli massacrati nello stesso modo dai boia con la stella rossa nelle nostre terre rimaste oltre confine, che non sono state restituite all'Italia e che non avranno verosimilmente mai un analogo tributo della memoria.

In quella circostanza, Roberto Dipiazza, allora sindaco di Trieste e che oggi lo è ridiventato dopo un quinquennio di amministrazione PD del capoluogo giuliano tenne un discorso talmente generico e vago, che alcuni giornalisti locali provarono a domandare ai giovani sotto i vent'anni presenti che fin allora, evidentemente, delle foibe mai avevano sentito parlare, cosa avessero capito, chi erano per quel che costoro avevano compreso, i responsabili degli eccidi delle foibe, e i ragazzi in grandissima maggioranza, od ammisero di non averlo capito, od indicarono come presunti colpevoli “i nazisti”.

Noi apparteniamo, lo si voglia o non lo si voglia, ad una cultura che ha impiegato secoli ad elaborare compiutamente un senso della prospettiva storica (che in altre culture umane – tra i Papua, in Cina o negli USA – è del tutto assente), dall'umanesimo alla cultura idealistico-romantica, da Machiavelli ad Hegel passando per Vico. Questo senso della storicità nelle generazioni più giovani è sostanzialmente scomparso.

Vittime di una cultura mediatica nella quale sono subissati da un diluvio di “informazioni” che si succedono tambureggiando le une alle altre senza lasciare il tempo di assimilarne nessuna, per i nostri ragazzi “due settimane fa” è già preistoria. Si è regrediti alla storia come panegirico, come favola della lotta del bene contro il male, con la vittoria “dei buoni” (che sono “buoni” in quanto hanno vinto) scontata in partenza, ragion per cui è ovvio che tutti gli orrori non possono essere attribuiti altro che alla parte soccombente del secondo conflitto mondiale.

Se un ragazzo di Trieste può essere totalmente disinformato, e di solito lo è, a questo riguardo, come ci possiamo aspettare che stiano le cose per uno di Aosta o di Caltanissetta?

Questo però è solo un lato della questione. Occorre notare che Roberto Dipiazza, non è un uomo di sinistra ma di centrodestra, un berlusconiano, ed allora si capisce bene che in tutto questo c'è qualcosa che non va.

Cosa dire del fatto stesso che Trieste ha avuto dal 2011 al 2016 un'amministrazione comunale di centrosinistra? Con l'esperienza storica che ha la città giuliana, è come se a Gaza fosse stato eletto un sindaco sionista.

Io devo qui ribadire un concetto che ho espresso altre volte: a più di un quarto di secolo dalla caduta del muro di Berlino, la tendenza delle democrazie – anche delle parti politiche che si dichiarano anticomuniste – a minimizzare, a nascondere gli orrori e le atrocità del comunismo, ormai non ci dice nulla di nuovo sul comunismo in sé, ma ci offre una chiave di lettura delle democrazie occidentali.

Per prima cosa, sbarazziamoci della pretesa che hanno questi regimi di essere giudicati non in base a fatti reali ma a ciò che dicono di loro stessi. Le democrazie, specificamente le democrazie occidentali non sono regimi caratterizzati dalla libertà di opinione e dalla sovranità popolare, che vi incontrano precisi limiti e pesanti condizionamenti, ma più semplicemente e realisticamente, i proconsolati del domino americano che tende a diventare mondiale.

Negli anni della Guerra Fredda, la minaccia sovietica offriva all'egemonia americana una comoda legittimazione, poi le cose si sono fatte più complicate. Oggi il timore dell'Unione Sovietica ormai scomparsa è sostituito come fonte di legittimazione dalla “gratitudine” che gli Europei dovrebbero agli USA per averli “liberati” dal fascismo. In quest'ottica, il fascismo è ridefinito come “male assoluto” e l'invasione americana dell'Europa è travestita da crociata salvifica.

Rispetto a questo quadro di totale mistificazione, la scoperta che fra i vincitori del secondo conflitto mondiale vi sono state forze autrici di orrori più atroci e di ampiezza maggiore di quelli attribuiti al fascismo, al presunto male assoluto, è destabilizzante. Paradossalmente, dalla fine della Guerra Fredda un anticomunismo non troppo velato diventa sospetto e pericoloso, così come sospetto e pericoloso è voler rimettere in questione l'attribuzione al fascismo dell'etichetta di “male assoluto”.

Da qui, tutta una serie di conseguenze, non solo l'ostracismo contro la nostra parte politica giunto ormai alla terza generazione, non solo la persecuzione contro gli storici “revisionisti” colpevoli di voler riesaminare la vulgata stabilita dai vincitori alla fine del conflitto, ma il moltiplicarsi delle fattispecie dei reati di opinione, che è l'evidente ed esatto contrario di quella libertà di pensiero su cui le democrazie pretenderebbero di fondarsi.

E qui s'inserisce bene l'ultima (per ora) delle memorie controcorrente di cui vorrei parlarvi, la testimonianza di un collega profugo dell'Istria. Un'altra volta vi racconterò non solo le traversie patite dalla sua famiglia, ma le peripezie che egli stesso ha dovuto subire, compresa una vicenda giudiziaria grottesca e pirandelliana, per essersi schierato dalla parte dell'opposizione nazionale, una storia che è davvero una conferma lampante che i buoni democratici sono così democratici da ritenersi in dovere di tappare la bocca con ogni mezzo a chi la pensa diversamente, ma ora vorrei richiamare soltanto un punto della testimonianza di questo collega ed amico.

Vi sorprenderà sapere che una delle città italiane che sono state bombardate con maggiore ferocia dagli angloamericani nel corso del secondo conflitto mondiale, è stata la città di Zara in Dalmazia che ha subito nel corso della guerra ben 47 bombardamenti violentissimi, di quelli che non lasciano dietro di sé pietra su pietra. E' da notare che a Zara non c'erano né forze militari di consistenza degna di nota né industrie importanti ai fini bellici. Ed allora, quale è stato il motivo di tanto accanimento? Semplice! Zara era il principale centro italiano in Dalmazia, con la sua stessa esistenza dimostrava la consistenza e l'antichità della presenza italiana sulla sponda orientale dell'Adriatico, ben oltre i confini che ci erano stati concessi a Versailles e con il trattato di Rapallo, e per questo motivo doveva essere distrutta, annientata.

Vi è chiaro, riuscite a capire esattamente cosa significa questo?

Alla conclusione della seconda guerra mondiale, dal Baltico all'Adriatico scattò una gigantesca operazione di “pulizia etnica” sicuramente pianificata da lungo tempo, con lo scopo di far avanzare il mondo slavo e comunista ai danni di quello latino e di quello germanico. Nelle terre italiane dell'Adriatico le vittime delle foibe furono “solo” qualche decina di migliaia (l'entità precisa non si conosce ed ovviamente non si conoscerà mai) perché l'area da “pulire etnicamente” era relativamente ristretta ed in fondo non si trattava di costringere alla fuga con il terrore non più di mezzo milione di persone. Tra il Baltico e il Danubio, sotto gli artigli assassini dell'Armata Rossa la tragedia ebbe un'altra dimensione: prima del conflitto, a oriente dell'Oder vivevano quindici milioni di Tedeschi; dopo di esso, si contarono in occidente dodici milioni di profughi, tre milioni di persone scomparvero nel nulla, anche se la temporanea riconquista del febbraio '45 di cui vi ho già detto ci da un'idea dei metodi usati per toglierle dalla faccia della Terra da parte degli sgherri comunisti che solo a prezzo di una scatenata fantasia possono essere considerati un esercito, e meglio si possono descrivere come un'orda di belve feroci che forse aveva di umano l'andatura bipede.

Se noi assommiamo a questi tre milioni di trucidati i quattro milioni di vittime civili dei bombardamenti angloamericani in Europa, le vittime delle foibe, le vittime fuori dall'Europa (non dimentichiamo che il Giappone subì due bombardamenti nucleari, per non parlare di tutti gli altri “convenzionali”), vediamo che alla parte vincitrice del secondo conflitto mondiale è attribuibile un delitto contro l'umanità, un genocidio di proporzioni non inferiori a quello di cui si è incolpata la parte perdente (con tutta l'obiettività e l'imparzialità – va detto – della ritorsione dei vincitori sui vinti).

La tragedia di Zara ci illumina su di un'altra verità più generale: le atrocità compiute dalle belve comuniste hanno avuto nelle democrazie occidentali, negli angloamericani piena complicità ed attiva connivenza. E qui viene a cadere un'altra menzogna, la pretesa delle democrazie di basarsi sul rispetto dei diritti umani.

Comunismo e democrazia, Stati Uniti ed Unione Sovietica: due facce della stessa orrida e sanguinosa medaglia, con la differenza che l'Unione Sovietica si è dissolta una ventina di anni fa, mentre gli Stati Uniti – purtroppo – esistono ancora.

Una piccola nota riguardo all'immagine che correda il presente articolo: non si tratta di un capolavoro iconografico, è la foto di un reparto di fanteria italiano all'attacco durante la seconda guerra mondiale, ma ha almeno un importante pregio, quello di mostrarci le nostre truppe che combattono. Se andate a fare una ricerca in internet, trovate moltissime immagini che ci mostrano i nostri soldati laceri e macilenti durante la ritirata di Russia, o mentre si arrendono agli Americani o agli Inglesi oppure ai Tedeschi (dopo l'8 settembre). Se date credito a questa iconografia, sembrerebbe che durante tutta la guerra i nostri soldati non abbiano fatto altro che ritirarsi e arrendersi, e d'altra parte, questa falsità è precisamente l'idea più diffusa che la gente ha del nostro comportamento durante la seconda guerra mondiale. La repubblica democratica e antifascista ha appassionatamente coltivato la leggenda dell'italiano imbelle, si è voluta un'Italia meno “caserma” possibile perché fosse quanto più possibile “sacrestia” e “cellula di partito”, leggenda smentita da El Alamein, Nikolewka, dall'eroica resistenza dei nostri combattenti all'Amba Alagi e a Giarabub, e anche dai reparti della RSI che dopo l'8 settembre 1943 continuarono a opporre al nemico soverchiante una resistenza ai limiti dell'umanamente possibile (se in Italia dal 1943 al 45 c'è stata una “resistenza”, è stata questa, non certo quella dei voltagabbana partigiani). È facile fare gli eroi quando si dispone di una schiacciante superiorità tecnologica, numerica e logistica sull'avversario. Ben altra cosa è l'eroismo che seppero dimostrare i nostri combattenti di fronte alla superiorità nemica, spesso ribaltandola con il puro coraggio e la determinazione.

 

Le due facce del risorgimento, prima parte – Fabio Calabrese

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risorgimento

Devo dire che qui a Trieste siamo proprio un bel gruppo. Forse dipende dal fatto che la città giuliana ha avuto una storia tormentata, il cui destino è rimasto in bilico per nove anni dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, e per tutta l'epoca della Guerra Fredda è stata uno scomodo balcone, un antemurale affacciato sul mondo comunista, e ha poi subito dalla madrepatria “democratica e antifascista” la coltellata alla schiena del trattato di Osimo, lasciando i miei concittadini da soli nella difesa della nostra identità. Tutte cose che non sono venute meno con la dissoluzione dell'impero comunista, anzi, in un certo senso si può dire che la minaccia slava sia stata per noi una sorta di prefigurazione di quella oggi rappresentata per tutti quanti dalla globalizzazione e da un'invasione mascherata da immigrazione che preannuncia la sostituzione etnica, la morte della nostra gente, se non faremo nulla per fermarla.

In ogni caso, un bel gruppo non solo di militanti, ma anche di teste pensanti. Sulle pagine di “Ereticamente” voi avete ad esempio imparato a conoscere Michele Ruzzai, appassionato studioso di tradizioni ancestrali, che ci ha raccontato i miti iperborei in una serie di begli articoli. Quel che non potete sapere, è il fatto che Michele è anche una persona di uno humor incredibile, di quelli che da soli ti tengono in piedi una serata, al punto da spingere a chiedersi come mai non abbia scelto il cabaret come attività professionale.

Che dire di Ugo Fabbri, nella sua doppia veste di militante di lunghissima data, di quelli che hanno vissuto in prima linea gli anni di piombo della contestazione e delle interminabili persecuzioni giudiziarie sempre contro i nostri militanti, e di ricercatore scientifico “fuori dagli schemi”, portatore di un duro e documentato attacco all' “ortodossia scientifica” ufficiale oggi rappresentata dalla teoria einsteiniana?

Si possono poi citare due figure di giovani e brillanti ricercatori storici e politologi come Lorenzo Salimbeni, e Marco Bagozzi di cui ho avuto il piacere di recensire sulle nostre pagine il saggio sul nazionalbolscevismo. Vorrei poi menzionarvi anche Giorgio Rustia, un biologo triestino che, dopo essere vissuto un trentennio lontano da Trieste per la sua attività professionale, è oggi rientrato nella città natale e ha posto mano a importanti saggi storici, e del cui ultimo libro in particolare, Atti, meriti e sacrifici dei reggimenti Milizia Difesa Territoriale al confine orientale italiano, vi ho dato un assaggio attraverso una doppia recensione.

In questo quadro poi, se permettete, modestamente, ci sono anch'io.

Una figura assolutamente non di secondo piano in questo ambiente triestino, è quella di Gianfranco Drioli, autore di due bei libri pubblicati dalle Edizioni Ritter, “Ahnenerbe”, dedicato alle ricerche e all'eredità culturale lasciata da questa associazione nazionalsocialista, e “Iperborea, ricerca senza fine della patria perduta”.

Recentemente Gianfranco Drioli mi ha coinvolto in una nuova iniziativa, una serie di conferenze nella sede della Casa del Combattente triestina. Poiché siamo sempre a un secolo esatto dalla prima guerra mondiale, la prima di esse ha riguardato questo argomento, e non ve ne ripropongo qui il testo, perché esso era basato sui tre articoli “Una guerra sbagliata” che avete già letto sulle nostre pagine.

Poiché essa ha avuto un discreto successo, mi è stato chiesto di fare un approfondimento ripercorrendo la situazione risorgimentale dove sono da ricercare le premesse della nostra partecipazione a questo conflitto. L'oggetto della seconda conferenza tenuta nel mese di giugno, è stato “Le due facce del risorgimento”. Ve lo ripropongo qui suddiviso in due parti.

Nel 2011, la ricorrenza dei centocinquanta anni dell'unità italiana, coincidente con la proclamazione del regno d'Italia avvenuta nel marzo 1861, è stata l'occasione per rinnovare antiche polemiche. Bastava fare un giro in internet digitando “risorgimento” su di un qualsiasi motore di ricerca, e compariva sotto gli occhi una quantità di siti veramente notevole, tra i quali quelli che parlavano in termini fortemente negativi, “peste e corna” come si suol dire, del fenomeno risorgimentale, erano in schiacciante maggioranza. Io non ho rifatto la prova recentemente, ma dubito che da allora la situazione sia sostanzialmente cambiata, se non in peggio.

Una delle poche cose in cui la maggior parte degli Italiani sembra oggi concorde, è nel maledire coloro che hanno costruito uno stato nazionale al posto di una congerie di staterelli il cui peso sulla politica internazionale era nullo, ed erano semmai oggetto, “terreno di caccia” delle contese e delle spartizioni fra le potenze europee dell'epoca.

Poche, pochissime le voci che si sono levate e si levano in difesa dell'unità nazionale.

Se considerassimo le cose con gli occhi di uno straniero, se non conoscessimo le tabe e le miserie della cultura italiana, pesantemente aggravate da settant'anni di democrazia imposta dai vincitori del secondo conflitto mondiale, ci sarebbe di che essere stupefatti: cento anni, quattro generazioni di lotte, sacrifici, sofferenze che poco per volta hanno portato alla rinascita dello stato nazionale, a quell'unità che la nostra Penisola non aveva conosciuto per quindici secoli.

Tutto ciò dovrebbe, in teoria, ispirare un forte senso di orgoglio nazionale, diciamolo pure, uno spirito di epopea, del quale invece non si trova traccia.

Quella con cui ci confrontiamo è prima di tutto una forma di snobismo, di snobismo meschino, da anticonformisti fabbricati in serie, rigorosamente uguali a tutti gli altri anticonformisti, che credono di mostrare chissà quale originalità di pensiero proclamandosi antipatriottici, e non riescono a capire che in questa nostra "serva Italia di dolore ostello", è per proclamarsi italiani a testa alta, che ci vuole coraggio.

L'atteggiamento di rigetto dell'unità nazionale pare essere radicato particolarmente nel meridione dove essa è vista come annessione e assoggettamento “piemontese” di una presunta nazione “napoletana” o “bi-sicula” (delle Due Sicilie), ma anche nel nord non mancano atteggiamenti di rifiuto in nome di separatismi che fanno capo a pseudo-nazionalità padane, cisalpine, longobarde o venete.

Tanto per completare il quadro, vediamo quello che sul nostro risorgimento raccontano i libri di storia o almeno la maggior parte di essi. Noi sappiamo che la serie di rivolgimenti, lotte, guerre che ha prodotto l'unità nazionale italiana copre all'incirca un secolo di storia, dalla rivolta dello “squadrone sacro” di Nola per ottenere una costituzione nel regno delle Due Sicilie nel 1821, alla battaglia del Col Moschin, l'ultima della prima guerra mondiale sul fronte italiano nel 1918. Bene, in alcuni testi il periodo risorgimentale si trova “compresso” ai soli episodi della seconda guerra d'indipendenza, alle annessioni nell'Italia centrale e all'impresa dei Mille, insomma al solo biennio 1959-60.

Ma soprattutto la vulgata corrente che troviamo sui testi scolastici, al di là delle demarcazioni temporali, limitano il discorso risorgimentale alla contrapposizione tra moderati e democratici, come se il problema fosse stato unicamente quello della concessione o meno del suffragio universale alle masse popolari, ignorando che nel frattempo questi “padri risorgimentali” divisi da queste lotte intestine di cui si dilata all'estremo l'importanza, dovevano anche confrontarsi con gli apparati polizieschi e repressivi degli stati pre-unitari, e soprattutto con l'Austria che era allora una delle principali potenze europee e mondiali, oltre a vedervi un affare interno delle classi borghesi e sottostimare clamorosamente l'apporto popolare.

Noi pensiamo al fatto che Milano ribellatasi nel 1848 cacciò il presidio austriaco dalla città in cinque giorni di feroci combattimenti strada per strada, che Venezia anch'essa insorta nel 1848, resistette per un anno e mezzo alla riconquista austriaca. Nel 1849 Brescia, insorta per impedire alle truppe di Radetzski di prendere alle spalle l'esercito di Carlo Alberto, impose agli Austriaci per riconquistarla, una lotta di dieci giorni casa per casa. Il piccolo paese friulano di Osoppo resistette per mesi alla riconquista austriaca, e naturalmente a fare ciò furono il medico condotto, il farmacista del paese e un paio di possidenti nell'indifferenza dei paesani. Potremmo anche non menzionare il fatto che proprio per i prodigi di valore compiuti dalla gente di questo paese nel 1848, esso diede il nome a una brigata partigiana non comunista durante la seconda guerra mondiale che fu massacrata dai comunisti alle malghe di Porzus, uno degli episodi che meglio illuminano cosa realmente fosse la cosiddetta “resistenza” del 1943-45. Quel che importa, è che questi sono fatti storici ben documentati, e la tesi dell'estraneità delle masse popolari al risorgimento, oltre che falsa, è ridicola.

Il fatto è, a mio modesto parere, che le forze politiche di ispirazione nazionale perlopiù sottovalutano gravemente le conseguenze, la pericolosità e la dannosità del fatto che la sinistra da noi abbia di fatto il monopolio del mondo della scuola, il controllo della formazione dei giovani, che diventa a tutti gli effetti un'opera di deformazione delle coscienze proprio nell'età in cui si hanno meno difese e meno contravveleni alle influenze esterne.

In linea di massima, le “culture” oggi dominanti nella società italiana sono quella di sinistra e quella cattolica. Marxismo e cristianesimo sono entrambi avversi al principio di nazionalità. Noi dobbiamo anche considerare il fatto che la Chiesa cattolica ha costantemente ostacolato il moto risorgimentale allo scopo di salvaguardare il potere temporale pontificio. Fa specie, dà veramente fastidio ricordare che quando papa Woytila proclamò la beatificazione di Pio IX, vi furono solo alcune proteste della comunità ebraica a motivo di alcune frasi di questo pontefice di presunto contenuto antisemita. Quel 98% degli Italiani che non è di religione ebraica, pare non trovasse nulla da ridire sul fatto che venisse elevato all'onore degli altari un avversario dell'unità italiana, e nemmeno sul fatto che questa canonizzazione fosse subito seguita da quella di Carlo II, l'ultimo imperatore d'Austria.

Poiché i tempi cambiano, non sarà difficile ricordare che nel 2011, per il secolo e mezzo dall'unità nazionale, abbiamo avuto grandi manifestazioni di patriottismo soprattutto a sinistra, il che è suonato perlomeno strano. A questo proposito, occorre ricordare che nel 2004, in occasione della ricorrenza dei cinquant'anni della restituzione di Trieste all'Italia, il comune di Trieste che allora aveva un'amministrazione di centrodestra, organizzò una cerimonia a cui invitò le scuole triestine a partecipare con una delegazione, e inviò a ciascuna di esse dei pacchi contenenti bandierine tricolori e copie dell'inno di Mameli, che i ragazzi avrebbero dovuto cantare. Nessuna scuola mandò una delegazione, e il preside di un noto liceo, che era stato candidato del PD alla presidenza della provincia di Trieste, fece bruciare i pacchi con inni e bandierine nel cortile della scuola per dare la massima pubblicità e rilevanza al suo rifiuto.

Ora, una cosa che certamente non si può contestare, è che 11 – 4 = 7, e sette anni sono davvero troppo pochi per un simile rivolgimento di mentalità se fosse stato davvero qualcosa di profondo e non puramente strumentale.

In effetti, con questa inedita conversione al patriottismo, noi possiamo pensare che la sinistra nostrana, la cui buona fede non dobbiamo mai presupporre, si proponesse più di una finalità diversa da quelle dichiarate; una, abbastanza ovvia, era quella di dare fastidio ai leghisti, il che ci potrebbe piacere o pure no, che comunque in linea di massima non raccolsero la provocazione; l'altra – più subdola – era di propagandare surrettiziamente la LORO idea di Italia, sempre più multietnica e basata sui “nuovi italiani” assai più che su quelli nativi e autentici.

La sinistra tende a sostituire la nazionalità con la cittadinanza, la comunità di sangue, suolo e memorie con un timbro su un pezzo di carta. Si può amare un timbro su un pezzo di carta?

Tutto questo va necessariamente premesso, perché non ci dobbiamo mai dimenticare che il dibattito sulla nostra storia nazionale è pesantemente inficiato da interpretazioni che di storico non hanno nulla, ma sono pesantemente ideologiche.

Tuttavia, se veniamo ad ambienti più vicini alla nostra sensibilità, vediamo che la contraddizione sulla valutazione da dare del periodo risorgimentale rimane nondimeno stridente, al punto che da questo punto di vista essi appaiono letteralmente spaccati in due.

Da un lato c'è, ma è minoritaria, la posizione patriottico-nazionale che potremmo sintetizzare nella famosa frase my country in right or wrong, “la mia patria nel bene e nel male”, dall'altro coloro che non mancano di rilevare che l'unità italiana è avvenuta come prodotto indiretto, effetto collaterale di un movimento di sovversione che non ha soltanto cambiato la struttura del potere facendolo passare, come è stato detto, “dai castelli alle banche”, dalle mani delle élite tradizionali a quelle dell'oligarchia usuraia con il pretesto e sotto la maschera del liberalismo, delle riforme democratiche, delle rivendicazioni sociali, ma ha anche provocato la decadenza del nostro continente, facendogli perdere quell'egemonia planetaria di cui godeva fin dal XVI secolo, trasformandolo dopo la seconda guerra mondiale in un condominio sovietico-americano, e oggi in una serie di proconsolati degli Stati Uniti.

La contraddizione è pesante e ci tocca sul vivo, e nel 2011 lo si è visto con molta chiarezza. Come se ciò non bastasse, bisogna ammettere anche che i “padri risorgimentali” si sono spesso comportati con estrema brutalità con le popolazioni, soprattutto meridionali, riluttanti all'unificazione. Poiché il dibattito sull'argomento era già partito con un certo anticipo rispetto a questa scadenza del secolo e mezzo, si può menzionare in questo senso un pesante articolo pubblicato sul suo sito EffeDiEffe dal giornalista Maurizio Blondet nel marzo 2010, che è potremmo dire, un sunto degli argomenti anti-risorgimentali.

All'epoca, riflettendo su queste problematiche, ebbi un'improvvisa intuizione. Non era che per caso tutti noi, patrioti e anti-risorgimentali, eravamo caduti in un mostruoso equivoco? Scrissi un articolo sull'argomento, che inviai al mensile “L'uomo libero”, e che mi fu pubblicato nel n. 70 del novembre 2010, intitolato appunto Il grande equivoco.

L'equivoco consiste, a mio parere, nel confondere due cose che sarebbe invece importante riconoscere come diverse e tenere ben distinte.

Da un lato il sano, normale, doveroso senso di appartenenza alla propria nazione, la cui identità, unità e indipendenza sono state conculcate per secoli e, per quanto riguarda il fenomeno risorgimentale, l'insorgenza spontanea del nostro popolo stanco dell'oppressione e della dominazione straniere. Dall'altro, un movimento politico di uomini con tutt'altre finalità che a un certo punto si è impadronito del moto popolare distorcendolo a finalità non dichiarate e di tutt'altro genere.

Noi possiamo e dobbiamo parlare del risorgimento come di un fenomeno non unitario, ma che in realtà presenta due facce ben distinte.

Il caso è forse analogo alla storia dei movimenti socialisti che sono nati dalla ribellione naturale e legittima delle classi lavoratrici di fronte allo sfruttamento e alle ingiustizie della rivoluzione industriale, “confiscata” poi da una “intellighenzia” volta a instaurare il sistema di tirannidi e privilegi di tipo sovietico.

La confusione fra le due cose, il normale senso di appartenenza alla nostra nazione e l'inconsapevole complicità con l'internazionalismo massonico volto a scalzare i fondamenti dell'Europa tradizionale (con tinteggiature più o meno risorgimentali), è il grande equivoco che ha pesato sinistramente su tutta la nostra storia, forse secondo solo all'altro grande equivoco “immenso e rosso” che ha indotto a scambiare l'insieme di tirannidi più sanguinarie della storia per “il movimento di liberazione dei lavoratori”. Adesso di quest'ultimo non ci occuperemo, ma vedremo di dissipare una volta per tutte quello che aduggia le radici della nostra “storia patria”.

Giuseppe Mazzini forse uno dei pochissimi ingenui in buona fede che si sono trovati alla testa del moto risorgimentale, dimostrò un barlume di comprensione quando, riguardo all'insurrezione parigina del 1830 che determinò il passaggio del potere “dai castelli alle banche”, scrisse (Dei doveri degli uomini):

“Chiamate traditori quegli uomini? Dovreste chiamare traditrici le loro idee”.

L'Austria, il dominatore e il nemico contro cui si diressero la maggior parte delle lotte risorgimentali, in realtà non fu che l'ultimo di una lunga serie di invasori e dominatori stranieri che avevano occupato la Penisola, a partire dalla caduta dell'impero romano, dagli Eruli di Odoacre e dagli Ostrogoti di Teodorico, essa poi non aveva nemmeno invaso l'Italia, ma aveva ereditato i possessi italiani della Spagna a seguito della guerra di successione spagnola, come compenso per l'accettazione di un Borbone invece di un Asburgo sul trono di Spagna.

Sarà poi il caso di ricordare che quello che possiamo considerare il primo episodio di quel ritrovato orgoglio nazionale che caratterizzò il risorgimento e che fu, almeno nelle prime fasi effettivamente un moto popolare, non fu un'insurrezione contro l'Austria ma contro la Francia, la ribellione di Verona alle angherie delle truppe napoleoniche che doveva portare alla dura repressione poi ricordata come “pasque veronesi”. Quella Francia per la quale gli pseudo-patrioti liberali cavouriani e garibaldini dovevano nutrire una passione sviscerata e insana nell'illusione che continuasse a essere la stessa della rivoluzione del 1789, quella Francia che nel 1849 stroncò la repubblica romana, che nel 1859 tradì il Piemonte con l'armistizio di Villafranca ma pretese e ottenne ugualmente la cessione di Nizza e della Savoia, e che fino al 1870 era destinata a essere l'ostacolo all'annessione di Roma.

Gli episodi di Milano, di Brescia, di Osoppo, per nulla dire della lunga resistenza durata un anno e mezzo, di Venezia alla riconquista austriaca, dimostrano chiaramente che, a differenza di quanto si affannano a raccontarci con zelo degno di miglior causa i testi di ispirazione di sinistra che circolano nelle nostre scuole, almeno fino alla repressione dei moti del 1848-49, il moto risorgimentale fu effettivamente un movimento popolare, ma dopo di allora la musica fu alquanto differente.

La verità pura e semplice, è che, almeno dopo il 1848, il moto risorgimentale, tanto nella variante garibaldina quanto in quella cavouriana (il solito gioco delle parti fra destra e sinistra fra le quali non c'è nessuna differenza sostanziale) fu “sponsorizzato” dalla massoneria internazionale le cui “teste” si trovavano a Washington, Londra e Parigi. L'unità italiana fu un effetto collaterale di un movimento le cui finalità erano altre, tendente a sostituire in tutta Europa la tradizionale egemonia del sangue delle classi aristocratiche con quella del denaro.

Grosso modo, LA CONFISCA del risorgimento, la sua trasformazione da moto popolare essenzialmente patriottico e popolare a movimento strumentalizzato dalla cospirazione liberal-massonica internazionale, coincide temporalmente con il fallimento dei moti del 1848-49. Le figure chiave di questa trasformazione sono Cavour e Garibaldi.

Le due facce del risorgimento, seconda parte – Fabio Calabrese

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Non è possibile sapere se gli accordi di Plombiers sottoscritti da Cavour per il Piemonte sabaudo con la Francia di Napoleone III non siano stati sottoscritti con delle riserve mentali da parte dello statista piemontese, ma il progetto di risistemazione dell'Italia che disegnavano, funzionale agli interessi del liberalismo internazionale e della massoneria, di nazionale e patriottico avevano assai poco; il progetto contemplava semplicemente la sostituzione dell'egemonia francese a quella austriaca in Italia, l'attribuzione della Lombardia al regno sabaudo e un napoleonide al posto del Borbone sul trono di Napoli. In sostanza, l'Italia rimaneva un terreno di spartizione fra le potenze europee e i loro contrapposti interessi, come era stata un secolo prima con le guerre di successione, durante l'epoca napoleonica, ma potremmo dire fin dalla calata in Italia del re di Francia Carlo VIII nel 1494, ma forse addirittura dall'alto medioevo con le lotte fra bizantini e longobardi.

In più, la prevista cessione alla Francia di Nizza e della Savoia, rappresentava per quest'ultima un incremento territoriale modesto, ma doveva avere un considerevole valore psicologico: poiché si trattava proprio della città di Garibaldi e della culla della dinastia sabauda, avrebbe dovuto sancire il fatto che la nuova Italia nata dalla guerra che ci si apprestava a muovere all'Austria, sarebbe dovuta essere del tutto succube della Francia.

Un'ipotesi che è stata avanzata, e a me sembra molto verosimile, è che la ragione per la quale Napoleone III cambiò idea a guerra iniziata e stipulò con gli Austriaci l'armistizio di Villafranca lasciando il Piemonte nelle peste ad affrontare da solo la reazione austriaca o a sottoscrivere a sua volta la pace alla svelta, furono le insurrezioni che si erano verificate nell'Italia centrale, in Toscana, nei ducati e nella legazioni che formano oggi l'Emilia Romagna. Queste convinsero l'imperatore dei Francesi che la guerra non avrebbe portato alla realizzazione del progetto di Plombiers, ma alla nascita di uno stato unitario nella Penisola, cosa che per la Francia non rappresentava nessuna convenienza. Furono gli Italiani, semmai, a sentirsi legati a Plombiers con un servilismo sorprendente dopo che il Bonaparte li ebbe scaricati, ma questo lo vedremo più avanti.

Tutte le volte che l'interesse dell'Italia era in contrasto con quello della loggia, i “patrioti” scelsero quest'ultimo, dando così un'implicita dimostrazione di quale fosse la loro vera “patria”. Cominciarono i garibaldini comandati da Nino Bixio reprimendo con estrema durezza l'insurrezione contadina di Bronte; lì c'era la Ducea di Nelson, lì c'erano interessi inglesi da tutelare. Cerchiamo di avere le idee chiare a questo proposito: mille uomini o poco più, quante erano le camicie rosse, non avrebbero mai potuto avere la meglio su di un regno esteso a metà della Penisola come era quello borbonico, senza il consenso e l'attivo sostegno delle popolazioni. Senza di esso, Garibaldi non avrebbe potuto fare altro che ripetere le esperienze disastrose e suicide già fatte dai fratelli Bandiera e da Carlo Pisacane.

Pochi anni dopo esplodeva nel meridione la rivolta popolare fatta passare per “brigantaggio”, lo scollamento fra le plebi meridionali e lo stato unitario era completo. Questo lo si dovette all'esosa fiscalità piemontese, al servizio di leva obbligatorio, ma prima ancora a Bronte ed episodi dello stesso genere, ma ancora di più al nuovo stato unitario che aveva iniziato a trattare il meridione italiano come terra di conquista, come una colonia.

Nel 1870 i garibaldini accorrono in Francia ad aiutare i Francesi contro i Prussiani, quegli stessi Francesi, per intenderci, che nel 1848 avevano soffocato nel sangue la Repubblica Romana, che nel 1859 avevano abbandonato il Piemonte in guerra con l'Austria concludendo unilateralmente l'armistizio di Villafranca, che nonostante ciò nel 1860 avevano preteso ugualmente e ottenuto l'annessione di Nizza e della Savoia, le cui truppe nel 1867 a Mentana avevano fatto a pezzi gli stessi garibaldini, e che al momento presente erano l'ostacolo all'annessione di Roma.

La cosa che sembrerebbe a tutti gli effetti un'assurdità inspiegabile, ha in realtà la sua spiegazione nel fatto che a Sedan non solo l'esercito francese era stato pesantemente sconfitto dai Prussiani, ma lo stesso imperatore Napoleone III era stato catturato. L'improvvisa fine del secondo impero napoleonico fece senza dubbio pensare a costoro che si era prossimi alla resurrezione della Francia giacobina di ottant'anni prima, e del tutto infondata questa previsione non doveva essere, infatti di lì a poco su questa vicenda si innestò l'episodio della Comune. In ogni caso, tutto ciò ci impone di rileggere l'immagine, il cliché del garibaldino come combattente ideologico, non patriottico, e appunto di puro odio ideologico possiamo parlare nei confronti della Prussia e del nuovo impero tedesco sorto attorno ad essa, in quanto la Germania rappresentava per il mondo “liberale” massonico occidentale anglo-franco-americano un avversario ben più temibile dei vecchi regimi reazionari restaurati col Congresso di Vienna, un odio nel quale si trova la radice la reale causa delle tragedie che arriveranno nel XX secolo con le due guerre mondiali.

Con la Prussia e con quella che di lì a poco sarebbe stata la nuova Germania, non solo l'Italia non aveva alcun genere di contenzioso, ma anzi, era proprio grazie all'alleanza con essa che avevamo avuto il Veneto nel 1966, e sarebbe stata proprio la vittoria prussiana sulla Francia ad aprirci la strada all'annessione di Roma. Si vede bene dunque come l'ultima impresa garibaldina non solo era dettata da motivazioni esclusivamente ideologiche, ma era in netto contrasto con i nostri interessi nazionali.

A questo punto forse sarà utile fare un passo indietro e dire qualcosa della guerra austro-prussiana del 1866, per noi terza guerra d'indipendenza, che ci fruttò l'annessione del Veneto ma sul campo ci fece registrare la sconfitta terrestre di Custoza e quella navale di Lissa.

Io sono sempre dell'idea che uno straniero che andasse a esaminare la nostra storiografia mettendosi nei nostri panni, non cesserebbe di provare a ogni momento o quasi un moto di stupore. Laddove gli appartenenti a una qualsiasi altra nazionalità cercherebbero di esaltare le proprie glorie nazionali e di attutire o almeno giustificare gli smacchi, sembra che gli Italiani, o almeno certi italiani godano a ricoprirsi di fango. In realtà noi sappiamo bene che la vera causa di tutto ciò è la cultura sinistro-cattolica che domina da noi, radicalmente avversa al principio di nazionalità.

Che la prima prova militare del nuovo stato unitario sia stata tutt'altro che esaltante, questo si deve obiettivamente riconoscere, ma sono molti i fattori che vanno considerati sui quali gli storici che si sono assunti il compito di denigrare quanto più possibile il risorgimento glissano alla grande. Prima di tutto occorre ricordare che l'Austria che a quel tempo era una delle maggiori potenze europee, aveva concentrato le sue forze soprattutto sul fronte italiano, seguendo probabilmente una logica che risaliva alle guerre di successione settecentesche, per la quale la partita per l'Egemonia in Europa si giocava sostanzialmente in Italia, e fu proprio il fatto che le truppe austriache fossero prevalentemente schierate sul fronte italiano, che permise alla Prussia di riportare la travolgente vittoria di Sadowa.

Oltre a ciò, bisogna considerare il fatto che l'esercito e la mariana italiani erano, per così dire “in mezzo al guado”. Lo stato unitario nato cinque anni prima non aveva ancora portato a termine la degli eserciti degli stati pre-unitari in un'unica forza armata nazionale armonizzando scuole e tradizioni diverse. Si pensi anche al fatto che il grosso delle nuove forze che si erano venute ad aggiungere a quelle piemontesi, era rappresentato per ovvi motivi di estensione geografica e relativa demografia, dagli appartenenti all'ex regno delle Due Sicilie, che erano stati fino ad allora una forza armata concepita non per combattere avversari esterni, ma essenzialmente per mantenere l'ordine pubblico nello stato borbonico (lo scomparso Ferdinando II di Borbone soleva dire che il suo regno era un'isola circondata da tre lati dall'acqua salata e dal quarto dall'acqua santa, cioè lo stato pontificio).

I nostri anti-risorgimentali che potrebbero dedicare il loro zelo a miglio causa, hanno elaborato la “teoria” (siamo molto caritatevoli a chiamarla così) delle tre “S”, cioè Solferino, Sadowa, Sedan. Ossia la vittoria francese di Solferino, e quelle prussiane nella guerra del 1866 e in quella del 1870, cioè in definitiva che la nostra unità nazionale sarebbe stata il risultato fra i conflitti tra le potenze europee nel XIX secolo, nei quali avremmo avuto ben poca parte attiva. Si tratta di una vera e propria mistificazione che esprime uno spirito che è l'esatto opposto dei sentimenti verso la propria nazionalità che troviamo ovunque fuori dai nostri confini, lo spirito di chi, ignorando e mistificando quello che i nostri avi hanno fatto nel risorgimento, sulle pietraie del Carso, a Nikolaewka, a El Alamein, negli ultimi settant'anni ha fatto di tutto per cucirci addosso l'immagine dell'italiano furbetto-vigliacchetto, si è adoperato perché l'Italia fosse meno caserma possibile, per essere quanto più possibile sacrestia e cellula di partito.

Di Sadowa ho appena detto, e quanto a Solferino, gioverà ricordare che parallelamente (al punto che i due eventi possono essere considerati un'unica grande battaglia) ci fu la vittoria dei Piemontesi a San Martino, ma una certa storiografia, che purtroppo è quella che domina nelle nostre scuole, ricorda o perlomeno evidenzia solo ciò che le fa comodo.

Ma torniamo a quello che fu il comportamento di Cavour, che scomparve nel giugno 1861, poco dopo la proclamazione del regno d'Italia, e dei suoi diretti eredi, la cosiddetta destra storica, un comportamento peggiore e più esiziale di quello della sinistra garibaldina. Come abbiamo visto, il risorgimento ha due facce e, visto alla luce degli interessi nazionali italiani, esso appare obiettivamente incomprensibile, mentre ben si spiega considerando la sudditanza di costoro a quella che possiamo considerare l'internazionale liberal-massonica. A dare l'esempio fu lo stesso Cavour portando a compimento la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia come se il voltafaccia di Villafranca non fosse mai avvenuto.

Peggio, molto peggio fecero i suoi diretti eredi nel quindicennio 1861-1876, che rinunciarono a priori a qualsiasi progetto di sviluppo industriale e di espansione coloniale perché l'Italia non entrasse in concorrenza con gli interessi inglesi e francesi. Un ritardo che, sommandosi a quelli accumulati nella nostra storia preunitaria, doveva avere conseguenze pesanti per noi per quasi un secolo. D'altra parte, neppure la scelta suicida della rinuncia a uno sviluppo industriale avrebbe potuto far sì che il nuovo stato italiano non si trovasse in concorrenza piuttosto con i franco-britannici che con il mondo germanico, come testimonia la cosiddetta guerra del vino scoppiata fra Italia e Francia alla fine del XIX secolo.

A ripercorrere la storia di quel quindicennio che fu disgraziatamente cruciale, perché fu quello della formazione del nostro stato unitario, c'è di che rimanere sbalorditi. Nonostante Villafranca, il servilismo nei confronti della Francia continuò a essere totale: l'impero francese fu preso a modello dell'organizzazione amministrativa, e così pure l'organizzazione dell'esercito nato dalla fusione delle forze piemontesi con quelle degli stati pre-unitari, con conseguenze che durante la prima guerra mondiale si riveleranno disastrose.

Ancora oggi passeggiando per Torino, si nota che l'impianto urbanistico con gli ampi viali che ne fanno forse la città più estesa d'Italia in proporzione alla popolazione, impianto che fu realizzato allora, si nota che esso ricalca il modello degli ampi boulevard parigini, che in realtà furono creati per scoraggiare le sollevazioni popolari, rendendo impossibile sbarrarli con barricate.

Un cambio di rotta si ebbe con la “rivoluzione parlamentare” del 1876 che portò al governo la sinistra storica, una sinistra, grazie al Cielo, molto diversa da quelle di oggi e di un recente passato.

Poiché bene o male, più male che bene, l'Italia era stata fatta, se se ne voleva fare una nazione in grado di avere un posto nel “concerto delle potenze” degno della sua storia e del suo popolo, occorreva una politica che fosse precisamente l'opposto di quella che la destra storica aveva perseguito: industrializzazione, espansione coloniale e un riavvicinamento al mondo germanico.

L'Austria, contro cui avevamo combattuto la maggior parte delle guerre risorgimentali, non era stato che l'ultimo di una lunga serie di invasori e dominatori stranieri iniziata con gli Eruli di Odoacre e gli Ostrogoti di Teodorico. L'Austria come tale, non aveva mai neppure invaso la Penisola ma aveva ereditato i possessi italiani della Spagna in seguito alla guerra di successione spagnola.

Quello che possiamo considerare il primo episodio di quel ritrovato orgoglio nazionale che diede vita al risorgimento, non era stato una rivolta contro gli Austriaci ma contro i Francesi: la ribellione di Verona ai soprusi delle truppe napoleoniche, che doveva portare alla repressione tristemente nota come “pasque veronesi”; i Francesi erano poi stati di nuovo nostri nemici nel 1848, quando le truppe di Napoleone III erano accorse a soffocare la repubblica romana e a ripristinare lo stato pontificio. Con la Prussia, divenuta impero germanico nel 1871, non avevamo nessun genere di contenzioso; anzi, era grazie ad essa e a Bismark, che avevamo avuto il Veneto nel 1866 e il Lazio con Roma nel 1870.

La Triplice Alleanza stipulata da Germania, Austria-Ungheria e Italia nel 1882 era nella logica delle cose; non solo per l'Italia era essenziale in quanto l'esigenza di una politica coloniale la portava in diretto conflitto con Francia e Inghilterra, ma, considerando le cose in una prospettiva geopolitica e geostrategica, il mondo italo-austro-germanico rappresentava un asse naturale, il nucleo, lo “zoccolo duro” dell'Europa di fronte alla doppia minaccia alla sua preminenza planetaria che veniva da occidente con Londra e Parigi che recitavano sempre più il ruolo di battistrada e vassalli della potenza d'oltre atlantico, e da oriente nella forma fino al 1917 del panslavismo e, a partire da quella data, del comunismo sovietico.

Bisogna tuttavia riconoscere che sotto diversi aspetti la sinistra storica non seppe o non volle realizzare quel distacco dalla politica della destra ex cavouriana che sarebbe stato auspicabile, ad esempio evitando di partecipare alla spartizione coloniale fra le potenze europee decisa nel 1884 con la conferenza di Berlino, salvo poi doversi accontentare delle briciole, incuneandosi negli spazi che le altre potenze avevano lasciato liberi, in Abissinia, e più tardi sostenendo una guerra con la Turchia per la sponda africana dell'impero ottomano, quella che sarebbe diventata la colonia libica. Dovemmo anche subire lo smacco dell'annessione della Tunisia da parte della Francia proprio quando l'Italia si apprestava a occuparla.

Della prima guerra mondiale vi ho già parlato in un nostro precedente incontro, e ora non riprenderò l'argomento se non in estrema sintesi. Dal punto di vista del completamento dell'unità nazionale, si può dire che gli obiettivi che ci potevamo porre schierandoci a fianco dell'Intesa o degli Imperi Centrali, si equivalessero, infatti se rimanevano in mano all'Austria Trento e Trieste, la Corsica, Nizza e la Savoia erano dominio francese, e Malta britannico.

Ma c'era un grosso ma: noi eravamo in concorrenza diretta con Francesi e Britannici per l'espansione coloniale. In più, il controllo britannico del Mediterraneo attraverso l'asse Gibilterra – Malta – Alessandria d'Egitto, di fatto ci racchiudeva entro le nostre acque territoriali. Una guerra, sia pure vittoriosa al fianco dell'Intesa non poteva portarci altro che a una vittoria mutilata, come difatti fu.

I motivi che avevano indotto alla stipula della Triplice Alleanza rimanevano validi, e difatti fra le due guerre, ridotta l'Austria alle dimensioni attuali comprendenti quelli che erano stati i soli domini etnicamente tedeschi degli Asburgo, si riproporrà la necessità dell'alleanza con la Germania, alleanza certamente favorita dall'affinità ideologica fra i regimi tedesco e italiano, ma dettata anche da inevitabili considerazioni geopolitiche, sebbene su questo punto la gran parte degli storici attuali che preferisce considerare unicamente l'affinità ideologica tra fascismo e nazionalsocialismo, glissi volutamente.

Occorre dire anche che noi eravamo legati a Germania e Austria dalla Triplice Alleanza, e il nostro cambiamento di fronte, il venir meno alla parola data, non poteva non essere percepito come un tradimento, un tradimento che pare quasi l'anticipazione di quello avvenuto l'8 settembre 1943, tanto più grave in quanto avvenuto in piena guerra, e che ha comportato tutte le conseguenze tragiche che sappiamo, oltre a consacrare al livello internazionale un'immagine del tutto falsa dell'italiano come vigliacco e inaffidabile.

Deleteria dal punto di vista nazionale italiano, la scelta del maggio 1915, era però funzionale agli interessi della massoneria internazionale a cui casa Savoia era certamente legata.

Oggi la massoneria è sempre un centro di intrighi, di affari poco puliti, di amicizie impresentabili che opera nella buia zona d'ombra dove si sovrappongono politica, affari e criminalità organizzata, con occasionali puntate nella zona della politica “importante” come fu ad esempio in tempi relativamente recenti il caso della loggia P 2, ma la sua importanza è enormemente diminuita rispetto ai tempi precedenti la seconda guerra mondiale, è stata messa da parte, non serve più perché in ultima analisi anch'essa non era/è niente altro che uno strumento

. Dopo la seconda guerra mondiale e la caduta dell'Unione Sovietica, il vero potere planetario non ne ha più bisogno perché ormai può mostrarsi (quasi) allo scoperto: il potere dell'aristocrazia del denaro, l'informe moloch che ha oro nelle vene, il cui dominio mondiale creato attraverso la dissoluzione di etnie, popoli e culture in una massa amorfa che è il perfetto mercato, ha oggi preso il nome di globalizzazione, e la “democrazia” è un teatrino recitato a uso dei gonzi per dare alla plebe l'illusione di contare qualcosa. Forse l'unico motivo per cui non si riesce ancora a scorgere il volto di questo potere, è che esso non ha nessun volto umano.

 In tutto questo, forse, c'è un'unica nota positiva: noi oggi siamo in grado di dissipare il grande equivoco, e sappiamo che fra il senso di appartenenza alla nostra nazione, quel patriottismo del quale proprio non c'è inflazione, che pare sia cosa normale a qualsiasi latitudine tranne che da noi, e la ripulsa, il sentimento di ribellione verso le forze che hanno distrutto la struttura tradizionale delle nazioni europee e le hanno ridotte a colonie degli Stati Uniti, non c'è alcuna contraddizione.

 

Memorie controcorrente, seconda parte – Fabio Calabrese

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La recente pubblicazione sulle pagine di “Ereticamente” del mio articolo Memorie controcorrente ha sollevato diverse reazioni fra i lettori. Quando si va a parlare della nostra storia recente, diciamo degli ultimi tre quarti di secolo, si vanno a toccare nervi ancora scoperti. In un precedente articolo la cui pubblicazione sulle pagine della nostra testata risale ormai a qualche anno fa, mi era capitato di osservare il fatto che le vicende dell'epoca della Guerra Fredda, del lungo bracco di ferro fra l'Ovest controllato dagli Stati Uniti e l'Est dominato dall'Unione Sovietica, appaiono oggi ormai del tutto sbiadite, al punto che gli appartenenti alle generazioni più giovani sembrano letteralmente ignorare tutto quanto è avvenuto nel lasso di tempo non breve che va dal 1945 al 1991, cosa che provoca fatalmente una sensazione di straniamento in chi, come nelle persone della mia generazione o, a maggior ragione chi ha qualche anno in più, nella prospettiva del “mondo diviso” ci ha vissuto, e questo orizzonte è stato al centro delle sue scelte politiche, civili, culturali in un senso o nell'altro.

Al contrario, l'epoca della seconda guerra mondiale (o forse il suo ricordo deformato/manipolato), è molto più viva nella coscienza attuale, al punto che si potrebbe dire che osservando le scritte che compaiono sui muri delle nostre città, essa e soprattutto per quello che ci riguarda, la parte più tragica di essa, la guerra civile 1943-45, sembrerebbe ancora in corso.

Analizzare le reazioni dei lettori è sempre utile: i commenti elogiativi fanno piacere, danno l'idea che lo sforzo che si sta facendo non cade nel vuoto, ma sono soprattutto le critiche costruttive quelle da cui si può imparare qualcosa di nuovo.

Naturalmente, lettori attenti e preparati come quelli di “Ereticamente” “beccano” subito tutte le imprecisioni, ma anche questo fa parte delle regole del gioco.

Un lettore che si firma “Cupo”, mi fa notare che ho sbagliato circa l'età di Norma Cossetto, che aveva ventitré e non sedici anni, anche se per il resto definisce il contenuto dell'articolo “tutto sacrosanto”. Ne prendo nota, anche se questo modifica ben poco o nulla l'atrocità della tragedia subita da quella povera ragazza ad opera dei “liberatori partigiani”. Tanto per la cronaca, vogliamo ricordare il caso di Giuseppina Ghersi? Questa ragazzina fu rapita, stuprata, seviziata in modo atroce e infine uccisa dai partigiani perché colpevole di aver scritto un tema scolastico che era stato elogiato e premiato da Mussolini. Giuseppina di anni ne aveva tredici, era una bambina!

Non rispondo invece a tale “Alessandro”, non ne vale la pena, quel che afferma è semplicemente un rigurgito di propaganda antifascista di chiara faziosità come tutte le falsità che ci raccontano da settant'anni. L'unica cosa che merita osservare al riguardo, è che quando coloro che hanno subito il lavaggio cerebrale della disinformazione “rossa” su queste tematiche evocano le presunte violenze fasciste per giustificare il GENOCIDIO delle foibe, ricordano molto da vicino la parabola evangelica di chi critica la pagliuzza nell'occhio del vicino e non vede la trave nel proprio. Nessuno storico che studia gli avvenimenti di quei tragici anni con imparzialità può sottrarsi alla conclusione che le foibe non furono una reazione alle “violenze fasciste”, ma parte di un piano deliberato per annientare la presenza etnica italiana sulla sponda orientale dell'Adriatico, e se “Alessandro” nutre dubbi a tale proposito, gli consiglierei di leggere i due articoli di recensione, o meglio ancora il libro che ho recensito, Atti, meriti e sacrifici di Giorgio Rustia, tenendo magari presente che questo articolo io l'ho pubblicato subito dopo la doppia recensione nell'intento di dargli un significato di approfondimento delle tematiche trattate da Rustia.

Ben altra consistenza ha, a mio parere, l'intervento di Bruno Fanton di Treviso che si definisce “vecchio ricercatore storico” e deve avere riguardo alle cose militari una competenza senz'altro superiore alla mia (l'ho evidenziato più volte, io mi ritengo, se mi passate il termine, uno “specialista in elasticità” che si è dato un compito di apripista, sollevare questioni in diversi ambiti che poi dovrebbe toccare ad altri approfondire).

Il nostro amico apre il suo intervento con un elogio che mi ha fatto indubbiamente piacere definendo il mio pezzo “Un vero capolavoro di articolo che meriterebbe di essere divulgato nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado”, ma mi fa tuttavia notare lo stato di impreparazione delle nostre forze armate al momento di affrontare la tragica prova del fuoco delle secondo conflitto mondiale.

“Nonostante le velleità guerriere del Fascismo, il Regio Esercito era agli sgoccioli, sin da subito, e l’ immagine parla chiaro: quanto 1000 parole. Il ridicolo mortaietto Brixia da 45mm, esempio cervellotico di come “non voler nuocere al nemico”, e che richiedeva una particolare abilità per poter essere utilizzato proficuamente, il cui munizionamento (diviso in due parti nemmeno numericamente uguali: bomba propriamente intesa e carica di lancio posteriore) era equivalente alle bombe a mano “offensive” ammazzagalline (Breda, nella migliore delle ipotesi, o altre schifezze come la SRCM e la OTO), le divise scomode e incravattate e la stoffa autarchica. Gli elmettini di latta che bisognò attendere fino al 1935 ed oltre per poterli avere”.

Senza contare il fatto che anche là dove i mezzi c'erano, intervenivano la disorganizzazione e spesso la vera e propria corruzione esistenti negli alti gradi, che riducevano lo “spirito guerriero” a una mera finzione propagandistica, uno strato di cartone dorato che copriva una realtà ben diversa.

“Ci vuole organizzazione, preparazione, logistica e mezzi, che da noi talvolta mancavano, ma anche quando c’ erano, per via degli “alti papaveri” tutti lambrusco, spaghetti, rubinetti dorati, uniformi di gala e puttane di lusso, non erano mai dove avrebbero potuto servire! Ma la guerra è una cosa seria e non la si vince con gli slogan”.

Caro Fanton, lei fa un discorso giustissimo, che io sono il primo a condividere, ma ci sono un paio di cose che vanno tenute presenti: innanzi tutto, il reale stato di impreparazione delle nostre forze armate fu accuratamente tenuto nascosto a Mussolini, precisamente allo scopo di fargli prendere le sue decisioni basandosi su dati errati, esattamente perché si voleva arrivare alle disastrose conseguenze che poi si sono verificate. E' un fatto che una parte consistente degli alti gradi militari, l'entourage della corona, probabilmente la stessa monarchia, contavano sulla sconfitta militare come mezzo per liberarsi del fascismo.

A tal proposito, in particolare Antonino Trizzino in Navi e poltrone, Settembre nero e soprattutto Gli amici dei nemici ha raccolto una documentazione impressionante su comportamenti deliberatamente autolesionisti dal nostro punto di vista e passaggi di informazioni al nemico.

Era uno sporco gioco condotto sulla pelle dei nostri combattenti e delle nostre popolazioni, un tradimento vilissimo con il quale, a mio parere, già prima dell'8 settembre 1943, casa Savoia ha bruciato in un sol colpo qualsiasi benemerenza verso gli Italiani potesse aver acquistato durante il periodo risorgimentale.

L'altro punto che vorrei sottolineare con forza, è che il valore sfortunato che i nostri combattenti seppero dimostrare, non cessa in ogni caso di essere tale. È facile fare gli eroi quando si dispone di una schiacciante superiorità numerica e di mezzi, come fu purtroppo il caso dei nostri nemici, ben altra cosa è riuscire a esserlo quando ci si trova ad affrontare il nemico in condizioni di inferiorità. È il valore dei vinti, non quello dei vincitori, che noi ricordiamo alle Termopili, a Kosovo Polje, a El Alamein.

Recentemente, mi sono trovato a rileggere (anche se non è che non li conoscessi già) due libri, uno dei quali è Aviatori italiani di Franco Pagliano. Come certamente Fanton saprà, la nostra aeronautica si trovò a battersi contro il nemico in condizione costante di inferiorità non soltanto numerica ma tecnica nei confronti del nemico. Per quanto riguarda la caccia, solo con il Macchi 202 i  nostri piloti arrivarono a disporre di un aereo da caccia appena decente, mentre i velivoli della serie “5” che ci avrebbero potuti mettere in grado di competere con il nemico in condizioni di parità tecnica, arrivarono troppo pochi e troppo tardi.

Nonostante questo i nostri cacciatori, i bombardieri alleati riuscivano a tirarli giù. E’ molto illuminante quella che si può definire la breve epopea dell'aviazione da caccia repubblicana, che pure nel crescente clima di disfacimento, in mezzo a difficoltà enormi, riuscì a continuare ad abbattere i quadrimotori alleati che seguitavano a imperversare seminando morte sulle nostre città, e del suo asso Adriano Visconti, che ebbe alla fine una raffica di mitra alla schiena dopo aver deposto le armi con il suo reparto, come premio per aver difeso fino all'ultimo la nostra gente, perché ogni quadrimotore abbattuto significava tonnellate di bombe non più destinate a cadere sulle nostre case e sulla testa delle nostre popolazioni, ma certo la vita della nostra gente era l'ultimissima delle preoccupazioni degli “eroici” partigiani, “eroi” del colpire alla schiena.

L'altro libro che mi è capitato di rileggere recentemente, è El Alamein 1933-1962 di Paolo Caccia Dominioni. Tranne forse che in questo testo, la vera storia della battaglia di El Alamein, con tutta probabilità non è mai stata raccontata. Il fatto è che asserendo che il famoso attacco a tenaglia con il quale il maresciallo Montgomery scardinò il fronte italo-tedesco era dimostrativo verso sud e risolutivo verso nord, lo stesso Montgomery ha spudoratamente mentito per nascondere il proprio insuccesso, e la sua menzogna è stata presa per buona dagli storici successivi, ma basta studiare una carta geografica con un minimo di attenzione per rendersi conto della verità: il settore sud del fronte era il più lontano dalla costa, quello più difficile, dove i rifornimenti arrivavano con difficoltà, dove non c'erano unità tedesche né corazzati, solo italiani appiedati. Per di più, uno sfondamento il quel settore avrebbe permesso agli Inglesi di prendere in trappola l'Afrika Korps che si sarebbe trovata circondata tra l'anello d'acciaio dei tank britannici e la costa. Fu la resistenza disperata degli italiani, soprattutto della divisione Folgore che si fece letteralmente massacrare sul posto senza cedere un metro, respingendo i tank britannici con le bottiglie di benzina e quasi a mani nude, che salvò l'Afrika Korps dall'accerchiamento e permise a Rommel di continuare a tenere il fronte africano per un altro anno.

Tutte cose che si vuole che soprattutto i giovani NON SAPPIANO, coloro che hanno deciso il destino di morte per la nostra gente, la nostra sparizione come etnia, vogliono che ci percepiamo come un popolo di bonaccioni furbetti e vigliacchetti, in modo da creare una profezia che si auto-adempie.

Rivedendo il mio lavoro con occhio critico (ogni tanto bisogna pur farlo, e non bisogna mai pensare di essere arrivati a un punto oltre il quale non è possibile migliorarsi), mi sono accorto di una cosa: come avete visto, una delle cose che faccio, è scegliere un'immagine che di volta in volta correda i miei articoli e, a meno che il motivo di questa scelta non sia proprio evidente, mettere alla fine del pezzo due righe con una nota di spiegazione. Stavolta le due righe sono diventate una pagina, ma soprattutto c'è una differenza di argomenti rispetto al resto dell'articolo che è giusto rilevare, infatti, se il tema dell'illustrazione e della nota che accompagna il pezzo, ha finito per essere il comportamento dei militari italiani in guerra, l'argomento principale dell'articolo è piuttosto il comportamento degli altri verso di noi, soprattutto degli slavi comunisti del maresciallo Tito, e infatti avevo pensato di pubblicare questo articolo subito dopo la doppia recensione del libro di Rustia, come una sorta di ulteriore commento-approfondimento della stessa tematica.

Bene, ora torniamo su quest'altro aspetto. È raro che nelle grandi tragedie della storia, e la vicenda della nostra gente sul confine orientale indubbiamente lo è stata, manchi qualche elemento grottesco, e difatti non manca neppure qui.

Nell'articolo, avevo raccontato la vicenda di tre fratelli partigiani di Rovigno d'Istria che furono fucilati dai Tedeschi e a cui gli Jugoslavi hanno dedicato una strada, anche se questo non ha impedito loro di cacciare i loro familiari dalla città, come tutti gli altri rovignesi di etnia italiana. Dicevo che questo, a mio parere, evidenzia molto bene il carattere SCHIZOFRENICO dell'ideologia comunista, da un lato internazionalista, dall'altro portatrice del più feroce sciovinismo etnico. Non è un caso isolato, la stessa conclusione si potrebbe forse trarre dalla vicenda raccontata da Giorgio Rustia del capitano Alberto Marega, “assolto” da un “tribunale popolare” jugoslavo e subito dopo assassinato, assolto dall'accusa di essere un “boia fascista” ma comunque destinato a essere soppresso in quanto italiano.

Noi oggi viviamo in democrazia, cioè in un'epoca tirannica, un'epoca di oppressione ipocritamente mascherata. Fosse vivo oggi Voltaire, credo che il suo appello alla libertà di espressione sarebbe considerato dai “buoni democratici” fascismo allo stato puro. Un lettore che ha premesso di essere di etnia serba, commentando uno dei due articoli che costituiscono la mia recensione del libro di Rustia pubblicato su facebook, commentava che era sbagliato da parte mia usare il termine “slavi” perché nelle atrocità delle foibe furono implicati sloveni e croati (e peggio ancora, anche qualche comunista italiano traditore della propria gente), ma non serbi. Volevo dargliene atto e scusarmi di aver usato questo termine in modo improprio. Non mi è stato possibile perché facebook mi aveva giusto allora bannato (il bando è durato un mese, come al solito) per un commento politico, secondo la regola aurea della democrazia, cioè tappare la bocca a chi la pensa diversamente.

Se questo lettore avesse avuto una conoscenza maggiore dei miei scritti apparsi in questi anni sulle nostre pagine, avrebbe potuto constatare che nei confronti del popolo serbo ho espresso solo sentimenti di stima. Per secoli, la Serbia è stata l'antemurale dell'Europa in difesa del nostro continente contro la minaccia islamica sul lato orientale, e l'aggressione della NATO contro la Serbia nella crisi della ex Jugoslavia, ha costituito uno degli atti più infami che la storia ricordi, veramente degno di questa organizzazione bastarda che serve a mascherare da alleanza la dipendenza dell'Europa dagli Stati Uniti. Oltre tutto, noi oggi sappiamo che l'atto che servì da pretesto all'intervento, il cannoneggiamento di Sebrenica, fu opera degli stessi mussulmani bosniaci su indicazioni NATO, appunto per creare il casus belli.

“Slavi” sono anche diversi altri popoli, Russi, Polacchi, Cechi e via dicendo. La Russia, soprattutto la Russia di oggi non più comunista, oltre a essere una parte essenziale dell’Europa, è forse l’unica grande potenza identitaria ancora in grado di opporsi alla multietnicità mondialista. Togliere dalla nostra cultura Tolstoj, Dostoevskij o Solgenitsin, sarebbe come eliminare Dante, Goethe o Shakespeare.

Io sono sempre disponibile al dialogo e a dare ragione ai miei interlocutori quando ce l'hanno, ma non sopporto la strafottenza.

Tempo fa su facebook un tale che si è qualificato come sloveno ha pensato, in risposta a un mio commento, di sbattermi in faccia “il fatto” che  “loro” la seconda guerra mondiale l'hanno vinta e “noi” l'abbiamo persa. “Io sono uno sloveno, mio figlio è uno sloveno”, concludeva trionfalmente, “E saranno sloveni anche mio nipote e il mio pronipote”.

Gli ho risposto che noi abbiamo indubbiamente perso la guerra, ma non doveva illudersi che loro l'avessero vinta, che suo nipote sarà probabilmente mezzo peruviano, e suo pronipote un mulatto.

TUTTI GLI EUROPEI hanno perso la seconda guerra mondiale, anche quelli schierati nominalmente nel campo dei vincitori, anche se la conseguenza più esiziale di questo conflitto, l'attacco alla sostanza etnica stessa dell'Europa, è rimasta in sospeso per mezzo secolo a causa della Guerra fredda.

A noi rimane la soddisfazione del fatto che, a differenza di quello di questo “signore”, i nostri padri hanno combattuto dalla parte giusta, la causa dei popoli europei, per la quale intendiamo ancora continuare a lottare con ogni mezzo.

 

Gennaio 1919: la conferenza della “Pax Americana” in Europa – Michele Rallo

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L’inizio del dominio americano

sul continente europeo

La Conferenza della Pace si apriva il 18 gennaio 1919 in un clima ancòra idilliaco, determinato dal permanere dello spirito utopistico prodotto dalle parole d’ordine americane del periodo bellico. Certo, le prime crepe cominciavano a manifestarsi (Fiume, Dalmazia, Montenegro), ma si sperava che si trattasse soltanto di piccoli dissapori, destinati a trovare rapidamente soluzioni soddisfacenti per tutti.

Sul piano pratico, la Conferenza era organizzata, gestita e composta esclusivamente dai vincitori della prima guerra mondiale, e in primo luogo dalle “Quattro Grandi”: Inghilterra, Francia, Italia e Stati Uniti d’America. Seguivano gli alleati minori: ventotto fra nazioni grandi e piccole (dal Giappone al Belgio) e dominions britannici (dal Sud Africa alla Nuova Zelanda). Tra i ventotto minori, addirittura, ve n’erano quattro (Ecuador, Perù, Bolivia e Uruguay) che non avevano partecipato neanche simbolicamente al conflitto, ma che avevano semplicemente rotto le relazioni diplomatiche con gli Imperi Centrali.Gennaio 1919 la conferenza della Pax Americana in Europa

Le Quattro Grandi[1] e gli altri ventotto paesi non erano su un piano di parità, e ciò era cosa ufficiale, risaputa ed anche relativamente logica; peraltro oggettivamente consacrata dalla partecipazione soltanto delle prime a quelli che erano gli organi esecutivi della Conferenza: l’Ufficio di Presidenza ed il Consiglio Esecutivo, meglio noto come il Consiglio dei Quattro; “i Quattro” – in questo caso – erano i massimi rappresentanti delle potenze: l’inglese David Lloyd-George, il francese Georges Clemenceau, l’italiano Vittorio Emanuele Orlando e lo statunitense Thomas Woodrow Wilson.

Vi erano, poi, cose meno note e meno logiche: per esempio, che fra i quattro vi fosse una maggioranza di fatto (LloydGeorge-Clemenceau-Wilson) ostile al rappresentante italiano; o – per fare un altro esempio – che fra i ventotto minori non fosse stato ammesso il Montenegro, uno tra i primi paesi ad entrare nella guerra mondiale, cui aveva recato un contributo certo non inferiore a quello del Guatemala o del Siam.  Tutte stranezze, ma stranezze non casuali.

Altre stranezze, più sottili, sarebbero venute emergendo nel prosieguo dei lavori, quando – per esempio – si sarebbe venuto a discutere del concetto di “nazionalità”, elemento-base dei cosiddetti “Quattordici Punti di Wilson” che erano diventati, di fatto, il fondamento della Conferenza della Pace. Si sarebbe visto, allora, che per “nazionalità” si voleva intendere qualcosa di molto diverso rispetto a quel che si era sempre concepito in Europa. Ben lo spiegava l’insigne storico italiano della diplomazia, Amedeo Giannini:

«Il concetto democratico della “nazionalità” degli alleati è quello della “coscienza nazionale” e non quello germanico “della razza e della lingua”.»[2]

Orbene, questa particolare visione – oltre a sovvertire i cànoni della tradizione romanticista del nazionalismo europeo – soppiantava alcuni elementi oggettivi e di pronto riscontro (l’etnìa, la lingua, la religione) con un altro (la coscienza nazionale) certamente reale ma di facile travisamento. A riprova, il Giannini citava il caso della partecipazione di un nucleo epirota di difficile connotazione ad un episodio guerresco dell’Ottocento, utilizzato poi dalla Grecia per attribuire alla popolazione dell’intero Epiro (formata da greci, ma con una forte componente albanese) la adesione alla “coscienza nazionale” ellenica.

Al di là delle finzioni propagandistiche, comunque, la Conferenza della Pace non si ispirava certamente a qualsivoglia concetto di nazionalità, bensì a due diversi princìpi: quello della punizione dei vinti a pro dei vincitori (o, almeno, di alcuni dei vincitori); e quello di un forsennato espansionismo imperialistico e colonialistico di matrice inglese e – in misura minore – francese: espansionismo esplicito (in danno dei paesi arabi) o mascherato (in danno dei paesi europei) o ibrido (in danno della Turchia).

Malgrado gli americani continuassero a fare un gran parlare di democrazia e di diritti dei popoli, non ci si curava neanche di salvare le apparenze. La caratteristica precipua della Conferenza di Parigi, infatti, era quella di interrompere la lunga tradizione riconciliatoria dei “Congressi” postbellici europei (da quello di Westfalia a quello di Vienna, a quello di Berlino) per inaugurare una nuova tendenza unidirezionale, punitiva e per nulla pacificatoria.

In passato i vari Congressi avevano riunito attorno ad uno stesso tavolo tutti i paesi coinvolti a vario titolo nel conflitto appena spirato (vincitori, vinti e talora anche alcuni neutrali), nel presupposto che tutti fossero interessati a ricercare gli equilibri necessari ad una convivenza la meno traumatica possibile fra gli ex nemici. Adesso, invece, la Conferenza della Pace riuniva soltanto i paesi vincitori, i quali avrebbero dovuto fissare i termini delle punizioni da infliggere, mediante i vari trattati di pace, ai paesi vinti. Questi ultimi sarebbero stati successivamente convocati, ed ai loro rappresentanti sarebbe stata imposta la firma dei rispettivi trattati di pace.[3]

LA SOCIETÀ DELLE NAZIONI

Il 10 gennaio – e cioè una settimana prima della seduta inaugurale della Conferenza della Pace – le nazioni alleateGennaio 1919 la conferenza della Pax Americana in Europa1 avevano ratificato il patto costitutivo della Società delle Nazioni (o Lega delle Nazioni), una creatura del genio politico del presidente Wilson, che ne aveva anticipato i tratti nei suoi famigerati Punti:

«una società generale delle nazioni deve essere costituita sulla base di accordi specifici, allo scopo di giungere a garanzie reciproche di indipendenza politica e integrità territoriale per tutti i paesi grandi e piccoli.»

Spacciata come un’organizzazione internazionale che avrebbe dovuto regolare i rapporti internazionali, garantire la sicurezza degli Stati, la pace tra i popoli, gli ideali di democrazia e di libertà, eccetera, eccetera, eccetera, la SdN avrebbe invece dovuto essere – secondo i desiderata dell’establishment americano – uno strumento che consentisse agli USA di gabellare la propria volontà politica per volontà della “comunità internazionale”.

Altra bizzarrìa, imposta dal presuntuoso inventore della Società: la costituzione della stessa avrebbe dovuto costituire parte integrante di tutti gli elaborandi trattati di pace; e quindi tutti i paesi vinti sarebbero stati obbligati ad accettare – in uno con le vessazioni dei trattati – anche l’adesione alla SdN. Per ottenere ciò, la prima parte di tutti i trattati di pace avrebbe dovuto essere necessariamente formata dai 26 articoli del patto costitutivo della Società delle Nazioni.

Ciò – è appena il caso di osservare – connotava la Società delle Nazioni (progenitrice dell’attuale Organizzazione delle Nazioni Unite) esattamente per quello che era: non una libera unione di Stati, ma un’organizzazione fiancheggiatrice dei paesi vincitori del conflitto mondiale. Peraltro, le Quattro Grandi (nel frattempo divenute Cinque, con l’aggregazione del Giappone) avrebbero dovuto detenere istituzionalmente la maggioranza (5 seggi su 9) nel Consiglio di Presidenza della Società.

Ufficialmente, lo Statuto della Società delle Nazioni era approvato il 25 gennaio 1919, una settimana dopo l’inaugurazione della Conferenza della Pace. In realtà – come si è visto – era stato varato prima dell’apertura della Conferenza.

LA PREVALENZA DEL BLOCCO ANGLOSASSONE

Società delle Nazioni a parte – comunque – la Conferenza della Pace era il paravento dietro cui si celava il perfido maneggio che americani ed inglesi avevano ordito ai danni delle loro principali alleate. Non solo dell’Italia, come meglio vedremo più avanti; ma anche della stessa Francia che,  dopo la fine dell’orgogliosa avventura napoleonica, era sempre stata prona ai desiderata anglosassoni.

Procediamo con ordine: nel seno dei “Quattro Grandi” si precostituiva ufficiosamente una maggioranza USA-UK-Francia, in contrapposizione alla componente italiana; all’interno di tale maggioranza prevaleva il blocco anglo-americano e, dentro questo, si aveva l’assoluta primazìa degli Stati Uniti.

Questa sorta di gerarchia piramidale aveva una precisa giustificazione di natura economica. Al vertice v’erano gli Stati Uniti, perché questi erano gli unici a disporre di un’ampia possibilità di manovra economica, al punto che gli altri tre “grandi” – finanziariamente dissanguati dalla guerra – dipendevano da Washington per la loro stessa sopravvivenza alimentare.

«In verità – scrive la Melchionni – gli Stati Uniti disponevano di un potere contrattuale enorme alla fine della guerra, perché gli alleati erano finanziariamente nelle loro mani.»[4]

Ma anche nello stato di difficoltà economica v’era una graduatoria: in cima v’era la Gran Bretagna, la meno “povera”, peraltro legata agli Usa da una pressoché assoluta comunanza di interessi; in posizione mediana, la Francia; e, in fondo, l’Italia.

«L’Italia nell’immediato dopoguerra – scriveva il generale Caviglia – attraversò un momento difficile. Era spossata, senza capitali, senza materie pri­me, senza viveri. I rifornimenti del paese dipen­devano dalla buona volontà dei nostri ex-alleati. Bi­sognava cercare di guadagnare tempo, mentre essi volevano ricattarci imponendo all'Italia delle condizioni di pace che sabotavano la nostra vittoria.»

Ciò spiega perché l’Italia non avesse difeso le proprie ragioni con le armi, laddove queste fossero state insidiate, come a Fiume o in Montenegro: «Non era possibile assumere un atteggiamento armato di fronte alla volontà ostile degli ex-alleati, perché i rifornimenti dell’Italia dipendevano dalla loro buona volontà.» E, più avanti: «In seguito avevo visto la Francia e l’Inghilterra sempre più cinicamente tradire l’Italia e trattarla come nemica vinta, e servirsi del Presidente Wilson per ricattarla. Nelle condizioni economiche in cui essa versava, dopo tutti i sacrifici generosamente fatti per la guerra, stremata di materie prime e di viveri, essi minacciavano per mezzo del Presidente degli Stati Uniti di rifiutarle i mezzi di vita, se non accettava una pace di umiliazione e di spoliazione.»[5]

Parigi era in una posizione mediana, ma solamente quanto alle condizioni economiche; perché sul piano generale era invece la più penalizzata dalla prevalenza del blocco anglosassone. La Francia era, infatti, la nazione-cardine dell’Europa, della sua cultura, del suo prestigio, del suo primato sulla scena mondiale. Posizioni che l’Italia – giunta soltanto da pochi decenni all’unità nazionale – non poteva vantare e, quindi, non poteva perdere.

LA FRANCIA È UMILIATA, MA FINGE DI NON ACCORGERSENEGennaio 1919 la conferenza della Pax Americana in Europa2

Era proprio ai danni della Francia che americani ed inglesi organizzavano una formidabile manovra di spoliazione delle sue prerogative. Senza l’arrogante rozzezza della congiura antitaliana che incominciava a delinearsi, ma con tatto, con sottile intelligenza, dando addirittura l’impressione di voler premiare la fedele alleata. Il Primo Ministro francese Georges Clemenceau era infatti nominato Presidente della Conferenza della Pace, e la stessa scelta della sede della Conferenza – il castello di Versailles – era frutto di una valutazione che premiava i rancori gallici accumulati dopo la guerra franco-prussiana di mezzo secolo prima.[6]

Il settantottenne Clemenceau, soprannominato “il Tigre”, era lasciato libero di ruggire non soltanto contro l’odiata Germania, ma adesso anche contro l’alleata Italia, dandogli l’impressione di essere lui a guidare inglesi e americani lungo i sentieri impervi delle trattative di pace.

In realtà, era esattamente il contrario: era in primo luogo l’Inghilterra ad essere interessata alla cancellazione della Germania come potenza militare e marittima, così come era sempre l’Inghilterra ad essere la più interessata a comprimere il dinamismo italiano. All’uopo, i francesi venivano utilizzati soltanto come truppe ausiliarie, ma – come si diceva – dando loro l’impressione di guidare l’attacco.

Inoltre, americani ed inglesi organizzavano contro i francesi un raggiro particolarmente odioso, quello che mirava ad espropriarli della primazìa linguistica (e quindi culturale) nel mondo civile. Un raggiro – sia detto per inciso – che è all’origine dell’odierna dittatura culturale anglosassone sull’intero pianeta.

Infatti, accampando la non conoscenza del francese da parte del Presidente americano Wilson (e non curandosi della non conoscenza dell’inglese da parte del Presidente del Consiglio italiano Orlando), gli anglosassoni imponevano l’inglese come lingua ufficiale della Conferenza della Pace. E ciò, malgrado la Conferenza si svolgesse a Parigi e malgrado il francese fosse – da sempre – la lingua franca della diplomazia mondiale.

Così, con un sol colpo, gli anglo-americani iniziavano la colonizzazione culturale dell’Europa e, al tempo stesso, imponevano la loro lingua come idioma ufficiale delle relazioni internazionali.

Il Tigre non faceva una piega: mostrava i denti, accennava uno scatto... ma, come ogni fiera da baraccone, obbediva docilmente agli ordini del domatore.

N O T E

[1] Le Quattro Grandi diverranno in un secondo tempo Cinque, con l’aggregazione – in funzione di appoggio agli inglesi – del Giappone; era però inteso che quest’ultimo avesse voce in capitolo soltanto per le questioni relative all’estremo oriente.

[2] Amedeo GIANNINI:  L’Albania dall’indipendenza all’unione con l’Italia. 1913-1939.  Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, Roma, 1940.

[3] G.P. GENOV:  Il Trattato di Neuilly e la Bulgaria.  Associazione Italo-Bulgara, Roma, 1940.

[4] Maria Grazia MELCHIONNI:  Il confine orientale italiano, 1918-1920. Volume 1: La Vittoria Mutilata. Problemi ed incertezze della politica estera italiana sul finire della Grande Guerra (ottobre 1918 - gennaio 1919).  Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1981.

[5] Enrico CAVIGLIA: Il conflitto di Fiume. Garzanti editore, Milano, 1948.

[6] Si ricordi che proprio a Versailles, nel 1871, l’arroganza prussiana aveva voluto che fosse incoronato il primo imperatore del Secondo Reich tedesco, Guglielmo I.

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