Quantcast
Channel: Storia Archivi - EreticaMente
Viewing all 293 articles
Browse latest View live

Discorso di Adolf Hitler a Berlino il 19 luglio 1940

$
0
0

Adolf Hitler

Ancora una volta la cospirazione di penosi e corrotti individui politici e avidi magnati della finanza, ha fatto la sua comparsa e per i quali la guerra è un agognato mezzo per fare affari. Il veleno internazionale apolide dei popoli ha iniziato a muoversi e a corrodere menti sane. Uomini di lettere hanno iniziato a descrivere altri uomini che desideravano la pace chiamandoli smidollati e traditori, a denunciare i partiti dell'opposizione come una "quinta colonna" in modo da eliminare la resistenza interna alla loro criminale politica bellica.

Ebrei e massoni, industriali di armamenti e affaristi di guerra, commercianti internazionali e speculatori di borsa hanno trovato canaglie, disperati e avventurieri che descrivevano la guerra come un qualcosa da bramare e quindi da desiderare.

Credetemi, miei Delegati, sento un disgusto dentro me stesso per tutto questo genere di distruttori senza scrupoli di popoli e stati.

E' quasi doloroso per me essere stato scelto dalla Provvidenza. Non era nelle mie ambizioni fare la guerra, ma volevo costruire un nuovo stato sociale della più alta cultura, ma ogni anno di guerra mi allontana sempre più da questo obiettivo.

E la causa di questa rapina sono quei ridicoli zeri che potremmo chiamare, nella migliore delle ipotesi, dei mediocri politici, e per quanto concerne la loro corrotta ignominia, ciò non li rende qualcuno al di fuori dell'ordinario.

Il Sig. Churchill ha ripetutamente dichiarato che vuole la guerra. Circa sei settimane fa egli sferrò questa guerra in un’arena nella quale evidentemente crede di essere davvero forte: ossia nella guerra aerea contro la popolazione civile, dietro lo slogan ingannevole della "guerra contro obiettivi militari". Fin dalla città di Friburgo, questi obiettivi sono diventati le città aperte, i mercati, i paesi, zone residenziali, ospedali, scuole, asili e qualsiasi cosa essi vogliono colpire.

Fino ad ora ho dato poco peso a questi attacchi ma questo non significa comunque che non si debba fare nulla.

Sono totalmente consapevole che con la nostra risposta, che ci sarà, ci saranno inaudite sofferenze e disgrazie per molti uomini.

Ovviamente questo non riguarderà il Sig. Churchill che nel frattempo si sarà rifugiato al sicuro in Canada, dove è già stato portato il denaro e i figli degli speculatori di guerra più in vista.

Ma ci sarà una grande tragedia per milioni di altri uomini. Ed il Sig. Churchill dovrebbe fare un eccezione e riporre fiducia in me quando profeticamente affermo: un grande impero mondiale verrà distrutto. Un impero che non ho mai ambito a distruggere ne tantomeno ferire. Sono totalmente consapevole che il prosieguo di questa guerra finirà soltanto con la completa distruzione di una delle due parti. Il Sig. Churchill può credere che questa sia la Germania. Io so che sarà l'Inghilterra!

In questo preciso momento mi sento obbligato, davanti alla mia coscienza, di mandare un altro appello alla ragione all'Inghilterra.

Credo di poterlo fare chiedendo ciò non in qualità di sconfitto, ma come vincitore. Parlo a nome della ragione. Non vedo una ragione per la quale questa guerra debba continuare. Mi dispiace dei sacrifici che ciò richiederà, vorrei risparmiarli al mio popolo. So che i cuori di milioni di uomini e ragazzi ardono al pensiero di poter fare la guerra ad un nemico che ci ha dichiarato guerra una seconda volta senza un ragionevole motivo.

So anche delle donne, delle madri a casa, i cui cuori, nonostante la loro disponibilità a sacrificarsi, fino all'ultimo sono aggrappati a una speranza con tutta la loro forza.

Il Sig. Churchill può anche minimizzare nuovamente la mia dichiarazione gridando che ciò non è altro che un sintomo della mia paura o dei miei dubbi sulla vittoria finale. Avrò però la coscienza pulita per le cose a venire.

Delegati, Uomini del Reichstag tedesco! Riflettendo sui dieci mesi appena trascorsi, tutti noi ci sentiamo pervasi dalla grazia della Provvidenza che ci ha permesso di compiere un così grande dovere. Ha benedetto i nostri propositi e ci è stata vicina su molti sentieri difficili.

Io stesso sono commosso davanti alla chiamata conferitami per restaurare la libertà e l'onore del mio Popolo.

L'infamia patita per 22 anni e che ebbe inizio nella Foresta di Compiègne è stata cancellata per sempre e nello stesso luogo.

Oggi ho chiamato gli uomini che, davanti alla storia, mi hanno permesso di portare a termine questo grande compito. Essi hanno fatto del loro meglio, mettendo il loro talento e la loro operosità al servizio del Popolo Tedesco. Voglio ora concludere menzionando tutti quegli uomini che non sono venuti a meno al loro dovere.

Milioni di loro hanno rischiato la vita e la libertà e, come coraggiosi soldati e ufficiali tedeschi, erano pronti in ogni momento a sacrificarsi fino in fondo. Oggi molti di loro riposano nelle stesse tombe nelle quali i loro padri hanno riposato fin dalla Grande Guerra. Essi sono la prova di un eroismo silenzioso. Rimangono come simbolo per tutte quelle centinaia di migliaia di fanti, cacciatori anti-carro, carristi, genieri e artiglieri, soldati della Marina e dell'Aviazione, uomini della SS e per tutti gli altri combattenti che servirono nell'esercito tedesco nella lotta per la libertà e il futuro del nostro Popolo e per l'eterna grandezza del Grande Reich Tedesco Nazionalsocialista.

Germania! SIEG HEIL!


Le camere del lavoro, il coraggio dei fascisti, i Martini-Henry e altro…

$
0
0

zulu

 

“Cremona, 6 settembre 1920… I social-comunisti… sono esasperati. Camminano a squadre, con fare minaccioso, aggrediscono i fascisti isolati… si attende la sera per fare il colpo grosso. Vengo informato che essi mi avrebbero atteso dopo cena all’Aquarium. Alcuni fascisti… vengono a casa mia all’ora di cena per pregarmi di non uscire, perché cose gravi si stanno tramando ai miei danni. NATURALMENTE IO NON POSSO DIMOSTRARE DI AVERE PAURA, (maiuscolo mio ndr) e, verso sera, mi reco all’Aquarium , bar da me frequentato”

(Roberto Farinacci)

 

Inizio con una considerazione facile facile, tanto da sembrare quasi banale, ma di quelle che ogni tanto occorre fermarsi a fare, per non inseguire, nella valutazione e nel racconto di cose di storia, solo teorie socio-psicologiche che, alla fin fine, si avvitano su se stesse.

Me la suggerisce il racconto di un “fatto”, trovato in una cronaca del fascismo a Città di Castello, che sto sfogliando in questi giorni: una piccola città, nella quale si ripropone, però, una situazione comune a tante altri centri, in tutta Italia.

Il 27 marzo del 1921, 22 squadristi perugini, chiamati in soccorso dai loro camerati, arrivano a Città di Castello (che ha fama di essere “rossissima”) con un camion e un’automobile; pur accolti a pistolettate all’ingresso in città, improvvisano, insieme con i 5-6 fascisti locali, un corteo rumoroso ma pacifico per le strade deserte.

Dopo il ferimento a fucilate, però, di uno di loro, se ne vanno all’assalto della Camera del Lavoro, dove si sono radunati “a difesa” centinaia di sovversivi; i locali sono espugnati, dopo aspra lotta, verso le 23, con la fuga degli occupanti e il successivo fuoco “redentore”.

Niente di specialmente rilevante: un episodio come ne avvengono tanti altri in tutta Italia, in quel convulso primo semestre del 1921.

Prima di procedere oltre, perciò, credo sia opportuno innanzitutto spiegare il perché della scelta frequente dell’ obiettivo costituito da Leghe e Camere del Lavoro, mentre molto rari, sono, di contro gli assalti fascisti a sedi di Partiti avversari.

Lo farò con le parole di Dino Grandi, avvocato alle Assisi di Milano nel processo a carico dei responsabili della strage di palazzo D’Accursio:

“La lega è il piccolo Governo locale, la Camera del Lavoro è il Governo provinciale. Per licenziare un operaio occorre il permesso della Camera del Lavoro. Al datore di lavoro è inibita ogni resistenza. Occorre, durante i giorni di sciopero che si susseguono, il permesso della Camera del lavoro anche per seppellire i morti…Vi è un nuovo sistema di diritto penale, con nuove norme, con nuove esecuzioni di pene. Tra queste le essenziali sono due: il boicottaggio e la taglia. Il boicottato non lavora… si ordina alle botteghe di non dargli viveri, carne, pane, alimenti… si vieta al medico e alla levatrice di accedere a casa sua…

La taglia è la multa che il proprietario paga all’Organizzazione perché colpevole di non aver eseguito a puntino le direttive… È stato calcolato che soltanto nell’estate del 1920. Più di due milioni di lire sono state versate sotto la speciosità di taglie alla Camera del lavoro di Bologna ed alle piccole Leghe locali”

 

Naturale, quindi, la scelta fascista dell’obiettivo da colpire.

Su questa strada procedono le squadre, con un dato comune che va qui sottolineato: la sproporzione numerica fortemente a loro sfavore (mentre, in quanto “attaccanti”, come insegna ogni buon manuale militare, avrebbero dovuto essere almeno nella proporzione di 5 a 1 rispetto ai loro avversari):

− a Torino, nella città di “Ordine Nuovo” e della occupazione delle fabbriche, il 25 aprile del 1921, dopo l’assassinio a tradimento di un loro camerata, sono 34 gli squadristi che distruggono la Camera del Lavoro (e uno di loro, l’universitario Amos Maramotti, morrà);

− a Perugia il 23 marzo del 1921 bastano 21 squadristi della “Disperata” fiorentina, giunti col camion, e che non vogliono attendere l’arrivo degli altri due 15 ter con i rinforzi, bloccati per strada dalle imboscate nemiche, a seminare il panico in città e dare fuoco alla sede sindacale;

− a Grosseto, il 26 giugno, arrivano in 13 e, per una settimana, fanno lo scompiglio e polverizzano l’intera organizzazione sovversiva

− nella “rossa” Bologna, prima che iniziasse la buriana della primavera squadrista, già la notte del 4 novembre del 1920, è tale il terrore che incute qualche decina di fascisti schiamazzanti, che Bucco, il Segretario della Camera del Lavoro, ingolfata da centinaia di Guardie Rosse provenienti anche da fuori città (ci sono anche dei comunisti profughi dall’Ungheria), chiama in soccorso le forze dell’ordine… e mal gliene incoglie, che nella perquisizione dei locali vengono sequestrate 76 rivoltelle, una decina di fucili e tubi di gelatina

Potrei proseguire per pagine intere, ma sarebbe anche noioso.

Potrei dire che tutto è iniziato il 15 aprile del 1919, quando alcune centinaia di dimostranti “nazionali” mettono in fuga, a Milano svariate migliaia di minacciosi scioperanti sovversivi e concludono la loro azione con la distruzione dell’Avati, ma è storia nota.

Potrei dire e lo dico, che di questa inferiorità socialisti e compagni sono ben presto consapevoli, tanto che su “L’Avanti” del 20 settembre 1920, quando, cioè, si erano appena concluse le occupazioni delle terre e delle fabbriche che avrebbero dovuto costituire il primo tempo della rivolta sovietista, e l’offensiva fascista era ancora tutta là da venire , se si eccettua l’episodio triestino del Balkan, appare questa sconcertante ammissione:

“E possiamo egualmente riconoscere che, nell’uso della violenza e della prepotenza, sono meglio preparati e più fortemente muniti i nostri avversari. Sì, a Milano, a Roma, a Pola, a Trieste, a Fiume, l’Arditismo ha dato largo esempio della propria capacità all’azione, infinitamente superiore alla nostra. Noi saremmo davvero ridicoli, più che a quelli degli altri, ai nostri stessi occhi, se non ci accorgessimo che, mentre taluni dei nostri fanno la voce grossa, i nostri nemici ingrossano il pugno e colpiscono forte ed inesorabilmente”

 

Prodromi di un vittimismo che sarà presto di moda, che non spiega nulla, che si rifugerà dietro il paravento della connivenza delle Forze dell’Ordine, della disparità di armamento, ma faticherà a riconoscere una differenza di caratteri e psicologie che è, invece fondamentale per capire.

Con qualche eccezione: l’organo ufficiale della Confederazione Generale del lavoro, trattando, a fine gennaio del 1921, dei conflitti di Bologna e Modena, così si esprime:

“Poi, spettacolo triste ed umiliante! Si hanno le fughe, che veruna giustificazione sottrae alla riprovazione ed alla attestazione di un contegno onde ormai vanno famosi troppi teorizzatori della violenza… i quali non hanno coscienza del loro dovere nei momenti più difficili, e sono i primi a scappare, quando maggiormente è richiesta l’opera loro e la loro presenza. L’incoscienza di coloro che determinano situazioni insostenibili è tanto più dannosa, in quanto alle conseguenze di esse essi si sottraggono affibbiandole a quelli che devono restare e soffrire”

 

Non ho fin qui accennato – e non intendo farlo ora –  a episodi di coraggio individuale del quale furono protagonisti singoli fascisti, spesso destinati a diventare “martiri della causa”; ciò di cui sto parlando è la capacità dei mussoliniani di “fare gruppo”, tutti insieme, in una sorta di sfida a dimostrare più coraggio, che coinvolge tutti: combattenti anonimi della trincea e Arditi pluridecorati, anziani “tostissimi” e imberbi giovanetti alla loro prima esperienza di fuoco

E’ quello che Pavolini efficacemente riassumerà nella prefazione a “Squadrismo fiorentino” di Frullini:

“E gli indimenticabili vivi, i “vecchi”: rivelazione dei temperamenti colti nell’istante dello scatenamento, nell’istante lirico; crogiuolo di ceti: corto circuito di precocie, di inquietudini, di entusiastiche dedizioni. Vita di capannello e di spedizione, combattimenti alle cantonate, alle siepi. Disperati litigi. Armi spaiate. Berretti da ciclisti, elmi, baveri alzati. I gagliardetti. Il fascio…”

 

Insomma, a fare la differenza, rispetto ai loro avversari, e in maniera determinante, è la “grinta”, il “coraggio” l’ “animosità” o chiamatelo come vi pare… è quella voglia di “non cedere” che Farinacci testimonia, a modo suo, nel brano riportato all’inizio

In un’ epoca che ci ha insegnato a disprezzare il coraggio fisico e a considerare il 99% di coloro che ne sono dotati poco più che dei paranoici con vene di sadismo (“bulli di periferia” in confronto è un affettuoso soprannome), credo che questo, però, con riferimento alla “Primavera di bellezza” non vada dimenticato.

 

In un noto film (Zulu, di Cy Endfield, 1964) sulle guerre anglo-zulu, dopo che, a Rorkes Drift 139 soldati britannici hanno resistito e convinto alla ritirata svariate migliaia di guerrieri Zulu, l’Ufficiale in comando si rivolge al fido Sergente Maggiore anima della difesa, e gli fa (più o meno, vado a memoria), accennando all’uso dei nuovi fucili: “Merito dei Martini-Henry” e quello, impassibile: “Sì, i Martini Henry, certo, ma con un po’ di fegato dietro”

Un insegnamento da tenere sempre presente.

Giacinto Reale

L’Alcazar che non venne liberato: l’epopea del santuario di Nuestra Senora de la Cabeza

$
0
0

Alcazar di Toledo

Sicuramente tutti i nostri lettori conosceranno le vicende dell’Alcazar di Toledo quando, nel 1936 allo scoppio dell’<alzamiento> nazionale guidato dal Generale Francisco Franco, un pugno di militari e di elementi <di destra> vi si rinserrò e resistette eroicamente all’’assedio posto dalle milizie di sinistra fino a quando fu liberato dall’avanzare delle truppe <nazionali>. In realtà vi furono, in Spagna, altri simili episodi in cui, però gli elementi favorevoli all’insurrezione nazionale non poterono resistere fino alla liberazione da parte delle forze di Franco e finirono per essere sopraffatti dai repubblicani più o meno <rossi>. (1.)

Ad esempio H Thomas nella sua <Storia della Guerra Civile Spagnola> (Einaudi, 1963) scrive, riguardo alla situazione creatasi in Andalusia “Nelle campagne, tra un pueblo e l’altro regnava una situazione incerta e strana: qua e là, le guardie civili ribelli, dopo aver abbandonato le loro caserme, si erano ritirate in cima ad alture, in monasteri e in altri luoghi facilmente difendibili, arroccandovisi e resistendo indefinitamente, vivendo come predoni e di ciò che riuscivano a saccheggiare nei dintorni. L’accampamento che resistette più a lungo fu quello impiantato dal Capitano Cortès, della Guardia Civile, nel monastero di Santa Maria de la Cabeza, sui monti a nord di Cordoba”.

Possiamo qui ricordare anche quanto accadde a Gijon nelle Asturie, una regione nettamente schierata a sinistra, qui i miliziani repubblicani dovettero porre l’assedio, fin dal giorno seguente all’inizio della sollevazione militare, alla Caserma Simancas dove erano asserragliati circa 180 tra guardie civili e militari di altri corpi favorevoli all’insurrezione nazionale. Agli assediati, cui si pose a capo il Colonnello Pinilla governatore militare della città, venne subito reso impossibile il comunicare con il grosso dei nazionali. Un tentativo di venire in soccorso agli insorti fu, invano, tentato dall’Incrociatore “Almirante Cervera” il cui equipaggio si era schierato a favore della sollevazione nazionale.

[caption id="attachment_3424" align="alignright" width="285"]LA CASERMA SIMANCAS LA CASERMA SIMANCAS[/caption]

Con il prolungarsi dell’assedio i viveri a disposizione si andavano velocemente esaurendo, ciò nonostante la guarnigione continuava a resistere e a respingere gli assalti nemici. A metà agosto i lealisti iniziarono a far uso della dinamite cosa in cui i minatori della regione erano particolarmente abili, la caserma ne ebbe gravi danni e s’incendiò. Rifiutando ancora di arrendersi l’eroico Pinilla, che invano aveva sperato nell’arrivo dei <nostri>, inviò un messaggio radio all’incrociatore chiedendo che bombardasse la sua stessa posizione( “Disparad sobre nosotros, el enemigo está dentro.”) ma la nave su cui si temeva che tale richiesta fosse un trucco dei repubblicani per indurla a colpire i nazionali non aprì il fuoco, sopraffatti, i difensori furono tutti sterminati. (21Agosto)

Torniamo ora all’episodio citato dal Thomas: l’assedio del Santuario di Nuestra Seňora della Cabeza.

Anche in questa zona quello che avrebbe dovuto essere un <golpe> destinato a trionfare in pochi giorni fallì, il che diede il via ad una lunga e sanguinosa guerra civile. Alla fine del luglio 1936 la violenza rossa si scatenò anche in codesta regione, i proprietari terrieri vennero prelevati dalle loro case e messi al muro al pari di preti e frati. Molte guardie civili temendo anche essi di rimanere vittime del furore delle sinistre iniziarono allora a concentrarsi al santuario di Santa Maria de la Cabeza tenuto da Padri Trinitari (anche questi eliminati dai rossi.) Codesto santuario a una trentina di chilometri da Andujar (Jaen) situato su di un’altura divenne un rifugio per molti che si sentivano minacciati dalle fazioni più estremiste dei repubblicani (anarchici e comunisti).

Organizzatore dell’operazione fu il Capitano Antonio Reparaz Araujo comandante della Guardia Civil di Andujar, costui riuscì a ingannare i governativi sulla reale intenzione dei suoi: quella di schierarsi a fianco degli insorti di parte <nazionale>.

Trinceratisi nel santuario, i nazionali (alle guardie civili, che avevano portato con loro le famiglie, si erano aggiunti elementi di destra e falangisti) riuscirono a mantenere fino ad agosto inoltrato una sorta di neutralità il 22 agosto, il Reparaz con circa 200 militi riuscì a raggiungere le linee nazionali sul fronte di Cordoba. Così, le autorità repubblicane finirono, anche per questo, per convincersi che i <rifugiati> nel santuario parteggiavano per i franchisti e, alla fine d’agosto, le loro milizie posero l’assedio al complesso. Seguì un periodo di trattative che avrebbe dovuto concludersi con l’evacuazione dei <nazionali>, molti dei quali non fidandosi di quelli che ormai erano i nemici, rifiutarono di abbandonare la posizione.

Non si sa con esattezza quanti scelsero di resistere, forse 1200 di cui 165 guardie civili, alcuni parlano di 270 combattenti e circa 870 tra non combattenti tra cui donne e bambini. il Capitano Santiago Cortès Gonzales ne assunse il comando.

Iniziarono così, da parte dei governativi i bombardamenti aerei, all’inizio di poca efficacia, mentre la propaganda repubblicana cercava di indurre i difensori alla resa, si ebbero poi i primi assalti e, da entrambe le partì, i primi caduti.

Il 9 ottobre, i difensori ricevettero alcuni rifornimenti grazie ad un aereo di parte nazionale pilotato dal Capitano Haya protagonista di ben 70 delle 170 missioni aeree di soccorso agli assediati. Riguardo alle comunicazioni con il grosso dei nazionali ebbero un certo ruolo anche i piccioni viaggiatori.

Il 31 settembre ingenti forze repubblicane si concentrarono intorno a quella che ormai era una ridotta assediata e il primo di Novembre iniziò un duro bombardamento sia aereo che terrestre, inoltre gli assediati dovettero iniziare ad affrontare, nonostante i rifornimenti aerei, un altro nemico: la fame.

Comunque, i <nazionali> riuscirono a respingere vari assalti nemici.

Respinti i primi assalti, nonostante i bombardamenti e la fame, nei mesi di gennaio-febbraio del nuovo anno non vi furono grossi cambiamenti della situazione, il Capitano Cortès, da parte sua, non cessava di chiedere al Generale Queipo de Llano capo delle forze nazionali in qual settore di lanciare un’offensiva per liberare gli assediati.

In effetti, agli inizi del 1937 il generale nazionalista lanciò un’offensiva sul fronte di Cordoba tra i cui obiettivi vi era anche la liberazione del santuario, offensiva che però venne bloccata alla fine di Marzo quando ormai le forze nazionali erano giunte a una trentina di Km da Santa Maria de la Cabeza, il fallimento di codesta offensiva permise ai repubblicani di sferrare l’attacco decisivo: quello finale.

Il 1 Maggio 1937 dopo un nuovo bombardamento, i carri armati repubblicani penetrarono nel complesso del santuario, dietro di essi avanzavano le fanterie. Il Capitano Cortes venne gravemente ferito dallo scoppio di una granata e nel primo pomeriggio gli assediati superstiti dovettero arrendersi per poi venire dispersi nelle varie galere dei repubblicani.

L’eroico Capitano Cortès, in seguito alla ferita riportata, cessò di vivere il giorno seguente 2 maggio 1937.

L’epopea del Santuario di Nuestra Seňora de la Cabeza era durata 228 giorni, il santuario quasi completamente distrutto fu ricostruito dopo la guerra.

Certo, considerando col senno di poi, pur ammettendo che il regime franchista, al pari di quello precedente del Generale Miguel Primo de Rivera (padre del fondatore della Falange) ebbe pure i suoi lati positivi, non possiamo certo <perdonargli> l’abbandono delle istanze sociali del Nazional-Sindacalismo falangista, il mancato intervento al fianco dell’Asse, l’aver eliminato i suoi tratti “fascisti” a favore di un esangue nazional cattolicesimo e, infine, l’aver lasciato dietro di sé solo un pugno di <nostalgici> destinati a una più o meno rapida estinzione, arriviamo a domandarci se tutto ciò valesse il sangue di tanti eroi caduti per la Spagna <Una, Grande e Libera>.simbolo

I lettori sapranno che chi scrive da anni lavora sull’ipotesi che l’invasione dell’Europa (e di tutto l’<Occidente bianco>) da parte dei popoli <di colore> possa assumere aspetti anche di <guerra guerreggiata <in tal caso si potrebbe ipotizzare forse, uno scenario analogo a quello descritto. Gli ultimi europei degni di tal nome asserragliati come i loro remoti avi su alture sia per un’ultima resistenza, sia, nel migliore dei casi per usarle come punti di partenza per una <reconquista> e/o per imporre il proprio dominio su gruppi etnici in lotta tra di loro e, soprattutto, su masse putrescenti di <bastardi> senza razza, senza patria, senza fede. (2.)

Mi sia permesso di riportare un brano di un autore sicuramente ben noto ai lettori che crede possibile uno scontro di grandi dimensioni nel futuro dell’Europa (e di tutto l’Occidente). Silvano Lorenzoni, il quale scrive nel suo “Mondo Aurorale” (Primordia, Milano, 2010. pag118-119):

“Nel mondo che abbiamo davanti si stanno adesso sviluppando due pericolose fenomenologie a) la corrosione alla <frontiera> meridionale da parte del mondo infero “(sic!)”; (b) la penetrazione tentacolare del medesimo nei territori a popolazione nordica/continentale/mediterranea.”

(Possiamo, peraltro, chiederci se sia un poco esagerato definire “infero” il Sud del mondo, di cui, senz’altro il Lorenzoni ha una conoscenza diretta ben maggiore di quella del sottoscritto...)... In ogni caso, è facilissimo prevedere quali possano essere le conseguenze a corto e a medio termine di quanto sopra: essa sarà la guerra razziale diffusa contrada per contrada, rione per rione, strada pere strada, caseggiato per caseggiato, pianerottolo per pianerottolo, quando gli allogeni inferi avranno l’appoggio organizzativo e logistico delle sinistre politiche europee e asiatiche, con inclusione dei <sacerdoti> monoteisti. Come conseguenza delle prime fasi della guerra razziale ci si può immaginare una struttura politico. sociale non dissimile da quella ipotizzata da un valido autore di fantascienza (John Wyndham <Il Giorno dei Trifidi>) quando descrive un mondo umano trasformato in uno scacchiere di centri di resistenza più o meno isolati che si difendono all’interno di un mare di nemici... Sappiamo, per esperienza storica, che la guerra razziale è la più totale che ci possa essere, nella quale non vale etica od onore di alcun genere... è opinione dello scrivente che con il pessimismo non si è mai risolto niente; e basterebbe che le genti razzialmente più valide, una volta libere dalle turbe psicologiche monoteiste, fossero numericamente anche meno di un decimo rispetto alle masse larvali infere, esse avrebbero ancora, ampliamente, la capacità di vincere e di sopravvivere.

A noi spetterebbe comunque di iniziare, da subito a elaborare una <ideologia di combattimento> per chi dovrà affrontare siffatti, possibili, sviluppi. Un processo di rielaborazione ideologica che metta da parte le masturbazioni pseudo esoteriche e le eccessive simpatie per l’Islam (il che non vuol dire, sia ben chiaro, simpatizzare col sionismo) che per noi, oggi, è soprattutto la punta di lancia dell’invasione terzomondista (e poi non era il suo profeta uno dei componenti della banda dei <tre impostori>?) e che tenga nella giusta considerazione le differenze tra le razze umane. (3)

E, soprattutto, dobbiamo sperare che la bassezza dei tempi non abbia ancora del tutto smentito quanto scrisse Julius Evola:

“[…]vi è un fondo eroico nell’anima occidentale che non può venire totalmente estirpato.”

<Gli uomini e le Rovine> Mediterranee, Roma, 2001, pag.142

 

ALFONSO DE FILIPPI

   

NOTE

(1)    Riguardo alla guerra civile spagnola voglio segnalare due volumi che trattano dei volontari stranieri accorsi in aiuto ai franchisti: S.Roussilon <Les Brigades Internationales de Franco> (Via Romana, Versailles, 2012) e, meno valido ed interessante, J.Keene <Fighting for Franco> (Hambledon Continuun, USA, 2007) Sarà infatti noto ai lettori che a fianco dei franchisti lottarono e morirono, oltre ai reparti italiani e tedeschi, volontari rumeni, portoghesi, russi bianchi, francesi ecc. In futuro si potrà, eventualmente, ritornare su questo aspetto.

(2)    “[...]la barbarie in quanto non fa pervenire a uno stadio superiore di vita, accumula miserie e distruzioni ed è causa di sofferenze infinite. Solo il ferro di una razza superiore può cauterizzare la piaga e far cessare la rovina e il dolore.” Luca De Sabelli <Storia di Abissinia> Ed.Roma, 1936, vol. II, pag. 229.

(3)    <“Esistono chiare differenze tra popolazioni di diverso ceppo etnico”, afferma Marcus Feldman, docente di scienze bilogiche alla Stanford University. “Nessuno ha ancora dimostrato il rapporto tra razza e quoziente intellettivo, ma è solo questione di tempo. E quando accadrà – avverte - assisteremo ad una nuova era di discriminazione e razzismo”> A.Farkas <Studio del Genona aumenta il razzismo> In Il Corriere della Sera 15 XI 2007.

L’idea “fumetto” nella Storia: l’Arazzo di Bayeux e La Divina Commedia del Botticelli

$
0
0

Andando a indagare anche nei più seri, autorevoli e approfonditi volumi e articoli di critica sulla letteratura disegnata può capitare di inciampare in uno strano lemma, ovvero il neologismo “protofumetto”. Molto spesso la smodata passione per l'oggetto dei desideri degli estensori di tali dotti tomi porta loro a esagerare, tanto che viene incollata questa singolare “etichetta” su immagini, illustrazioni e dipinti – più o meno antichi – che con il fumetto ben poco hanno a che fare, nemmeno in fatto di progenitura! Prima di addentrarci nelle meraviglie dell'Arazzo di Bayeux e della Divina Commedia del Botticelli occorre dunque spendere e spargere un po' di tempo e d'inchiostro per tentare di fare chiarezza...

[caption id="attachment_3899" align="alignright" width="194"]Copertina originale di Understanding Comics (Scott McCloud, 1993) Copertina originale di Understanding Comics (Scott McCloud, 1993)[/caption]

1. Cos'è il “fumetto”?

Genova è un'idea, cantava Paolo Conte. Anche il fumetto è “un'idea”. Un'idea come un'altra, mapiù complessa di quanto si pensi...

a) Definire il “fumetto”

Nei precedenti articoli dedicati al fumetto apparsi qui su EreticaMente avevamo già fatto qualche accenno, diciamo “tecnico”. Troverete in Rete tantissime e straordinariamente dettagliate spiegazioni del termine “fumetto”, che si differenziano fra loro in maniera più o meno tangibile e ampia. Per quanto ci riguarda abbiamo sempre trovato la più calzante – seppur uno zinzino cerebrale - quella elaborata dall'artista Scott McCloud per il suo fondamentale e imprescindibile Understanding Comics (Tundra, 1993) – un saggio sul fumetto inteso come linguaggio realizzato usando come linguaggio... il fumetto stesso! McCloud ampliò la semplice definizione stilata tempo prima da Will Eisner (il creatore del detective The Spirit), per cui il fumetto era “arte sequenziale”, intendendo dire con tale espressione che ogni fumetto (per poter fregiarsi del titolo) doveva necessariamente sviluppare una storia – anche breve – narrandola con l'uso di immagini separate, disegnate o dipinte, messe una accanto all'altra. Eisner aveva infatti individuato due dei tratti (disegno e sequenzialità) essenziali per capire se stiamo godendoci un fumetto oppure leggendo o guardando qualcos'altro.

[caption id="attachment_3900" align="alignleft" width="221"]La definizione di “fumetto” secondo McCloud La definizione di “fumetto” secondo McCloud[/caption]

McCloud andò oltre, considerando il fumetto come illustrazioni e altre immagini giustapposte in sequenza deliberata, destinate a comunicare informazioni e/o produrre una risposta estetica nel lettore. Il fumetto si distingue da un disegno singolo perché è un vero e proprio linguaggio narrativo. Non è un “genere”, come spesso si legge sulla stampa non specializzata (e superficiale); e infatti, a fumetti si trovano campioni di tutti i generi letterari altrimenti fruibili, sotto forma di romanzo, spettacolo o pellicola cinematografica: giallo, avventura, western, orrore, fantascienza, fantasy, etc. Il fumetto, per esser definito tale, deve dunque raccontare una storia tramite una serie di quadretti (le cosiddette “vignette”) separati e contigui; questa serie può essere costituita da un minimo di due fino a un numero indefinito di vignette. Una vignetta singola, come possono essere quelle degli autori di satira politica che talvolta – pensiamo a Forattini, a Vauro o a Krancic... - usano la tecnica del fumetto, non può essere definita fumetto in senso proprio. Inoltre, per creare una “risposta” nel lettore, il fumetto deve raggiungerlo e perciò circolare – tramite stampa o, in anni recentissimi, tramite diffusione digitale. La riproduzione in più esemplari e la distribuzione (e in parte anche la serializzazione), per l'appunto, permettono di distinguere il fumetto da, per esempio, un quadro del pittore Roy Lichtenstein, che usava alcuni stilemi fumettistici per le sue celeberrime opere della pop art; in questo senso, paradossalmente, le tavole a fumetti che un editore deve ancora consegnare alla tipografia, ancora non sono propriamente “fumetto”. E – per assurdo - non è “fumetto” nemmeno quel fascicolo già stampato ma ancora non arrivato in edicola o in libreria per essere diffuso!

[caption id="attachment_3902" align="alignright" width="150"]Differenza fra “arte del fumetto” e “arte dell'immagine” secondo McCloud Differenza fra “arte del fumetto” e “arte dell'immagine” secondo McCloud[/caption]

b) I codici del fumetto

Definire cosa sia “fumetto” è solo una base di partenza. Il fumetto – per esserlo davvero – deve completamente distaccarsi dagli altri linguaggi narrativi, utilizzando (almeno in parte) quei peculiari codici linguistici che contribuiscono a contraddistinguerlo dagli altri media. Per “codice” si intende qui un sistema organico di simboli e riferimenti che consentono la comunicazione: due interlocutori (nella fattispecie il realizzatore del fumetto – sceneggiatore e disegnatore - e il lettore) potranno capirsi fino in fondo solo se entrambi conoscono e condividono uno stesso identico codice. Come dire che capisco chi mi parla in italiano perché conosco l'italiano. All'opposto troviamo il cane e il gatto che, non solo non sanno un accidenti nulla di codici, ma nemmeno li condividono! Il cane scodinzola quando è contento, il felino quando è nervoso; il cane si avvicina fiducioso a un gatto scodinzolante... ricevendo in cambio un bel graffio sul tartufo!

Vediamo dunque alcuni dei principali codici fumettistici.

La “tavola” a fumetti è quel pezzo unico originale (per esempio, disegnato a china su cartoncino) uscito dallo studio dell'artista; questa, una volta stampata, diventerà solitamente una pagina di un albo; la tavola è formata da più “strisce” (a loro volta costituite da due o più vignette ciascuna); a volte la striscia è autonoma (nel caso, per esempio, del fumetto umoristico seriale, come le Sturmtruppen di Bonvi o la vastissima produzione americana delle strip giornaliere – quali Mandrake, Phantom, Flash Gordon, etc.). Gli intervalli temporali fra una vignetta e l'altra possono essere brevissimi oppure lunghissimi. Non sempre gli autori spiegano (tramite didascalie o semplicemente raccontando) cose è successo: spetta all'istinto, alla fantasia e all'intelligenza del lettore colmare tali “lacune”, vere e proprie ellissi temporali narrative.

[caption id="attachment_3920" align="alignleft" width="275"]L'ellisse temporale spiegata da McCloud L'ellisse temporale spiegata da McCloud[/caption]

La “gabbia” della tavola (o della striscia) è costituita da quegli elementi “architettonici” che permettono di separare senza ombra di dubbio una data vignetta dalle altre - successive o precedenti - permettendo così una giusta e ordinata lettura. Di solito le vignette sono riquadrate, ma a volte bastano anche spazi bianchi per isolarle. Alcuni fumettisti sono andati oltre, come il superbo Gianni De Luca – come vedremo meglio più avanti – che eliminava la gabbia e la vignetta, riproducendo molte volte il protagonista “in movimento” in una stessa tavola; la pagina fungeva perciò da sfondo fisso, da scenario teatrale (così nel suo Amleto): un'idea che, come spiegheremo dopo, aveva avuto addirittura il Botticelli, secoli prima!

[caption id="attachment_3893" align="alignright" width="204"]La "gabbia" della tavola e l'ordine esatto di lettura delle "vignette" in Occidente La "gabbia" della tavola e l'ordine esatto di lettura delle "vignette" in Occidente[/caption]

La “nuvoletta” (o “fumetto” in senso stretto), permette ai personaggi di “far sentire la loro voce”; corrisponde alla “colonna sonora” del cinema e assume forme diverse a seconda del modo, del tono o del volume in cui le parole sono espresse. Per esempio, per comunicare il senso della parola urlata, la nuvoletta acquista contorni irregolari, a zig-zag, e più marcati. Quando il personaggio “pensa”, invece, la nuvoletta diventa una vera e propria... nuvola! Alcuni autori creano nuvolette ancor più fantasiose per comunicare al lettore sensazioni più profonde: in una celebre storia “alternativa” di Batman del 1996 (Dark Allegiances di Howard Chaykin) il vigilante mascherato parla tramite nuvolette squadrate con gli angoli retti, in quanto personaggio estremamente razionale; i “cattivi”, ugualmente razionali ma in senso distorto, parlano con nuvolette squadrate dagli angoli stondati; la supereroina Gatta, dalla carica fortemente erotica e dalla voce melliflua, parla addirittura soffiando nuvolette a forma di cuore; appare anche un inedito Hitler (in missione diplomatica negli USA!) e siccome non era possibile farlo parlare in tedesco, il Führer viene fatto parlare in inglese ma, nelle sue nuvolette, i caratteri sono... in stile gotico! Le potenzialità del fumetto sono davvero immense, come ben dimostra Chaykin.

[caption id="attachment_3921" align="alignleft" width="182"]Nel capolavoro di Chaykin i differenti personaggi vengono fatti “parlare” con tipi differenti di nuvoletta, a seconda della loro voce, del loro stato d'animo, del loro accento e del loro carattere! Nel capolavoro di Chaykin i differenti personaggi vengono fatti “parlare” con tipi differenti di nuvoletta, a seconda della loro voce, del loro stato d'animo, del loro accento e del loro carattere![/caption]

La “pipetta” è quell'elemento grafico (solitamente una sorta di “V” come punta di freccia, o anche una semplicissima linea, o un fulmine se si grida, oppure una fila di “pallini” nel caso di pensiero) che permette di attribuire con certezza una data nuvoletta al “suo” padrone, facendo esattamente capire chi sta dicendo cosa (molto importante nel frequente caso in cui in una singola vignetta ci siano due o più personaggi che parlano contemporaneamente).

[caption id="attachment_3922" align="alignright" width="225"]Vari tipi di “nuvoletta” e di “pipetta” Vari tipi di “nuvoletta” e di “pipetta”[/caption]

Le onomatopee, insieme ai dialoghi nelle nuvolette, completano la “colonna sonora" del fumetto, un mezzo di comunicazione che, come ben si comprende, spartisce tantissimi elementi con il cinema (altrettanto vasto potrebbe per esempio essere infatti il discorso sulle inquadrature). Stiamo parlando degli "effetti sonori", anche questi più o meno rigidamente canonizzati, resi graficamente nella vignetta con lettere a carattere “di scatola”. Nel fumetto dei paesi “occidentali” (diciamo così per intenderci) vengono spesso usati verbi inglesi onomatopeici all'infinito senza il to. Ecco dunque BANG per lo sparo, BOOM per l'esplosione, CRASH per lo schianto, SPLASH per l'impatto con l'acqua, e via dicendo. L'immortale Jacovitti era invece celebre per le sue originalissime e italianissime onomatopee – come SPÙ per lo sputo!

Se nuvolette e onomatopee aggirano il naturale e ovvio “mutismo” del fumetto, le “linee cinetiche” contribuiscono a dare movimento a un mezzo di comunicazione di per sé statico: per esempio, poste dietro la schiena di Superman in volo o dietro una pallottola sparata da una rivoltella, tali linee rendono subito l'idea della velocità e della direzione. A volte gli autori usano altri artifici. Per far capire al lettore che il personaggio sta girando la testa di scatto, la testa stessa viene disegnata più volte su uno stesso collo, sfumando le posizioni intermedie e marcando quelle di partenza e di arrivo; l'effetto è precisamente quello che ottenevano i pittori futuristi, quando cercavano di riprodurre il moto nei loro quadri, sovrapponendo più posizioni successive di un soggetto in un'unica immagine; è c'è anche un po' di cubismo, pensando ai celebri ritratti di Picasso, con i volti visti da più angolazioni simultaneamente.

[caption id="attachment_3923" align="alignleft" width="300"]I rumori nel fumetto: le onomatopee I rumori nel fumetto: le onomatopee[/caption]

Suoni, movimento... Il fumetto è anche in Odorama, come nel bizzarro film Polyester diretto da John Waters nel 1981, quando, in biglietteria veniva consegnata una scheda con zone da grattare seguendo le indicazioni proiettate sullo schermo e annusando gli stesi odori che venivano in quel momento emanati nella pellicola! Linee ondulate, per esempio, fuoriescono da un qualcosa che esala fetore, come spazzatura o... cadaveri in decomposizione (in una storia poliziesca)!

Completano il discorso dei codici fumettistici altri elementi grafici ideati per rappresentare soprattutto particolari sensazioni, stati d'animo o di coscienza. Abbiamo così le stelle e gli uccellini che volteggiano sulla testa del personaggio per raffigurare il dolore; le bollicine possono ricordare l'ubriachezza; le campane oppure un ghirigoro (modulo ideato dalla scuola franco-belga di Hergé, Jacobs e gli altri) possono significare stordimento; linee (come esclamativi senza il puntino) che irradiano dalla testa sullo stile di un'aureola comunicano sorpresa, stupore, paura; goccioline di sudore significano apprensione e timore, etc. E poi la visualizzazione delle metafore (ricordiamo ancora Jacovitti, e poi Mussino): capelli ritti in testa dal terrore, cappelli che saltano via dalla sorpresa, pelle che cambia colore a seconda del sentimento provato (verde di invidia, rosso di rabbia...), occhi fuori dalle orbite in caso di eccitazione erotica, e così via.

[caption id="attachment_3924" align="alignright" width="300"]I codici fumettistici del manga giapponese si differenziano da quelli “occidentali”: il sangue dal naso (eccitazione sessuale) e la grafica diversa delle linee di espressione (dalla serie Dragonball) I codici fumettistici del manga giapponese si differenziano da quelli “occidentali”: il sangue dal naso (eccitazione sessuale) e la grafica diversa delle linee di espressione (dalla serie Dragonball)[/caption]

Non tutte le scuole nazionali usano però tutti gli stessi codici usati dagli "occidentali" - ovvero dalla scuola italiana, da quella franco-belga, da quella sudamericana, da quella inglese, da quella statunitense, etc. Paradigmatico il caso del Giappone, dove, nel cosiddetto manga, troviamo anche codici diversi dai "nostri", tali da spiazzare il neofita (o il disinteressato). Alcuni rapidi esempi. Le linee di velocità vengono di preferenza piazzate come sfondo completo della vignetta dove c'è qualcosa in movimento e non solo dietro l'oggetto che si muove; il sangue dal naso, più o meno copioso, appare in caso di ardore sessuale; se invece dal naso esce una bolla come di sapone, il soggetto è immerso in un sonno profondo; etc.

Potremmo andare avanti all'infinito, ma ci fermiamo qua e riassumiamo: “fumetto” è una storia, brevissima o lunghissima, narrata tramite illustrazioni e altre immagini giustapposte in sequenza deliberata, destinate a comunicare informazioni e/o produrre una risposta estetica nel lettore (McCloud), usando elementi codificati, pensata per la stampa, la riproduzione in un numero più o meno alto di copie e la distribuzione. Uff...!

2. Quando nasce il fumetto?

Se per “fumetto” in senso proprio intendiamo quanto detto sopra è dunque molto più facile rispondere alla domanda sulla sua nascita. Ma anche qui gli “esperti” non sono tutti d'accordo... (e ti pareva?).

[caption id="attachment_3927" align="alignleft" width="300"]Il monumento che Ginevra ha dedicato al suo concittadino Rodolphe Töpffer Il monumento che Ginevra ha dedicato al suo concittadino Rodolphe Töpffer[/caption]

a) Il “caso” Töpffer

A complicare ulteriormente le cose ci si è messo, alla fine degli anni '90, l'esperto e collezionista americano Robert Beerbohm, quando riscoprì (seguendo indizi e articoli giornalistici che risalivano indietro nel tempo fino agli inizi del secolo) un dimenticato fascicolo umoristico illustrato chiamato The Adventures of Obadiah Oldbuck (cioè Le avventure di Obadiah Oldbuck) uscito in America nel 1842 come supplemento del periodico Brother Jonathan. Si trattava dell'edizione pirata (!) di un'avventura umoristica realizzata in Europa dall'artista ginevrino Rodolphe Töpffer (1799 – 1846) nel 1827 e pubblicata in francese nel 1833 con il titolo di Histoire de monsieur Vieux Bois (ovvero Storia del Signor Vecchiobosco). E così dal 1999/2000 il primo fumetto è, per così dire,  "tornato in Europa dall'America", diventando – per molti “fumettologi” - quell'antico, curioso componimento topfferiano. Tanto di cappello, sicuramente, per Töpffer e per le sue opere. Molte delle strutture della tavola e delle inquadrature della figura che verranno nei decenni successivi usate nel fumetto furono da lui sperimentate con largo anticipo sui tempi. Ed è anche presente la “sequenzialità” dei disegni nella narrazione, secondo la definizione di Eisner. Mancano però, nelle buffe storielle del disegnatore svizzero, i codici caratteristici che fanno del fumetto quello che è. Manca persino lo stesso “fumetto”, la nuvoletta. Al suo posto una didascalia descrittiva. Il Signor Vecchiobosco topfferiano è protagonista di una storia illustrata dove... ci sono solo le illustrazioni senza storia. Come in ogni fumetto che si rispetti, anche in Töpffer la parte grafica è preponderante, rispetto alla parte scritta, ma il “fumetto” è ben altro.

[caption id="attachment_3928" align="alignright" width="300"]Una tavola di Obadiah Oldbuck (1842) Una tavola di Obadiah Oldbuck (1842)[/caption]

b) L'arrivo di Yellow Kid

Nel 1895, sull'inserto domenicale del giornale newyorkese The World del 5 maggio, apparve in quarta pagina un “vignettone” a colori intitolata At The Circus in Hogan's Alley (in italiano Al circo nel vicolo di Hogan). Il disegnatore, che lavorava per il quotidiano di Joseph Pulitzer (uno dei magnati della carta stampata insieme a William Randoplh Hearst) come commentatore grafico di affari politici e sociali, era Richard Felton Outcault (1863 – 1928). In quello scorcio di Hogan's Alley compariva per la prima volta, nell'angolo in basso a destra, un bambino scalzo e rasato (molto probabilmente per problemi di pediculosi), vestito soltanto con un camicione sporco oltre ogni dire. Quell'indumento sarebbe stato più tardi colorato di giallo e il ragazzino – eroe proletario del ghetto urbano – sarebbe uscito ben presto dall'anonimato e si sarebbe ulteriormente caratterizzato come personaggio principale della vera e propria prima serie a fumetti (appunto Hogan's Alley), diventando Yellow Kid (il “monello in giallo”). Per questo “infante straccione” Outcault si ispirò alle foto scattate fra gli anni '80 e '90 del XIX secolo nei quartieri poveri da uno dei primi fotoreporter del mondo, il newyorkese Jacob Riis, specializzato in “tematiche sociali”.

[caption id="attachment_3929" align="alignleft" width="300"]La prima apparizione di Yellow Kid nel 1895 La prima apparizione di Yellow Kid nel 1895[/caption]

In questo vignettone iniziale del 5 maggio 1895 il “fumetto” come tale è ancora assente, però. Outcault, continuando nei mesi successivi la sua epopea dei sobborghi (e trasferendosi armi e bagagli negli uffici del concorrente Hearst) inserirà e sperimenterà via via tutti i codici peculiari del fumetto, facendo faticosamente nascere, grazie anche alla serializzazione, un nuovo mezzo di comunicazione. Secondo il nostro – e non solo nostro - parere la prima storia (brevissima) a fumetti propriamente detta - con protagonista Yellow Kid – apparve il 25 ottobre 1896 sul New York Journal. Si intitolava The Yellow Kid and His New Phonograph (cioè Yellow Kid e il suo nuovo fonografo): una tavola con una gabbia suddivisa in cinque vignette consequenziali (separate da spazi bianchi), con l'uso sistematico delle nuvolette (parlano un pappagallo e lo stesso Yellow Kid). Questo è un punto fermo.

[caption id="attachment_3930" align="alignright" width="300"]Yellow Kid e il primo, vero “fumetto” (1896) Yellow Kid e il primo, vero “fumetto” (1896)[/caption]

3. Scintille storiche dell'idea “fumetto”

Il punto fermo del 1896 è però soltanto un punto d'arrivo. Il fumetto – come abbiamo visto con Töpffer - non nasce dal nulla, ma è la conclusione di un continuo sperimentare di forme, tecniche, linguaggi, supporti, espedienti grafici... Questo meccanismo di associazione rapida parola/immagine per ottenere un sicuro responso e gradimento nel lettore fu inaugurato nel secolo XVII dagli illustratori (soprattutto inglesi) dei periodici umoristici, come il superbo James Gillray, che usavano continuamente la nuvoletta per far parlare le loro esilaranti caricature di governanti, borghesi, generali e regnanti. Nell'800 fu la rivista britannica Punch a portare avanti questo discorso che sarebbe poi stato ereditato (vedere a tal proposito i nostri due interventi sul settimanale La Tradotta) nei primi decenni del '900 dai “giornali di trincea” destinati alle truppe nazionali.

[caption id="attachment_3932" align="alignleft" width="300"]James Gillray, 1792 James Gillray, 1792[/caption]

Nel '700 e nell'800 eravamo però testimoni di satira politica a vignetta unica con utilizzo della nuvoletta, non di “fumetto”, anche se c'erano casi limitati e particolari e curiose eccezioni (come nella tavola realizzata da un anonimo inglese fra il 1700 e il 1740, intitolata The Prodigall Son Sifted, ovvero Il Figliol Prodigo Setacciato, una storia raccontata in nove vignette con l'uso di nuvolette “moderne” - una storia però che rimase un caso isolato, non innescando una rivoluzione, come avrebbe poi fatto il lavoro di Outcault). Mancava sempre qualcosa, anche se erano comunque primi passi verso Yellow Kid. Ma nemmeno questi precursori pescavano nel niente.

[caption id="attachment_3933" align="alignright" width="300"]James Gillray, 1796 James Gillray, 1796[/caption]

Come ben spiega anche McCloud nel suo trattato, simili meccanismi di immagini messe in sequenza con un minimo ricorso alla parola scritta per narrare una storia o una serie di accadimenti erano state utilizzate in ogni parte del globo da secoli e secoli... addirittura da millenni. Le gesta dei Faraoni e del popolo Egizio raccontate tramite pitture murali con figure e geroglifici, certi manoscritti delle culture precolombiane, i polittici medievali sulle gesta dei Santi o sulla vita di Cristo, i pannelli in legno dipinti dei cantastorie, i codici miniati sui quali apparivano figure anche diaboliche che “parlavano” grazie a disegni di cartigli di pergamena che uscivano dalle loro bocche... Tutti espedienti per comunicare rapidamente e in forma condensata tanti concetti e cronache a una massa popolare quasi completamente analfabeta, seppur curiosa, o da “indottrinare”. (Uhm... non è che il fumetto sia cosa da analfabeti, però!)

Lo stretto legame fra la parola e l'immagine si perde nella notte dei tempi ed è quasi “genetico”: persino se prendiamo dall'alfabeto la lettera A (maiuscola) e la rovesciamo viene fuori un'immagine, e precisamente una testa di bue stilizzata (dal termine fenicio aleph, mediato a sua volta dalla tradizione egizia, per indicare il cornuto animale, termine da cui venne poi il nome stesso greco della lettera alpha)!

[caption id="attachment_3934" align="alignleft" width="300"]Anonimo inglese (prima metà del '700): Il Figliol Prodigo Setacciato Anonimo inglese (prima metà del '700): Il Figliol Prodigo Setacciato[/caption]

Abbiamo scelto, fra le migliaia di antenati di ciò che dal 1896 chiamiamo "fumetto", due casi esemplari. Tentiamo dunque di “analizzare” con l'esperienza ultracentenaria di questo contemporaneo media un capolavoro di antica tappezzeria e un'interpretazione d'autore del parto d'ingegno dell'Alighieri.

a) L'arazzo normanno di Bayeux

Il primo modello di quello che qualcuno ancora oggi chiamerebbe “protofumetto” (e forse lo stesso Scott McCloud, che lo cita nel suo Understanding Comics del 1993), è il cosiddetto Arazzo di Bayeux (noto anche come Tappezzeria o Arazzo della Regina Matilda o ancora come Tela della Conquista), dal nome della cittadina francese dov'è conservato, a pochi chilometri a sud del Canale della Manica. In realtà non si tratta di un vero “arazzo”, ma di un tessuto ricamato, realizzato anonimamente nella seconda metà dell'XI secolo.È veramente imponente, composto da nove pezze di tela di lino, abbellite con lane di otto colori diversi, alte mezzo metro e cucite insieme, per una lunghezza totale di quasi 69 metri: sembra davvero una sorta di mastodontica, contemporanea "striscia a fumetti"!

La Tappezzeria racconta, in circa 60 scene ordinate cronologicamente secondo il senso di lettura, la conquista normanna dell'Inghilterra, culminata nella celebre Battaglia di Hastings del 14 ottobre 1066. Il Conquistatore era Guglielmo, Duca di Normandia. Sull'Arazzo compaiono 626 personaggi umani di ogni ruolo ed estrazione sociale, 202 fra cavalli e muli, 55 cani, 505 animali delle più diverse specie, 37 costruzioni, 41 navi e 49 alberi... per un totale di 1115 differenti figure; forse, in origine, visto che mancano alcune parti finali, il racconto della Tela si completava col Natale del 1066, quando Guglielmo il Conquistatore veniva incoronato Re d'Inghilterra.

Il testo della tela è sintetico e vergato in un latino semplice (ricordiamo l'esigenza di poter comunicare velocemente con un popolo scarsamente erudito) e abbastanza comprensibile anche per i non esperti. Eccolo qua di seguito nella sua completezza con annessa traduzione in italiano (i vari “quadri” sono separati da un trattino):

[caption id="attachment_3938" align="alignright" width="450"]L'inizio dell'Arazzo... L'inizio dell'Arazzo...[/caption]

Eadward(us) rex (Re Edoardo) -Ubi Harold dux Anglorum et sui milites equitant ad Bosham (Dove Aroldo, duca degli Inglesi, cavalca verso Bosham con i suoi armigeri) - Ecclesia (Una chiesa) - Hic Harold mare navigavit (Qui Aroldo salpa per il mare) - Et velis vento plenis venit in terram Widonis comitis (E con le vele gonfiate dal vento naufraga sulle terre del conte Guido) - Harold (Aroldo) - Hic apprehendit Wido Harold(um) (Qui Guido si impadronisce di Aroldo) - Et duxit eum ad Belrem et ibi eum tonuit (E lo porta con sé a Beaurain, dove lo tiene costretto) - Ubi Harold et Wido parabolant (Qui Aroldo e Guido trattano) - Ubi nuntii Willelmi ducis venerunt ad Widonem - (Qui gli ambasciatori del duca Guglielmo si recano da Guido) - Turold (Turoldo) - Nuntii Willelmi (I messaggeri di Guglielmo) - Hic venit nuntius ad Wilgelmum ducem (Qui un messaggero va dal duca Guglielmo) - Hic Wido adduxit Haroldum ad Wilgelmum Normannorum ducem (Qui Guido conduce Aroldo dal Guglielmo, duca dei Normanni).Hic dux Wilgelm cum Haroldo venit ad palatium suum (Qui il duca Guglielmo, insieme ad Aroldo, si reca al suo palazzo) - Ubi unus clericus et Aelfgyva (Qui c'è un chierico ed Elfia) - Hic Willelm dux et exercitus eius venerunt ad Monte Michaelis (Qui il duca Guglielmo con il suo esercito arrivano a Mont-Saint-Michel) - Et hic transierunt flumen Cosnonis. Hic Harold dux trahebat eos de arena. (E qui attraversarono il fiume Couesnon. Qui il duca Aroldo li tira fuori dalle sabbie mobili) - Et venerunt ad Dol et Conan fuga vertit (E arrivarono a Dol e Conan fu costretto a fuggire) - Rednes (Rennes) - Hic milites Willelmi ducis pugnant contra Dinantes (Qui i soldati del duca Guglielmo combattono contro Dinan) - Et Cunan claves porrexit (E Conan consegnò le chiavi) - Hic Willelm dedit Aroldo arma (Qui Guglielmo cede le armi ad Aroldo) - Hic Willelm venit Bagias (Qui Guglielmo venne a Bayeux) - Ubi Harold sacramentum fecit Willelmi duci (Dove Aroldo giura nelle mani del duca Guglielmo) - Hic Harold dux reversus est ad Anglicam terram (Qui il duca Aroldo torna in Inghilterra) - Et venit ad Edwardum regem (E venne dal re Edoardo) - Hic portatur corpus Edwardi regis ad Ecclesiam Sancti Petri aposoli (Qui il corpo del re Edoardo viene portato alla Chiesa di S. Pietro apostolo) - Hic Eadwarus rex in lecto alloquitur fideles. Et hic defunctus est (Qui il re Edoardo, nel suo letto, si intrattiene con i suoi fedeli. E qui è defunto) - Hic dederunt Haroldum coronam (Qui hanno consegnato ad Aroldo la corona) - Hic residet Haroldum rex Anglorum (Qui governa Aroldo, re degli Inglesi) - Stigant archiepiscopus (L'arcivescovo Stigant) - Isti mirant stella (Questi ammirano una stella cometa) - Harold ( Aroldo ) -

[caption id="attachment_3936" align="alignleft" width="484"]L'apparizione della Cometa di Halley nell'Arazzo di Bayeux L'apparizione della Cometa di Halley nell'Arazzo di Bayeux[/caption]

Hic navis anglica venit in terram Willelmi duci (Qui una nave inglese approda sulle terre del duca Gugliemo) - Hic trahunt naves ad mare (Qui le navi sono trainate verso il mare) - Isti portant armas ad naves et hic trahunt carrum cum vino et armis (Questi portano le armi a bordo delle navi e qui tirano un carro pieno di vino e armi) - Hic Willelm dux in magno navigio transivit et venit ad Pevensae (Qui Guglielmo attraversa il mare su una grande nave e approda a Pevensey) - Hic exeunt caballi e navibus (Qui i cavalli escono fuori dalle navi) - Et hic milites festinaverunt Hestinga ut cibum raperuntur (Qui i soldati si affrettarono a raggiungere Hastings per procurarsi cibarie) - Hic est Werard (Questo è Wadard) - Hic coquitur caro et ministraverunt ministri (Qui si preparano le carni e i servitori si occuparono dei loro compiti) - Hic fecerunt prandium et hic episcopus cibum et potum benedicit (Qui preparano il pranzo e il vescovo benedice i cibi e le bevande) - Odo eps (Il vescovo Oddone) - Iste iussit ut foderetur castellum ad Hestenga castra (Questi ordina di edificare una fortificazione davanti all'accampamento di Hastings) - Hic nuntiatus est Willelm de Harold (Qui vengono portate a Guglielmo notizie di Aroldo) - Hic domus incenditur (Qui una casa viene incendiata) - Hic milites exierunt de Hestenga et venerunt ad proelium contra Haroldum regem (Qui i soldati uscirono da Hastings e andarono a combattere contro il re Aroldo) - Hic Willelm dux interrogat Vitale si vidisset exercitum Haroldi (Qui il duca Guglielmo chiede a Vitale se abbia visto l'esercito di Aroldo) - Iste nuntiat Haroldum regem de exercitu Willelmi ducis (Questo informa il re Aroldo dell'esercito del duca Guglielmo) - Hic Willelm dux alloquitur suis militibus ut preparent se viriliter et spaienter ad proelium contra Anglorum exercitum (Qui il duca Guglielmo arringa i suoi soldati perché si tengano pronti a combattere con coraggio e saggezza contro l'esercito degli Inglesi) - Hic ceciderunt Lewine et Gyrd fratres Haroldi regis (Qui soccombono Lewine e Gyrd, fratelli di re Aroldo) - Hic ceciderunt simul Angli et Franci in prelio (Qui muoiono negli scontri sia Inglesi che Francesi) - Hic Odo Eps. baculu tenens confortat (Qui il vescovo Oddone, reggendo il bastone del comando incita i giovani alla battaglia) - Hic est Willelm dux (Questo è il Duca Guglielmo) - Hic Franci pugnant, et ceciderunt quii erant cum Haroldo (Qui i Francesi combattono e muoino coloro che erano con Aroldo) - Hic Harold rex interfectus est (Qui viene ucciso il re Aroldo) - Et fuga verterunt Angli (Gli inglesi sono in fuga).

[caption id="attachment_3937" align="alignright" width="450"]Scene di combattimento nella Tela della Conquista Scene di combattimento nella Tela della Conquista[/caption]

Come ogni fumetto che si rispetti (anche se qui ci situiamo quasi 1.000 anni prima di Yellow Kid), l'azione si dipana sulla Tappezzeria scena dopo scena, seguendo la "freccia del tempo", con un senso di lettura “all'occidentale”, da sinistra verso destra. Tali scene, come moderne “vignette”, sono spesso divise l'una dall'altra in una sorta di “gabbia”, i cui elementi grafici sono costituiti da alberi o da costruzioni architettoniche. La didascalia (altro elemento comune nel fumetto), praticamente continua, accompagna il fruitore quasi per la quasi totlalità dei 70 metri della Tappezzeria, spiegando il significato delle situazioni sottostanti e fornendo i nomi dei personaggi principali. Lungo l'Arazzo corrono due cornici – una inferiore e una superiore – alte circa 10 cm ciascuna e ornate soprattutto con animali e motivi vegetali. Fra i momenti salienti quello che ancora oggi più riempie di meraviglia – più o meno a metà della Tela - è l'apparizione, nella cornice superiore, di una stella caudata, additata con stupore e sgomento reverenziale dai personaggi. Si tratta nientemeno che della Cometa di Halley, un celeberrimo vagabondo celeste, ricorrente e puntualissimo, del Sistema Solare. Quello raffigurato nell'Arazzo di Bayeux è il passaggio del marzo/aprile del 1066. Gli ignoti ricamatori della Tappezzeria interpretarono questa magica comparsata spaziale come un segno di sventura per re Aroldo, che era stato incoronato il 6 gennaio di quello stesso anno. Infatti, nelle scene seguenti, vediamo prima Aroldo che in un incubo sogna la flotta d'invasione normanna e poi Guglielmo che ordina di costruire le navi per occupare l'Inghilterra. Gli ultimi metri dell'Arazzo narrano la traversata della Manica e la successiva Battaglia di Hastings, per rappresentare la crudeltà della quale la cornice inferiore abbandona i suoi ornamenti floreali e faunistici colmandosi d'un tratto di tragici cadaveri nudi o semi-svestiti, smembrati e decapitati.

Movimento, azione e pathos a bizzeffe!

[caption id="attachment_3939" align="alignleft" width="608"]Come la Tela si presenta ai visitatori del Museo di Bayeux Come la Tela si presenta ai visitatori del Museo di Bayeux[/caption]

L'importanza della Tappezzeria di Bayeux trascende la pur importantissima trama degli eventi storici e della cronologia degli accadimenti, illustrando allo spettatore del millennio successivo il modus vivendi delle popolazioni (civili, nobili, ecclesiastici, militari...) dell'Europa centro-settentrionale in pieno Medioevo. Possiamo così renderci conto di come vestiva un re inglese dell'XI secolo - con una tunica calata fin sui piedi e con il “bastone del comando” fra le mani; vediamo il modo di cavalcare di quegli antichi popoli - con staffe, selle e briglie; entriamo in un sontuoso palazzo dove si sta celebrando un banchetto e osserviamo un personaggio dissetarsi con la birra, bevendola da un corno, mentre altri servono uccellagione allo spiedo; possiamo documentarci sulle antiche tecniche di navigazione, con navi monoalbero provviste di ancora. Si notano scene di caccia con il falco, quando ancora non esisteva l'uso di incappucciare questo orgoglioso uccello rapace; vediamo feroci molossi; abbiamo anche una scena funebre (la morte di Re Edoardo il Confessore, nobilitata dall'entrata in scena della Mano di Dio), con tanto di corpo infagottato e portantina sorretta a spalla da otto uomini. La salma del re viene condotta nella Cattedrale di Westminster, fresca di consacrazione: ciò si deduce dal fatto che un operaio sta sistemando una banderuola a forma di galletto in cima al campanile. L'Arazzo ci informa sul modo in cui i Normanni si prepararono all'attacco: prima venne abbattuto un certo numero di alberi, poi i tronchi vennero scortecciati e modellati per costruire le navi, quelle conosciutissime con le teste di drago a prua (e spesso anche a poppa). Prima di salpare le navi vennero rifornite di cibo e bevande, tra cui del buon vino; infine vennero stivati a bordo gli armamenti. La storia della Battaglia di Hastings è anche una storia di armi: spade e spadoni, lance corte e lunghe, flagelli, archi e frecce, faretre e scudi, pesantissime cotte di maglia di ferro (portate a bordo dei vascelli da coppie di uomini), elmi e speroni, bastoni e vessilli, asce e mannaie. In tutto questo gran macello Re Aroldo viene colpito mortalmente da una freccia che gli si va a infilare in un occhio.

[caption id="attachment_3940" align="alignright" width="410"]L'Arazzo di Bayeux interpretato da Scott McCloud L'Arazzo di Bayeux interpretato da Scott McCloud[/caption]

Insomma, un capolavoro di cinematismo, questa antica Tela lontana progenitrice linguistica del fumetto, che comunica a chi ne prende visione, con l'immediatezza delle immagini e con semplici e sintetici riferimenti scritti, tutta una serie di momenti storici, concetti, nomi, informazioni, tecniche, usi e costumi – difficilmente mediabili in maniera altrettanto palese da una scultura, da un affresco o da un poema...

b) La Divina Commedia illustrata dal Botticelli

Fino alla fine dell'Ottocento l'incompiuta trascrizione in disegno operata negli ultimi anni del XV secolo dal fiorentino Sandro Botticelli (1445 – 1510) sulla Commedia del concittadino Dante Alighieri (1265 – 1321) era ben poco nota, in quanto la raccolta di fogli di pergamena su cui era stata realizzata si era dispersa e aveva viaggiato nei secoli per tutta Europa, fino a “condensarsi” fra la Città Eterna e la capitale germanica. Certo, la si conosceva... non fosse altro per il fatto che l'opera era già menzionata nelle Vite del Vasari della seconda metà del '500, nel testo delle quali si legge che, terminati a Roma gli affreschi per la Cappella Sistina, il Botticelli se ne tornò subitamente a Fiorenza, dove, per essere persona sofistica, comentò una parte di Dante; e figurò lo Inferno e lo mise in stampa, dietro il quale consumò di molto tempo, per il che non lavorando fu cagione di infiniti disordini alla vita sua.

Il ciclo consta oggi di 92 fogli, 85 dei quali sono raccolti nel Kulturforum Kupferstichkabinett di Berlino e gli altri 7 sono conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana a Roma: esistevano una decina di ulteriori pagine, oggi purtroppo finite chissà dove... Queste pergamene, alte circa 32,5 cm per 47,5 cm di larghezza (a parte una doppia, quella con Lucifero dalle tre teste che divora i traditori), presentano sul lato del pelo, con alcune eccezioni, il testo del poema dantesco vergato a mano dal copista Niccolò Mangona su quattro colonne.

[caption id="attachment_3941" align="alignleft" width="338"]Dante e Virgilio, nell'Inferno secondo Botticelli, si “spostano” su un sfondo fisso (Malebolge) Dante e Virgilio, nell'Inferno secondo Botticelli, si “spostano” su un sfondo fisso (Malebolge)[/caption]

Il primo a descrivere dettagliatamente il capolavoro in epoca moderna fu Gustav Waagen nel suo saggio Treasures of Art In Great Britain del 1854: in quel periodo le tavole erano infatti in Inghilterra. L'opera fu commissionata a Botticelli da Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici, cugino di secondo grado del Magnifico, e negli anni numerose ipotesi sono state fatte su quale dovesse essere la reale funzione finale di tale ciclo dantesco; nel 1986 uscì per i tipi del Belser Verlag di Zurigo un'edizione in facsimile, Dantes Divina Commedia mit den Illustrationen von Sandro Botticelli, licenziando la quale il curatore Peter Dreyer ipotizzava così che i disegni dovessero servire alla pubblicazione di un innovativo codice illustrato (con le pagine che si aprono con una rotazione di 90° rispetto alla lettura tradizionale di un qualsiasi libro). Però accurate analisi successive sugli originali hanno evidenziato il fatto che i disegni botticelliani sono stati fatti prima del testo manoscritto del Mangona. Nella storia dei codici illustrati è sempre accaduto il contrario: prima lo scritto e dopo la parte illustrata, secondo le indicazioni del copista. Per questo motivo certi studiosi pensano che i disegni fossero preparatori a un ciclo di affreschi (per il Duomo di Firenze o per un luogo privato); altri - come l'esperto tedesco Hein-Th. Schulze Altcappenberg, che curò il catalogo dell'esposizione romana dell'opera, avvenuta presso le Scuderie Papali al Quirinale nell'autunno del 2000 - ritengono probabile un montaggio finale su tavole mobili per un lettura comune di questa incredibile Divina Commedia, in una sorta di ristretto “circolo culturale”.

[caption id="attachment_3944" align="alignright" width="300"]I differenti espedienti grafico-narrativi usati da Botticelli per il Paradiso I differenti espedienti grafico-narrativi usati da Botticelli per il Paradiso[/caption] [caption id="attachment_3942" align="alignleft" width="350"]Ancora Dante e Virgilio all'Inferno (con Farinata degli Uberti) Ancora Dante e Virgilio all'Inferno (con Farinata degli Uberti)[/caption]

Fra le altre ipotesi si suppone che i disegni fossero invece destinati alla stampa di uno o più “rotoli”, composti da numerose pagine legate insieme, da svolgere al momento della lettura: si ritornerebbe dunque all'idea di una narrazione per sequenza di immagini e parole ordinare cronologicamente, montate su una lunga striscia, proprio come all'epoca dell'Arazzo di Bayeux... Ma Botticelli, rispetto agli anonimi ricamatori normanni, ha “una marcia in più”! L'idea geniale del grande artefice della Primavera e della Nascita di Venere fu quella di pensare ogni singolo disegno come uno sfondo fisso su cui muovere i personaggi, inquadrandoli in più posizioni successive, per narrare così tutti gli accadimenti della Commedia e non solo i momenti salienti. Questo artificio è stato usato con particolare evidenza nel caso di Dante e del suo cicerone Virgilio all'Inferno e nel Purgatorio; in Paradiso, invece, l'Alighieri e Beatrice stanno quasi sempre al centro del foglio – come “motori immobili” - mentre i cieli e gli abitatori celesti sembrano ruotare intorno a loro.

[caption id="attachment_3943" align="alignleft" width="252"]Dante e Virgilio si arrampicano su Lucifero (che funge da “sfondo fisso”), inquadrati in diversi momenti cronologicamente e spazialmente separati Dante e Virgilio si arrampicano su Lucifero (che funge da “sfondo fisso”), inquadrati in diversi momenti cronologicamente e spazialmente separati[/caption]

E' lo stesso identico meccanismo di comunicazione che avrebbe adottato nel '900 in ambito fumettistico il monumentale Gianni de Luca (1927 – 1991) con le sue colte riduzioni del teatro shakespeariano; nell'opera dell'artista calabrese la gabbia della tavola viene radicalmente modificata, eliminandone la struttura classica modulata per vignette e facendo camminare il protagonista (come, per esempio, Amleto) all'interno della pagina, cronologicamente secondo il senso di lettura, da sinistra verso destra; ogni singolo “fotogramma” è di per sé una vignetta; gli spazi bianchi fra due posizioni contigue del personaggio ricreano dunque una sorta di “gabbia” della tavola.

In Botticelli i personaggi animati su ogni singola pergamena si muovono nel tempo e nello spazio percorrendo sfondi prefissati – come può esserlo un Girone infernale. Rimanendo sempre nell'Inferno, a volte seguiamo Dante e Virgilio secondo il senso di lettura, altre volte la coppia di visitatori dell'Oltretomba va “al contrario”, da destra verso sinistra, come nel disegno relativo al Sesto Cerchio dove osserviamo il Sommo Poeta dialogare con Farinata degli Uberti. Per il verso “giusto” procedono poi l'Alighieri e il Mantovano nelle sei “scene” su unico fondale dedicate a Malebolge, ovvero l'Ottavo Cerchio, dove vengono puniti i fraudolenti.

[caption id="attachment_3946" align="alignright" width="214"]Quasi 500 anni dopo il Botticelli il fumettista calabrese Gianni De Luca usa la stessa tecnica grafico-narrativa (da Amleto) Quasi 500 anni dopo il Botticelli il fumettista calabrese Gianni De Luca usa la stessa tecnica grafico-narrativa (da Amleto)[/caption]

Narrare con immagini e parole ordinate sequenzialmente secondo il senso di lettura e in ordine cronologico: in questo senso Botticelli anticipa uno dei possibili futuri della comunicazione - quello del fumetto.

Ma c'è dell'altro – e con ciò chiudiamo...

Considerando ogni singolo elemento (tavola e pergamena) da un punto di vista della cosmologia contemporanea – sia per quanto riguarda la nobile lezione botticelliana, sia per quanto attiene all'utilizzo di questa tecnica da parte di De Luca nel mass media fumetto - siamo di fronte a una (ovviamente inconsapevole) rappresentazione grafica di una “linea di universo” di un oggetto attraverso lo spaziotempo, ovvero la traiettoria di un corpo nella nostra realtà quadridimensionale. In ogni foglio, Dante insieme a Virgilio nella Commedia ripensata dal Botticelli e gli eroi di Shakespeare nell'invenzione di De Luca si muovono nello spazio perseverando nel tempo, generando una sorta di grafico vettoriale. Al cinema – e già sappiamo quanto vicini siano i due linguaggi cinematografico e fumettistico – tale concetto (ideato dal fisico lituano Hermann Minkowski) è bene rappresentato nel capolavoro di fantascienza-horror Donnie Darko, diretto da Richard Kelly nel 2001.

[caption id="attachment_3947" align="alignleft" width="300"]Romeo e Giulietta di De Luca Romeo e Giulietta di De Luca[/caption]

Francesco G. Manetti

Alcuni suggerimenti per approfondire:

Blackbeard, Bill (a cura di) – R. F. Outcault's Yellow Kid (Kitchen Sink Press, 1995)

Manetti, Francesco – Un fumetto di 1000 anni fa: la Tappezzeria Normanna di Bayeux (su Collezionare n. 15 - Club del Collezionista, maggio 1990)

McCloud, Scott – Understanding Comics: the Invisible Art (Tundra, 1993)

Schulze Altcappenberg, Hein.-Th. – Sandro Botticelli pittore della Divina Commedia (Skira, 2000)

Töpffer; Rodolphe – The Adventures of Obadiah Oldbuck, the First American Comic Book (Edizioni Napoli Comicon, 2003)

Il Capitano del Sud: Aurelio Padovani (prima parte)

$
0
0

padovani 1

   
“L’operaio è il nostro primo fratello: col suo aiuto salveremo la Patria” (1)
 

FASCISMO MERIDIONALE

Chi abbia avuto la ventura di leggere anche solo qualcuno degli articoli che vado pubblicando qui su Ereticamente, si sarà facilmente reso conto che loro scopo principale è quello di fornire, con riferimento a fatti (le barricate a Parma, l’eccidio di Sarzana, l’esperienza degli Arditi del popolo, etc) o personaggi (Dumini, Tamburini, Barbiellini Amidei, etc) una verità “altra” – ma debitamente documentata – rispetto a quella corrente.

Questo, nella convinzione che, col tempo, si siano sedimentate intorno a cose e uomini del fascismo, forzature e vere e proprie distorsioni della realtà che, talora, hanno fatto breccia pure tra quelli che all’esperienza mussoliniana vorrebbero guardare senza paraocchi ideologici.

È il caso, anche, del giudizio sul fascismo dell’Italia meridionale, che, probabilmente sotto l’influenza di ciò che “dopo” avverrà (fino, addirittura agli epigoni del postfascismo) si suole ritenere sia nato, cresciuto e riuscito vincitore su posizioni moderato-conservatrici quando non reazionarie tout court.

Così, in effetti, non è; con un accenno assolutamente sommario, non essendo questo il tema dell’articolo, va preliminarmente detto che, nel periodo 1919-22, rispetto all’esperienza delle regioni del Nord, nell’Italia meridionale (con eccezione della Puglia):

• non esiste né una categoria di “agrari” egualmente determinata a difendere il suo privilegio (2), né una controparte contadina ed operaia combattivamente organizzata in Sindacati o Partiti;

• possono essere agevolmente identificati come peggiori nemici del fascismo nascente ed appena affermato gli esponenti di quel ceto notabilare che, sotto l’ala protettrice dei Prefetti, era stato governativo per vocazione e convenienza e aveva fatto la fortuna delle varie formazioni democratico-liberali generalmente a mera dimensione locale.

Con l’approssimarsi della vittoria delle squadre, e subito dopo la marcia su Roma, avviene una loro trasmigrazione nei ranghi del nazionalismo, che così assume qui connotati antifascisti, monarchici ad oltranza, sostenitori dell’ordine precedente, appena velato da un filo di maggiore autoritarismo.

Ne nasceranno contrapposizioni violente, non di rado sfociate nel sangue, che vedranno anche, talora, frange di delinquenza assoldate in blocco tra le camicie azzurre per contrastare nell’azione di piazza gli intemperanti in camicia nera, “spezzatori di cortei” della vigilia. (3)

L’appoggio delle Autorità, che in gran parte rimangono anche dopo la Marcia le stesse del prefascismo, la “credibilità” che censo e rango danno ai “signori” nelle piccole realtà paesane, alcune “incertezze” del vertice del PNF, l’atteggiamento difensivo al quale il fascismo è costretto nel periodo quartarellista, determineranno la sconfitta degli intransigenti che pure sono stati i protagonisti della vittoria.

Facciamo qualche esempio:

• in Sicilia, “vulcanico esponente del fascismo” è Totò Giurato, scappato giovanissimo di casa per andare a Fiume, fondatore del primo fascio isolano, insieme con Totò Battaglia, considerato, come lui “bolscevico sotto la bandiera italiana” e autore, alla fine del ’21, nella sua Ragusa, di un manifesto che è facile trovare riprodotto in tutte le storie iconografiche del periodo:

“Ultimi ammonimenti alla borghesia locale

Domenica 20 corr, riunitasi l’assemblea della nostra sezione in numero imponentissimo, il legionario Totò Giurato, in seguito alle discussioni e di deliberati in merito alla direttiva della politica locale, proponeva il seguente ordine del giorno, che ad unanimità venne approvato: “L’Assemblea generale dei fasci qui riunita decide una politica di diretto avvicinamento alle masse oneste, manifestandosi per una azione aperta contro la borghesia locale che, nel momento attuale, dà prova palese di malafede ed incoscienza”

In base al suddetto ordine del giorno il nostro fascio stabilisce la definitiva direttiva da seguire” (4);

• in Calabria, dove forte è l’influenza di Michele Bianchi, già sindacalista rivoluzionario di spicco, che nel fascismo ha portato le sue idee sociali (5), così esordisce, il 20 giugno del 1920, il giornaletto stampato a Caulonia dal minuscolo e combattivo fascio locale:

“A voi, abbronzati lavoratori dei campi, infaticabili scrutatori della natura, ubriachi di sole e di fatica, a voi smunti operai delle officine, ricercatori instancabili, creatori indefessi di nuovi congegno di progresso, a voi umili minatori pallidi come la luce della lucerna che vi guida alla ricerca delle vitalità misteriose della natura sotterranea, giunga grato il saluto del nuovo sole della libertà.

Voi che soffrite invano il peso brutale dello sfruttamento, alzate con serenità la fronte; sono giunti i tempi della riscossa, sono questi i tempi della rivincita, l’animo pieno di fede nella sicura vittoria e avanti dunque per il sentiero fiorito che segnerà il cammino, il trionfo della nuova fede.

Non più despoti e tiranni, non più sfruttatori delle umane energia; oggi più che mai, compagni lavoratori, si leva alto il nome del diritto e l’uguaglianza e la libertà nelle classi sociali si impone” (6)

• in Puglia, che conoscerà gli scontri più aspri tra le squadre a cavallo fasciste e i braccianti organizzati nelle leghe rosse, la figura dominante è quel Peppino Caradonna che un preoccupato rapporto del Prefetto così descrive il 31 maggio 1919:

“Nemmeno nei dirigenti delle predette sezioni (combattenti ndr) si può avere fiducia, perché alcuni per i loro principi sovversivi poco affidano, ed altri variano le idee da un giorno all’altro, e vanno coltivando delle utopie sovversive, come quella fatta nel comizio pubblico tenuto nel teatro Mercadante, il 24 corrente dall’avvocato Giuseppe Caradonna, Capitano del Regio Esercito, il quale inneggiò all’Internazionale e dichiarò essere tempo di finirla con la vecchia Italia, quella dell’agente delle imposte, del questurino in borghese e dell’Italia che disonorava l’Esercito col farlo correre da una città all’altra e frapporlo nelle lotte fra capitale e lavoro” (7)

E che le idee siano chiare, lo testimonia la lettera dell’organizzatore sindacale fascista Luigi Granata, diretta a Starace, Vice Segretario del Partito, nell’agosto del 1922:

“I peggiori nemici di Andria sono appunto i signori cosiddetti dell’ordine. Essi ostacolano veramente il fiorire delle nostre organizzazioni; essi minano il fascio, pretendono veramente di portare l’operaio alla schiavitù. Oggi, nelle giornate di agosto, minacciano, anzi insistono col voler pagare l’operaio con lire 4,25 al giorno. L’operaio cosa può pensare?... L’operaio, fatto maestro da un’esperienza di un non lontano passato, teme dai proprietari un ritorno all’antico, ed ha perfettamente ragione” (8)

• in Molise, alla fine del ’21, la sperduta sezione di Celenza Valfortore:

“… fa voti perché al Congresso (quello nazionale, di novembre, a Roma ndr) sia costituito il Partito fascista del Lavoro, come in un primo momento propose Mussolini, e si augura che… subito dopo, in un non lontano avvenire, il Partito Fascista del Lavoro affermi definitivamente il suo indirizzo repubblicano, seguendo la dottrina del grande Maestro (Mazzini ndr) falsata da indegni seguaci”. (9)

E, al ritorno da Roma, per chi non abbia capito il concetto, la Sveglia, l’organo del fascismo molisano, ribadirà: “Siamo i ribelli di tutti i gretti ed impotenti conservatorismi, perché desideriamo che la Nazione si a ringiovanita e rigovernata”.

Qualche esempio preso qua e là, a caso, tra i primi capitati sotto mano. Veniamo ora alla Campania ed all’eroe del nostro racconto, il Capitano Aurelio Padovani

REDUCE DI DUE GUERRE, PLURIDECORATO, CON SEI FIGLI A CARICO, DI PROFESSIONE OPERAIO…

“Come nacque l’astro Padovani nel firmamento politico della Campania e di Napoli subito dopo la conclusione della prima guerra mondiale? Donde proveniva, quali origini sociali, quale formazione culturale e civile, prima che politica, aveva avuto prima del 1919 colui che fu il protagonista indiscusso della vittoria del movimento fascista nella sua città e nella sua regione…? Purtroppo la pur ricca storiografia sul periodo fascista ha sempre mancato di cimentarsi con tutti gli interrogativi che ancora suscita, dopo tanto tempo, il caso Padovani, il quale continua pertanto ad essere avvolto dal più fitto mistero” .(10)

In effetti, iniziando una piccola ricerca sul più rappresentativo dei “Capitani del Sud” (11) mi sono imbattuto in questa difficoltà: non esiste una biografia degna di questo nome. Il volume di Gerardo Picardo, edito alcuni anni fa (12) non può essere definito una biografia; esso è piuttosto un excursus sul ruolo di Padovani nel fascismo campano e sull’interpretazione che di questo ruolo hanno dato storici e studiosi negli anni successivi.

Né molto aiuta la corposa appendice documentale, nella quale la parte del leone la fanno gli atti relativi alla sua morte, secondo alcuni “misteriosa” avvenuta il 16 giugno 1926.

Seguendo, quindi, tracce sparse qui e là, cercherò, in questo paragrafo di tracciare un profilo cronologico degli avvenimenti salienti della sua umana avventura. La valutazione e il giudizio storico-politico, a seguire…padovani 1

Aurelio Padovani nasce a Portici il 28 febbraio 1889; conseguito il diploma di perito industriale, spinto dal temperamento “d’azione”, oltre che –presumibilmente – dalla volontà di evitare un grigio futuro da operaio, si arruola volontario nei Bersaglieri allo scoppio della guerra di Libia, raggiungendo il grado di Sottotenente. (13)

È poi al fronte durante il conflitto mondiale, meritandosi 4 medaglie d’argento e raggiungendo il grado di Capitano; la sua iscrizione al fascismo data 4 aprile 1920.

Non è, quindi, presente a quella prima riunione semiclandestina del fascio napoletano il 1° aprile del 1919, in Galleria, nella quale, però, dispetto dello scarso numero dei convenuti, già si delineano le due anime del fascismo dell’intera regione: una nazionalista-monarchica, e l’altra rivoluzionario-combattentistica.

A determinare la vittoria della seconda, partita “in svantaggio”, sarà proprio la presenza e l’azione di Padovani.

La testimonianza di Mussolini a De Begnac autorizza a pensare che, all’epoca, Padovani stesse a Milano, probabilmente in attesa della smobilitazione:

“In via Paolo di Cannobio vennero un giorno a trovarlo alcuni Bersaglieri trasmigrati al Nord. Non facevano parte delle nostre schiere. Ci stimavano per la nostra milizia in quel Corpo. Erano dall’altra parte della barricata, non ricordiamo se legati da disciplina ideologica a Dino Roberto o a Riccardo Bauer. Ma, davanti al loro Capitano erano i ragazzi del ’97, ’98, ’99 che avevano fermato il nemico sul Piave e più di quel ricordo ora non domandavano al destino. Parlavano per rimembranze recuperate da ogni possibilità di oblio. “Perché non siete con me?” chiedeva il Capitano. Rispondevano: “Siamo sempre con voi, Capitano” . (14)

Con il rientro a Napoli, il Capitano si mette subito in luce sulla scena politica locale. Ho detto sopra che la sua iscrizione al fascio data al 4 aprile 1920, ma è certo che, almeno fino alla fine dell’anno egli si impegna soprattutto nella dirigenza dell’ dell’Associazione Nazionale Combattenti che qui più che altrove, grazie principalmente all’opera sua sarà vera levatrice del fascismo.

Chiurco lo dà presente, il 28 dicembre 1920, ad una manifestazione (probabilmente in appoggio a D’Annunzio) cui partecipa: “l’esiguo primo nucleo fascista… condotto dal Capitano Aurelio Padovani, in difesa di una bandiera nazionale che il Cap Padovani a nessun costo intendeva mollare (come non mollò) agli agenti”. (15)

È, però il 20 febbraio del 1921 che dirige la sua prima azione “squadrista”: a capo dei fascisti napoletani, con un piroscafo noleggiato per l’occasione, si reca a Torre Annunziata, dove è in corso lo sciopero dei molini: accolti da campane a stormo e scoppi di petardi da parte di una popolazione stanca delle angherie socialiste, gli uomini sfilano in città dietro uno striscione sul quale è scritto: “L’operaio è il nostro primo fratello: col suo aiuto salveremo la Patria”.

Comandante delle squadre d’azione e Segretario del fascio napoletano, organizza, il 24 aprile, il primo Convegno regionale del movimento, guadagnandosi l’appellativo di “instancabile organizzatore del fascismo napoletano”, e meritandosi la stima degli uomini quando, in prima fila, il 1° maggio guida l’assalto ad un comizio comunista in Piazza Mercato, col precipuo scopo di impedire che parli l’odiato disertore Misiano.

Cominciano, però, i dissensi nel vertice del movimento: i più tradizionalisti e gli irriducibili monarchici monarchici attaccano Padovani, sul piano istituzionale per il suo “fanatismo scontroso” che ne fa un convinto repubblicano, e sul piano pratico per essere stato l’organizzatore delle squadre che, a metà giugno, attraversano la città imponendo il ribasso forzoso dei prezzi in diverse tipologie di negozi, con un’azione che sa di “bolscevismo”.

Nessuno, però, è in grado di contrastare la popolarità del Capitano: i fascisti napoletani, riuniti in assemblea il 21 giugno emarginano i moderati e approvano un Ordine del Giorno nel quale, tra l’altro, plaudono a D’Annunzio e Mussolini e: “…solennemente riconfermano di non sentirsi legati alle sorti delle attuali istituzioni monarchiche”.

Continua, frattanto, l’opera di proselitismo e penetrazione nelle roccaforti rosse di una volta: il 10 luglio tocca a Giugliano, dove scoppiano incidenti con svariati feriti e a fine settembre tocca a Torre del Greco:

“A Napoli scoppiano violenti incidenti tollerati dal prefetto Pesce e dal questore Peruzzy, uomini nittiani. Due fascisti vengono assaliti a Torre del Greco da una sessantina di sovversivi. La Pubblica Sicurezza accorre e procede all’arresto dei due fascisti. Il Cap Padovani, con altri fascisti, viene assalito e ferito da una turba di sbirri mentre si recava a chiedere il rilascio dei fascisti arrestati ingiustamente nella mattinata” . (16)

Ma non è più tempo di zuffe di strada: è arrivato il momento di dare il colpo definitivo al vecchio sistema.

 

(fine prima parte - segue)

 

Giacinto Reale

    NOTE (1)           testo del cartellone che precede il corteo fascista alla prima vera azione squadrista guidata da Padovani, a Torre Annunziata il 20 febbraio del 1921; per l’episodio, vds: Raffaele Colapietra, “Napoli tra dopoguerra e fascismo”, Milano 1962 (2)           in: Marco Bernabei, “Fascismo e nazionalismo in Campania”, Roma 1973, si accenna, p es, al fatto che, in diverse zone della regione, proprietari “parassitari”, di fronte ai primi scioperi ed occupazioni, preferiscono vendere i terreni a singoli o cooperative e restarsene a vivere tranquilli in città (3)           in: Franco Gaeta, “Il nazionalismo italiano”, Bari 1981, vi è notizia di scontri armati (anche con morti) tra fascisti e neo-nazionalisti a Ginosa, Andria, Qualiano, Sarconi Regalbuto e altri luoghi (4)           sarà il caso di aggiungere che avverso al primo fascismo è anche il tradizionale alleato del latifondo, la mafia; a Misilmeri, il 7 aprile del 1921 viene ucciso, in un agguato di chiara marca mafiosa, Mariano de Caro, della locale sezione fascista (5)           non si può parlare della Calabria senza accennare a Luigi Filosa , fascista rivoluzionario (trovo impropria l’espressione “di sinistra”, ho già avuto modo di dirlo) antemarcia, nemico giurato del latifondo, poi dissidente, processato e confinato, reiscritto al PNF quasi in coincidenza con lo sbarco degli Alleati in Sicilia, poi nella “Guardia al labaro” del fascismo clandestino, riarrestato mentre cerca di raggiungere la RSI; parlamentare “critico” del MSI nel dopoguerra (6)           in: Domenico Romeo, “L’avvento del fascismo in Calabria”, Ardore Marina 2009, pag 27 (7)           in: Simona Colarizi, “Dopoguerra e fascismo in Puglia”, Bari 1971, pag 16 (8)           in: Simona Colarizi, cit, pag 288; nella risposta Starace si dirà perfettamente d’accordo, perché: “i profittatori devono essere in modo assoluto eliminati” (9)           in: Giuseppe Saluppo, “Molise, interventismo dopoguerra fascismo”, Milano 1994 pag 92 (10)            Antonio Landolfi, citato in: “Gerardo Picardo, “Aurelio Padovani”, Napoli 2003 pag 45 (11)           è il titolo del quarto capitolo di: Yvon De Begnac, “Taccuini mussoliniani”, Bologna 1990, pagg 141-168, che riprende una definizione mussoliniana riferita, oltre che a Padovani, al al siciliano Gennaro Villelli e al pugliese Giuseppe Attilio Fanelli, che ci ha lasciato una importante testimonianza del “clima” nel suo: “Perché seguimmo e disobbedimmo a Mussolini”, Roma 1984 (12)           Gerardo Picardo, op cit (13)           la carriera militare di Padovani è di assoluto rispetto: in Libia è uno degli 11 superstiti della battaglia di Sciara-Sciat; si guadagna la prima medaglia d’argento il 20 luglio del 1915 a San Michele sul Carso, restando anche ferito; mutilato ad un piede sull’Hermada, nel 1916, riceve la seconda , sempre d’argento, e la terza nell’agosto del ’16, per l’eroico comportamento tenuto a “quota 86”, non mi è riuscito di trovare località e motivazione della quarta, attribuitagli da tutti gli storici che si sono di lui occupati e dal Dizionario Biografico della Treccani (14)           Yvon De Begnac, op cit, pag 145 (15)           Giorgio Alberto Chiurco, “Storia della rivoluzione fascista”, Firenze 1928, vol IV pag 431 (16)           Giorgio Alberto Chiurco, op cit, pag 323    

Noi, i ribelli…

$
0
0

xmas

M’è tornato a mente un episodio raccontato dal giornalista Gianpiero Mughini, che ha sempre manifestato coinvolta stima nei confronti di Berto Ricci. Quando costui si sposò, invitò sette amici al bar e offrì loro un cappuccino direttamente al bancone. Si dirà che erano altri tempi, i tempi di un’Italia ‘proletaria e fascista’, dove ancora tanta miseria albergava e la vita si rendeva grama attenta economa, nonostante l’impegno e le iniziative intraprese dal Fascismo – nominato Presidente del Consiglio Benito Mussolini assicura prioritario l’impegno che il pane sia sulla tavola degli italiani (altro che merendine nello zaino degli obesi bambini dell’osceno presente!). Tanto fu fatto, tanto si sarebbe dovuto ancora fare… Una rivoluzione è un inesausto cammino. Se si ferma, se si illude d’essere compiuta se si adagia, come le biciclette, cade nel rovinio della strada (così si esprimeva Ernesto Che Guevara). Anche allora pasciuti borghesi si sposavano con la chiesa addobbata di fiori la Balilla ad attenderli il ristorante. Berto Ricci era un modesto professore di matematica, un precario si direbbe oggi, proveniente dalle file del sovversivismo libertario eppure sognava credeva combatteva con la penna, prima di donare il proprio sangue, alla sabbia della Quarta Sponda affinché il Fascismo realizzasse il suo compito ‘universale’… Retorica follia inganno travisamento della realtà? E’ facile con il senno di poi a grattare la vernice, dopo è sempre troppo facile, dietro la scrivania a far strage delle illusioni con cinismo e ironia e sovente una buona dose di malafede… Erano, Berto Ricci e tanti altri, i Guido Pallotta i Niccolò Giani i giovani della scuola di Mistica fascista, i vecchi squadristi e i giovanissimi dell’ultimo lavacro di sangue, i combattenti di una visione del mondo di idee a disegnare un nuovo ordine europeo di trincee ove realizzare il cambiamento. Fra costoro Giuseppe Solaro. I ribelli dell’esistente, che vedono nel Fascismo e nel suo Capo il cammino, l’unico, verso quel mondo ove finalmente coabiteranno lo spirito di un uomo rigenerato nei valori dello Spirito e reso giusto e sano nel riconoscimento del proprio lavoro.

Alla scomparsa di Giano Accame la figlia Barbara, vedova dell’amico e camerata Peppe Dimitri, chiese di incontrarmi in quanto il padre aveva lasciato incompiuto un libro – in effetti mancava soltanto nei suoi intenti un capitolo dedicato a Mishima Yukio –, che l’editore Mursia si apprestava a dare alle stampe. Un bel libro dal titolo La morte dei fascisti (da professore ‘rompicoglioni’ avrei trovato più corrispondente un ‘per’ al posto del ‘dei’, ma tant’è…), di cui organizzai la presentazione presso l’Istituto Carlo Panzarasa a Trieste. Barbara, per espresso desiderio del padre, avrebbe voluto in copertina la riproduzione di un manifesto, di quelli meno noti, d’arruolamento nella Decima MAS. Mi raccontava che anche per quell’immagine s’era voluto arruolare, per un sol giorno, appunto il 25 aprile del ’45. Qualcuno le aveva detto che ne possedevo copia originale. Non se ne fece nulla, pur assicurandole che non vi erano diritti d’autore; l’editore preferì la fotografia dell’assassinio di Giuseppe Solaro, di quel volto ormai al di là del contingente del provvisorio di certo della canea che lo circonda e di coloro che ghignano si beano della corda già intorno al collo. L’uomo contro il sub-umano, quell’andare essere già oltre nel luogo riservato alla metafisica. Come aveva scritto Filippo Corridoni pochi giorni prima di scomparire nel fuoco della trincea delle Frasche: ‘Io rimarrò sempre il Don Chisciotte del sovversivismo; ma un Hidalgo senza ingegno, pieno soltanto di fede. Morirò in una buca, contro una roccia, o nella corsa di un assalto, ma – se potrò – cadrò con la fronte verso il nemico, come per andare più avanti ancora’… (E la sua stele, fra le doline di Monte San Michele, è il riconoscimento per quel sindacalista rivoluzionario che accettò di partecipare volontario alla guerra ‘borghese’ per trasformarla in guerra di popolo, premessa della giustizia sociale).

Domenica mattina, sede dell’ass. Volontari di guerra, a Trastevere, per la presentazione del libro di Fabrizio Vincenti su Giuseppe Solaro, il fascista che sfidò la FIAT e Wall Street, edizione Ciclostile. Ho avuto copia due giorni prima per prepararmi a sostituire Enzo che s’è reso indisponibile per ragioni di salute. Trecento pagine, arricchite da numerose e inedite fotografie, a riempire uno spazio colpevolmente manchevole verso un uomo che, nella brevità della sua esistenza (viene assassinato che non aveva ancora trentuno anni), ha dato tanto e di più in idee ed azione. Trecento pagine che confermano come il Fascismo rappresenti la sola grande rivoluzione in armi del XX secolo. Con le armi perché nessun potere legato al capitale sarà disposto a suicidarsi volontariamente, a cedere privilegi e profitto, a rendere se stesso altro da sé. ‘Dalla guerra che è oggi universale dipende l’esito della rivoluzione sociale, la sconfitta o il trionfo del lavoro sul soffocamento plutocratico’: scrive. Trecento pagine che ero stato costretto a sfogliare rapidamente e che ora posso leggere con la cura che meritano.

Credo che sia ora stabilire quanto e cosa debba permanere nella riflessione nell’insegnamento nelle linee guida rispetto a questo presente di quella storia a cui restiamo fedeli, incuranti di collocarci dalla ‘parte sbagliata’ anzi fregandoci di essere eredi e testimoni del ‘male assoluto’… Insomma, per citare ancora e sempre Robert Brasillach, il Fascismo ‘immenso e rosso’ (visione del mondo e, quindi, non circoscritta alla fase strettamente storica o limitata alle coordinate europee; superamento sì del comunismo, della sua concezione materialistica, ma pur sempre nell’alveo del socialismo). Come ebbe a dire Nicola Bombacci a Genova, davanti agli operai dell’Ansaldo accorsi a sentire il vecchio tribuno del comunismo: ‘Il Socialismo non lo farà mai Stalin ma lo farà Mussolini’ e il 15 marzo del ’45, sempre a Genova, di fronte ad oltre trenta mila persone riaffermò la coerenza la lealtà delle sue azioni la fedeltà all’idea di riscatto delle masse tramite il lavoro con la socializzazione. Oggi quelle masse sono la voce disperata e offesa che si leva da tante parti, da ogni continente e noi, noi dobbiamo essere possiamo essere – e ‘vogliamo’ essere – la risposta… Ad altri, sempre più a noi distanti e avversi, il ciarpame becero e cretino di una destra borghese, prigioniera dei suoi incubi viltà e paure, a far da reggi-coda al capitale, al potere finanziario, mascherandosi con un dio (che è morto) con una patria (che è morta) con una famiglia (che è morta). Libertari nei diritti da difendere fascisti nello stile di vita e non solo…

Dopo averlo pronunciato alla radio, Giuseppe Solaro si affida al giornale La Riscossa del 12 ottobre ’44 per riproporre quello che può ben dirsi il suo ‘canto del cigno’, il testamento spirituale, certamente il discorso a coronamento di un vissuto tutto speso a difendere le ragioni sociali del Fascismo, in pace e in guerra, e in assoluta fedeltà verso il Duce: ‘E’ facile farsi chiamare ribelli quando si crede di avere gli eserciti amici a pochi giorni di distanza, quando si ritiene la vittoria già scontata, quando si pensa di essere dalla parte del più forte, ormai invincibile, quando si è circondati dalle premure di tanti pavidi che intendono crearsi benemerenze verso ‘il cavallo vincente’… I veri ribelli siamo noi. Ribelli contro un mondo vecchio di egoisti, di privilegiati, di conservatori, di capitalisti oppressori, di falliti sistemi, di superate ideologie, di dottrine ingannatrici, dei falsi e dei bugiardi. Ribelli insomma contro il mondo dell’ingiustizia’. (Varrebbe la pena il riportarlo nella sua interezza). Appunto, ribelli. E questo spiega perché su Giuseppe Solaro ci si è raccolti intorno alla sequenza della sua morte, la doppia impiccagione, il corpo portato attraverso la città di Torino in ‘bella’ mostra per poi essere buttato da una spalletta del ponte giù nel Po. Perché la sua lotta i suoi scritti, il radicalismo delle posizioni dispiacevano a ‘destra’, a quel mondo che solo formalmente diceva di raccogliere l’eredità della Repubblica Sociale. E, a sinistra, il radicale annientamento dell’uomo, cercando di gettargli addosso ogni forma di accusa, di nefandezze, di menzogna. Del resto il primo atto del Comitato di Liberazione fu l’annullamento delle leggi sulla socializzazione…

Un libro non si racconta, anche se trattasi di un saggio, soprattutto se è un libro meritevole d’essere letto e questo lo è. Ad altro era il mio intento. Se vale quanto detto sovente che la nostra speranza si ripone sul territorio, là dove operano le singole realtà, senza pretesa di sedersi a tavolino per improbabili unificazioni politiche, fornendo momenti di cultura quale comune sentire e comuni intenti, questo libro ci fornisce più spunti stimoli inviti e – per quanto mi riguarda – identificazione. Oltre ci affidiamo a quei bastoni e a quelle barricate di contro alla legalità del perbenismo del privilegio del signoraggio…

Il libro di Fabrizio Vincenti riporta, all’inizio, una affermazione di Céline: ‘Quale mondo separa quindi le cose viste, le verità esterne, dalle cose pagate nella carne! Le verità che sappiamo sono decisamente niente, contano solo le verità pagate con il proprio sangue’, eco di quanto già Nietzsche aveva ammonito e che noi condividiamo con entrambi. Il resto è chiacchiere vane battaglie di retroguardia appannamento del senso più autentico del nostro ‘esserci’…

Mario Michele Merlino

Il Capitano del Sud: Aurelio Padovani (seconda parte)

$
0
0

padovani 2

  

“Padovani parlava in nome dell’intransigenza rivoluzionaria. Per lui esistevano soltanto il “sì” e il “no” alla rivoluzione. Il resto non contava. Il “sì” doveva ridurre al silenzio il “no”. Padovani non era Masaniello. Non chiamava a raccolta i diseredati per farli despoti. Voleva giustizia…” (1)

 

          IL FASCISTA PIU’ INDISCIPLINATO D’ITALIA

Il 16 ottobre Padovani si vede affidata l’organizzazione dell’adunata e del Congresso nazionale fissato per il 24. Procede con metodo e accuratezza, com’è nel suo stile: Comando tappa, con posto di ristoro e sanitario vengono organizzati in stazione per i fascisti in arrivo con i treni, mentre si provvede per gli alloggiamenti e il vettovagliamento delle decine di migliaia di previsti arrivi.

L’ordine tassativo è di evitare ogni tipo di incidenti e dare, nel contempo, una bella dimostrazione di forza al Paese tutto che sente di essere alla vigilia di avvenimenti importanti.

Il 24, alle 9,30 il teatro San Carlo è gremito in ogni ordine di posti, e migliaia di fascisti si accalcano fuori; la fanfara dà l’attenti, ed entra Mussolini, accompagnato da Padovani che, a nome del fascio napoletano, gli offre un quadro allegorico sul quale è scritto: “Raccogliete lo spirito dei nostri indimenticabili morti e fatene lo spirito ardente della Patria immortale”.

Non starò qui a dire del discorso del futuro Duce, abile ed intelligente, ma chiaro, anche per chi finge di non capire:

“Noi fascisti non intendiamo andare al potere per la porta di servizio. Noi fascisti non intendiamo di rinunciare alla nostra formidabile primogenitura ideale per un piatto miserevole di lenticchie ministeriali! Perché noi abbiamo la visione, che si può chiamare storica, del problema, di fronte all’altra visione, che si può chiamare politica e parlamentare”.

Sono le parole che Padovani vuol sentire, anche se deve accettare il formale ossequio alla monarchia, e tollerare gli applausi che, in platea, Benedetto Croce tributa al discorso. (2)

Verso il filosofo nutre una ostinata antipatia, che è quella della gente dei “bassi” verso gli intellettuali borghesi che di loro parlano (e sparlano) senza conoscere la realtà della dura vita nei quartieri:

“Padovani… vedeva nel clan Croce uno tra i fattori di quell’aumento a dismisura della servitù imposta dai benpensanti a una moltitudine praticamente ridotta a pura vita vegetativa” (3)

Alle 12, nel campo Sportivo Militare dell’Arenaccia le squadre sono pronte a partire per il corteo, imponente come previsto, con rappresentanze di tutta Italia, che attraversa la città per oltre 3 ore, fino ad arrivare alle 16,30 in Piazza San Ferdinando, per sfilare davanti a Mussolini e concludere, così la storica giornata.

Tocca, infine, ancora a Padovani diramare, il 25, l’ultimo Ordine del Giorno, relativo all’organizzazione dei lavori del Consiglio nazionale e alle disposizioni per la partenza degli uomini. (4)

La successiva nomina a Comandante di Zona in occasione della Marcia ufficializza il suo ruolo dominante: fissa il concentramento a Caserta, requisisce un treno, si impadronisce di armi e quant’altro necessario, impedisce, comunque, come da disposizioni ricevute, incidenti gravi con le forze dell’ordine. (5)

E’ il punto più alto e nello stesso tempo l’inizio del declino della sua vita politica; i motivi sono almeno tre:

-          la guerra subdola e costante che gli fanno, su un piano a lui non congeniale, quello dell’intrigo e della congiura di palazzo, i nazionalisti dell’on. Paolo Greco. Nel confronto, all’epoca della vigilia, Padovani è riuscito vincitore, per il suo personale fascino, per il successo che le sue idee raccolgono nella base fascista, ma, con la conquista del potere, lo scontro invece di affievolirsi, si inasprisce.

In più di un’occasione deve provvedere personalmente allo scioglimento di sezioni fasciste paesane inquinate da elementi nazionalisti che amavano flirtare con il vecchio notabilato giolittiano e nittiano:

Inchieste feroci da lui compiute contro fascisti della prima ora, scioglimenti di fasci decretati con la rivoltella in pugno, avevano avvertito la gente che il capo della Campania voleva evitare la cuccagna” (6)

In campo nazionale, a Roma, però, le cose sono meno facili, e qui Greco è più bravo di lui a tessere amicizie e trovare appoggi, favorito anche dalla indubbia patina rassicurante che la presenza dei più moderati nazionalisti dà alla scalmanata rappresentanza fascista;

-          la sua personale rigidità di carattere, che colpisce un pur esperto conoscitore di uomini come Mussolini:

“Padovani parlava in nome dell’intransigenza rivoluzionaria. Per lui esistevano soltanto il “sì” e il “no” alla rivoluzione. Il resto non contava. Il “sì” doveva ridurre al silenzio il “no”. Padovani non era Masaniello. Non chiamava a raccolta i diseredati per farli despoti. Voleva giustizia…”;

-          l’iscrizione alla Massoneria, che, nonostante egli si dimetta appena emanata la legge sulla incompatibilità, a differenza di altri più scaltri capi fascisti, fornisce facile occasione di critica e di attacco agli avversari. (7)

Sono, comunque, l’ostilità verso i nazionalisti (che egli si ostina ad ammettere ai fasci non “in massa”, ma solo “uno per uno”, dopo un esame di tutto il loro precedente curriculum politico) e l’intransigenza nella difesa dei contenuti sindacalisti e proletari del suo fascismo a provocare la disfatta del capo del fascismo napoletano.

Mussolini, che gli vuole sinceramente bene, per la sua fedeltà e spontaneità, fa un estremo tentativo per far capire a lui e dimostrare a tutti che sta dalla sua parte; il 1° maggio, mentre ferve il contrasto con i nazionalisti in città, gli indirizza un telegramma nel quale si dichiara “pienamente solidale nell’opera di epurazione politico morale”.

Nella valutazione tutta politica del duce, un simile gesto dovrebbe servire a “placare” l’azione antinazionalista di Padovani e, nello stesso tempo, a distogliere da ulteriori attacchi i suoi avversari. Così, però, non è, e, anzi, la situazione precipita: tra il 17 e il 18 maggio, in tre distinti colloqui romani, gli propone il trasferimento a Bologna come Comandante della Zona militare fascista e, nel contempo, si impegna ad ammettere il suo maggiore avversario, il deputato nazionalista Greco al solo Gruppo parlamentare fascista, negandogli l’iscrizione al Partito.

Padovani fiuta quella che considera una trappola, e si dimette da tutte le cariche del Partito; torna a Napoli, accolto da manifestazioni di giubilo dei suoi seguaci, e rilascia dichiarazioni nelle quali manifesta il proposito di “riacquistare il diritto di parlare a fronte alta per la salvezza del Partito e per affrontare quanti poco degnamente circondano il duce magnifico.

Non serve e non basta: il 23 si riunisce la Giunta Esecutiva del PNF, che respinge le sue dimissioni e lo espelle per grave ostinata indisciplina.

È, quello dell’indisciplina, il rischio più forte che corre l’ancora fragile Governo fascista, e vi farà riferimento lo stesso Mussolini, con un telegramma al Direttorio nazionale provvisorio del PNF che, il 22 ottobre del 23, all’approssimarsi dell’anniversario della Marcia, sta valutando una serie di posizioni di “dissidenti”, ai fini di favorirne la riammissione al Partito:

“Cari amici del Direttorio, mi pare che sia proprio l’ora di finirla col prosternarsi continuamente ed inutilmente davanti alla deità irata intrattabile del sig Capitano Padovani. Io stesso, che pure sono un temperamento un po’ difficile, ho fatto con lui e per lui quello che non avrei fatto con mio padre o con mio figlio. Ora mi pare che basti. Quindi deve essere mantenuta la sua espulsione dal Partito, comunicando questa lettera ufficialmente al Comandante Generale della Milizia sarà chiarito che dovrà essere anche espulso dalla medesima.

Egli è il fascista certamente più indisciplinato d’Italia, egli è in contatto con elementi equivoci, come quelli del “Giornale d’Italia”, egli è responsabile di un ammutinamento di tutti i Consoli e di tutte le Legioni della Campania, che ci ha coperto di ridicolo e per il quale motivo meritava di essere consegnato al Tribunale Militare.

Io non lo ricevo più: ma voi avete fatto anche ieri il possibile per trovare una via di transazione, con una longanimità eccezionale. Io dico basta! Perché anche i partiti e gli uomini devono avere la propria dignità. E fino a prova contraria, il sig Capitano Padovani non è indispensabile al fascismo e tanto meno alla Nazione italiana.

Con i migliori saluti fascisti” (8)

 

 

          “IN UNO STABILE IN VIA GENERALE ORSINI… E’ IMPROVVISAMENTE CROLLATO UN BALCONE”

Questa volta è veramente la fine: Padovani lo capisce e, gradualmente riduce i rapporti con gli altri dissidenti fascisti che, in tutta Italia, convogliano la delusione squadrista per gli accomodamenti post 28 ottobre.

Nel Capitano c’è, però – e su questo sono d’accordo con Dorso – qualcosa in più del semplice “dissidentismo”: la fame e la rabbia del popolo del Sud, stanco di aspettare e che nel fascismo ha riposto la speranza di riscatto.

È per questo che, mentre lui si trova un lavoro come rappresentante della Guzzi, i suoi uomini continuano a cercarlo e a manifestargli fedeltà: il 28 ottobre del 1923 scoppiano incidenti in città, tra i “padovaniani” e i “governativi”: “in via Chaia, a Toledo e al Chiatamone i manganelli non sapevano proprio quale direzione prendere; dall’una parte e dall’altra si cantava Giovinezza”.

Di qui a qualche mese, in pieno periodo quartarellista, mentre molti si allontanano prudentemente dal fascismo che sembra vacillare, si verifica un episodio del quale Mussolini racconterà a De Begnac:

“…la fedeltà di Padovani non venne mai meno. Il 15 giugno del 1924 egli si presentò a Palazzo Chigi in divisa, medaglie sulla vecchia camicia nera. Disse al guardaportone che era amico devoto del Presidente e che non aveva bisogno di inviti per andare ad offrirgli la vita nel momento del pericolo. Non fece anticamera. L’anticamera era vuota. Aprì la porta innanzi al balcone dello studio. Il suo Presidente levò gli occhi dalle carte che stava esaminando. Il Capitano attese il suo abbraccio. Disse che i compagni campani erano in piazza. Ad un cenno avrebbero levato a rivolta contro i notabili in camicia azzurra il popolo stanco di camorra, impunità, silenzio imposto, rivoluzione paralizzata, costituente annientata”. (9)

Mussolini la mette sul personale, ed ha ragione: Padovani è già stato, nel ’22, uno dei pochi capi squadristi a sostenere le sue ragioni, al momento del “patto di pacificazione”, ma c’è un valore in più, che sarà comune a tanti dirigenti e umili militanti del fascismo, delusi, emarginati, maltrattati anche, ma fermi nella loro fede, per la quale, all’epilogo saloino, molti pagheranno con la vita.

Non è solo fedeltà all’uomo (che pure c’è, e conta molto), è adesione totale e ferma “religiosa” quasi, come è stato detto, all’idea fascista, storicamente l’ultima – e questo non va dimenticato – capace di chiedere tanto, fino al sacrificio estremo, ai suoi aderenti.

Mussolini è il punto di riferimento insostituibile; molti dei giovani capi squadristi che lo conoscono hanno, nei suoi confronti – non di rado ricambiati – un affetto quasi filiale, anche se per la maggioranza vale quello che scrive “Polemica fascista” nel maggio del 1923:

“Abbiamo avuto ed abbiamo grande ammirazione… per Mussolini, ma… non siamo mussoliniani, non vogliamo essere e non dobbiamo essere mussoliniani, se abbiamo un cervello funzionante che faccia rientrare Mussolini nella storia…

E discutiamo Mussolini fascista. Ci sono i fascisti, ci siamo noi fascisti che vediamo in Mussolini l’interprete del fascismo e una garanzia per l’attuazione fascista, perciò non vediamo Mussolini che nel fascismo. E discutiamo Mussolini fascista. E ci inchiniamo a Mussolini fascista. Ma la nostra spina dorsale è dritta” (10)

A Napoli Padovani sta disciplinatamente nei ranghi; interviene, quando e come può, in difesa dei suoi uomini – pochi, in verità, quelli che si sbandano e si “allineano” – spesso oggetto di attacchi ingiustificati (11), conserva rapporti stretti con le classi operaie (i portuali, in modo speciale) a favore delle quali si è battuto.

Viene ripagato di eguale moneta: le manifestazioni di affetto e simpatia non mancano. Il 17 giugno del 1926, giorno del suo onomastico, una folla festante si reca al suo ufficio per fargli gli auguri; i più fortunati riescono a salire, mentre gli altri si accalcano sotto e lo chiamano al balcone.

E lui, infatti, si affaccia, insieme a molti dei presenti. E’ una decisione errata e fatale: il balcone cede e cadono tutti di sotto. Ci sono 4 morti, tra i quali lo stesso Padovani, e molti feriti.

Alcuni sconsiderati, tra i suoi stessi seguaci, mettono subito in giro la voce che si sia trattato di un attentato; tale ipotesi sarà poi ripresa, negli anni a venire, da alcuni storici con il precipuo scopo di confermare la intrinseca malvagità del regime fascista e di Mussolini – mandante dell’omicidio – in prima persona.

Essa è da ritenere, comunque, del tutto infondata; anche a prescindere dagli esiti giudiziari, che condanneranno l’impresa costruttrice, non si può non notare che si sarebbe trattato di un caso unico, senza precedenti e susseguenti di “regolamento di conti” interno al PNF, realizzato peraltro in un contesto assolutamente incerto (chi poteva sapere dell’imponenza della manifestazione di augurio al Capitano, chi poteva prevedere che egli, per questo, si sarebbe affacciato al balcone, chi poteva pensare che, con lui, si sarebbe affacciati in tanti, smaniosi di “farsi vedere”?).

Comunque, il giorno dei funerali ci sono incidenti in città, e questo offre l’occasione a Starace, nominato Commissario della federazione il giorno dopo l’incidente di via Orsini, di procedere ad un generale repulisti dei “padovaniani”, in città e provincia (12).

Di Padovani non si parlerà più, ma il ricordo del Capitano non abbandonerà mai la Napoli fascista, e non solo…

          LA PRIMAVERA DEL FASCISMO

Questi i fatti; per una valutazione di carattere generale – a patto di non dimenticare la specificità della dissidenza del Capitano – si può anche concordare con Salvatore Lupo quando sostiene che:

“Bisogna considerare che dal PNF si esce, ma anche si rientra. Il romano Calza Bini viene espulso nel 1923 e riammesso nel 1924, riespulso nel 1927 e ancora riammesso nel 1930. Il piacentino conte Barbiellini Amidei, fascista tra i più indisciplinati, segretario federale prima e podestà poi, viene espulso nel 1924 e riammesso nel 1925, riespluso nel 1930 e riammesso nel 1931. Pensiamo a personaggi più ingombranti come Padovani, che, se non fosse morto, sarebbe probabilmente rientrato nel 1926 o a Forni, quasi riammesso nel 1926, e poi di nuovo allontanato, reintegrato nel 1933 e poi ancora buttato fuori” (13)

Non sarà completamente vero che – come malevolmente disse Francesco Giunta – “lui e i suoi si figuravano un Partito politico come un ordine di frati trappisti, intento a combattere contro le bande degli impuri, degli affaristi, dei trafficanti”, ma è sicuramente aderente alla realtà che egli fu portatore e vessillifero di una fascismo permeato di grande moralità, in una terra che di questo aveva bisogno, prima ancora che di progetti politici.

Mussolini, a proposito di Padovani e di qualcun altro, parlerà di “primavera del fascismo” e di “gente del tempo delle favole e degli eroi”, eppure con i piedi ben saldi in terra, perché, come gli aveva detto Lorenzo Giusso:

“Il potere quale lo pensavano i padovaniani, mio Presidente, era il potere al quale ricondurre il vero popolino napoletano, povero in canna non perché rifiutante il lavoro, ma perché depauperato di ogni possibilità di regolarne la vicenda economica” (14).

Padovani è, l’ho accennato, uomo di pochi studi; per quanto abbia cercato, non sono riuscito a trovare articoli di giornale da lui firmati. Eppure, egli sa parlare, col suo “scarno vocabolario”, al cuore del popolo della sua città, e considera la poesia come “traguardo di civiltà”.

E, se è vero che c’è in lui “l’ansia del fare per cambiare”, va aggiunto che gli è ben chiara la funzione strumentale della violenza, alla quale pure non si fa scrupolo di ricorrere:

“La violenza non era, per lui, madre della forza e nonna del diritto. Serviva ad abbattere altra ed opposta violenza. Poi, dalla terra da cui il peccato era stato estromesso, tutto sarebbe nato senza recare offesa all’uomo” (15)

Credo che possa bastare. A questo punto, come sempre capita quando faccio questi schizzi dedicati a personaggi minori (e, in genere, poco fortunati) del primo fascismo, mi viene da pensare a quello che “poteva essere e non è stato” se cause di forza maggiore, ragion di Stato e qualche umana debolezza non avessero prevalso, a partire dal 1925.

E non posso non pensare al caro Maccari, squadrista intransigente, strapaesano e deluso anch’egli: “Il fascismo non è bello in sé, ma per quello che promette di essere”.

Alle volte, a noi che sognatori ostinatamente restiamo, una promessa può bastare…

(fine)

 

Giacinto Reale

  

NOTE

(1)           questo il giudizio di Mussolini, in: Yvon De Begnac, op cit pag 186

(2)           battè calorosamente le mani, è stato testimoniato, Benedetto Croce” (Vittorio Paliotti, “Napoli sconosciuta”, Napoli 2001, pagg 120)

(3)           Yvon De Begnac, op cit pag 141

(4)           Sulle giornate di Napoli, vedasi la ricostruzione di Giorgio Alberto Chiurco, op cit, vol IV pagg 449-484

(5)           vedasi Giorgio Alberto Chiurco, op cit, vol V pagg 45-48; un particolare curioso: per portaordini si sceglie il bersagliere Ferdinando Tollis, mutilato e quattro volte decorato, che suonò l’assalto a Cima Quattro del San Michele

(6)           Guido Dorso, “La rivoluzione meridionale”, Torino 1955 pag 141

(7)           senza addentrarmi in questo problema dell’iscrizione alla massoneria di gran parte della dirigenza fascista della prima ora, mi pare sufficiente ricordare, con De Felice, che essa, oltre ad aver avuto un ruolo attivo nella vicenda risorgimentale, era stata interventista e pro fiumana, interpretando sentimenti patriottici e anticlericali diffusi tra ex sindacalisti e interventisti di sinistra

(8)           in: Renzo De Felice, “Mussolini il fascista, la conquista del potere 1921-25”, Torino 1966, vol 1° pag 459

(9)           Yvon De Begnac, op cit pag 185

(10)       in: Renzo De Felice, op cit, pag 429

(11)       vedasi: Pasquale Villani, “Gerarchi e fascismo a Napoli 1921-43”, Bologna 2014

(12)       il più noto dei seguaci di Padovani è certamente Raffaele Di Lauro, capo delle squadre nel Casertano, mazziniano e garibaldino; autore, tra l’altro, di un “Robespierre nella rivoluzione” che, già dal titolo la dice lunga sulle simpatie dell’A

(13)       Salvatore Lupo, “Il fascismo”, Roma 2005 pag 329

(14)       Yvon De Begnac, op cit pag 585

(15)       Yvon De Begnac, op cit pag 145

 

Tradizioni: alle origini del grande Fiume

$
0
0

Compagnia della morte

Un tempo arditi esploratori organizzavano spedizioni in terre lontane, talvolta sconosciute, per cercare le origini di un grande fiume.

Con gran fatica e con limitati mezzi a disposizione, non certo paragonabili a quanto oggigiorno possiamo, come si suol dire, “mettere in campo”, risalivano tra innumerevoli difficoltà e vicissitudini la via d’acqua scelta, annotando da veri geografi ed esploratori quanto sul loro cammino incontravano.

Questo sottendeva anche e soprattutto l’uso e il buon costume di un tempo d’andare a cercare e trovare le origini di molte cose che, ad esempio, componevano le tradizioni, la storia di un popolo, di una nazione, via via fino ai minimi dettagli di una vita quotidiana giungendo a ricercare il perché di avvenimenti storici e politici, nonché bellici.

In questo simpatico momento di “revival Grande Guerra” torna di moda (passatemi l’espressione) il tema dell’Arditismo e degli Arditi. Mi sono così recato nella oramai desueta biblioteca pubblica a consumare un po’ del mio tempo libero per documentarmi su tali argomenti.

Purtroppo mi è scattato, birbantello, un ricorrente quesito, quando sento o leggo delle guerre avvenute nei secoli XIX e XX: di eroismo ve n’è indubbiamente stato, ma per quale vero motivo (e rimarco la parola vero) tali eroismi si sono resi necessari?

Ma non perdiamoci in domande che possono togliere il sonno e, quindi, nuocere alla salute... pubblica.Compagnia della morte

Ho leggiucchiato qui e là il libro del massone Cristoforo Baseggio, “mostro sacro” dell’Arditismo italiano: 1915-1916 La compagnia della morte.

Occorrerà poi capire in modo definitivo, se possibile, se l’allora capitano Baseggio sia stato o meno l’inventore degli Arditi.

In ogni caso sfoglio le prime pagine e mi appare il vero titolo del libro: La compagnia arditi “Baseggio”, stampato a Venezia nel 1929. E vi leggo pagine vibranti di amor patrio e di atti eroici.

Ma andiamo all’origine: «Così nacque in Val Sugana la Compagnia Esploratori Volontari Arditi Baseggio e così fu per la prima volta ufficialmente costituito un Reparto Autonomo di Arditi di Guerra, il quale contribuì colle sue azioni a risvegliare le sopite energie delle truppe e diede in seguito al Comando Supremo la spinta a costituire nel 1917 i primi Battaglioni d’Assalto e più tardi ancora i maggiori Reparti Arditi e a diffondere così in tutto l’esercito quell’arditismo di guerra che fu fra i più importanti fattori della nostra finale vittoria, come fu nel dopo guerra l’avanguardia di quel movimento di riscossa che affermatosi in Italia nel 1919 colla sconfitta del bolscevismo, doveva poi, estendendosi e ridestando nell’Italia intera lo spirito nazionale, portare il Fascismo, figlio e prodotto dell’Arditismo, alla marcia su Roma e all’apertura della nuova Era dell’Italia. La Compagnia Volontari Arditi Baseggio, costituita ai primi di ottobre del 1915 per ordine del Comando della Ia Armata in Strigno di Val Sugana, forte di 13 Ufficiali, 450 graduati e soldati, dotata di due sezioni di mitragliatrici, e di una colonna di salmerie e di 120 muli, fu aggregata per ragioni di vettovagliamento al Comando della 15a Divisione, [etc. etc.]» (Baseggio Cristoforo, La compagnia arditi “Baseggio”, seconda edizione riveduta, Venezia 1929, pp. 67-68).

Nel testo abbiamo quindi incontrato la parola bolscevismo. Che sarà mai? Dizionario alla mano vediamo per sommi capi che il «bolscevismo», sinonimo di comunismo nell’uso corrente, è stata la dottrina bolscevica russa ed il suo conseguente movimento politico, professati dalla sinistra del partito socialdemocratico russo schieratosi con Lenin, dove tale partito (ricordiamolo sempre per sommi capi) si costituì all’interno del “Bund” ebraico.

Per quanto concerne il comunismo si può ricordare Karl Heinrich Marx, il quale nasce a Treviri nel 1818 in una agiata famiglia borghese, il cui padre ebreo si converte al protestantesimo. Laureatosi in filosofia, si dedica al giornalismo politico e a Parigi pubblica in collaborazione con Friedrich Engels, anch’egli ebreo, il primo e unico numero della rivista Deutsche Französische Jahrbücher. Questa contiene due articoli: La questione ebraica e La critica della filosofia hegeliana. Successivamente Marx ed Engels aderiscono alla Lega dei Comunisti e nel 1848 scrivono il Manifesto del Partito Comunista.

Personaggi di spicco del bolscevismo sono stati Lew Davidovic Bronstein, alias Leon Trotzkij, ebreo, uno dei fautori della rivoluzione comunista russa dei primi del Novecento, poi cacciato e successivamente fatto probabilmente uccidere da Stalin, nonché Vladimir Il’ic Uljanov, alias Nikolaj Lenin, ebreo, uno dei fautori della rivoluzione comunista russa dei primi del Novecento e della trasformazione dell’impero russo in Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS).

A seguire si possono ricordare Iosif Vissarionovic Dzugasvili, alias Stalin, ebreo, rivoluzionario e principale dittatore russo del XX secolo, capo del Soviet Supremo comunista, e Lavrentij Pavlovic, alias Beria, ebreo, esponente di spicco del Partito Comunista, capo della NKDV (polizia russa), membro del Politburo e Maresciallo dell’Unione Sovietica.

Ma non si possono nemmeno scordare Abel Cohen, alias Béla Kun, ebreo, rivoluzionario e promotore del Movimento Comunista Ungherese nel 1919, Rozalia Luksemburg, alias Rosa Luxemburg, ebrea, rivoluzionaria prima polacca e poi tedesca, codirettrice del movimento spartachista e cofondatrice del Partito Comunista della Germania nel 1918, ma pure Josip Broz, alias Tito, ebreo, segretario del Partito Comunista Jugoslavo nel 1937, successivamente presidente a vita della Jugoslavia.

???????????????????????????????L’elencazione potrebbe continuare per intere pagine, ma fermiamoci qui e torniamo al libro del massone Baseggio, senza scordare che i personaggi poc’anzi elencati erano in parte o tutti massoni o comunque legati alla massoneria.

Sono rimasto curiosamente incuriosito dal disegno che campeggia in prima di copertina. Erro, oppur ci colgo, nel ravvisarvi la curiosissima rassomiglianza con il cosiddetto «sigillo di Salomone»? Detta anche «stella di David», sui cui significati esoterici veri o presunti nemmeno mi c’imbarco, alla fine del XIX secolo diventa il simbolo del sionismo.

«Curioso!», mi son detto.

Ho scartabellato altri libri fin quando sono capitato sulla foto di un distintivo da Esploratore del Regio Esercito Italiano nella Grande Guerra. Bene, è un’altra stella a sei punte ebraica, solo che stavolta è ruotata di pochi gradi, a Destra o a Sinistra non fa differenza alcuna.

«Curioso!», mi son detto.

Ho poi chiuso le mie ricerchine con la consultazione di un ultimo libro «pubblicato con il contributo del Dipartimento di Storia delle Società e delle Istituzioni nell’Europa contemporanea dell’Università degli Studi di Milano», dal titolo Alceste De Ambris. L’utopia concreta di un rivoluzionario sindacalista.

Eccone una piccola parte, relativa all’inizio del capitolo quarto il quale principia con una citazione:

«Il “legionario” è un religioso. Il “legionario” è un conquiso. Il “legionario” è un apostolo, pronto, come Paolo di Tarso, a ringuainare la spada, dietro un gesto del Maestro. Il “legionario” ha le sue tavole evangeliche, e quando pecca, lo fa per troppo amore. Se è audace per il credente parlare, senza tremore di voce, del proprio Dio, è conforto per lui parlare, senza tremore di voce, del proprio Dio, è conforto per lui pensare o immaginare di aver assaporato il succo vero e genuino della religione predicata e scritta” (Umberto Foscanelli, D’Annunzio e il fascismo, Milano (1924), p. 10).

Capo di gabinetto

L’entusiasmo che circondava l’impresa di Fiume si stava affievolendo per il fallimento delle varie iniziative diplomatiche e cospirative ispirate dal gabinetto di Giovanni Giuriati e dai comitati pro-Fiume d’ispirazione nazionalista, militarista e della massoneria costituzionale (nota 1: Sulle trattative con l’esercito italiano nei mesi precedenti l’arrivo dei legionari, soprattutto, L.E. Longo L’esercito italiano e la questione fiumana (1018-1921), Tomo I – Testo, Tomo II – Allegati, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma 1996; P. Badoglio, Rivelazioni su Fiume, Donatello De Luigi, Roma 1946).

Questi gruppi avevano costituito l’ossatura dell’organizzazione fiumana nelle prime settimane. La Loggia Oberdan di Trieste, in particolare, guidata dal venerabile Giacomo Treves e successivamente dal mutilato di guerra mazziniano Piero Pieri (nota 2: Affiliato alla R. L. Oberdan il 16 marzo 1920), sin dal 6 settembre aveva preso l’iniziativa per formare un Comitato segreto pro-Fiume, aperto anche ai profani – Mario D’Osimo, Ercole Miani, già nella giunta esecutiva Uil e fondatore con il massone Pietro Jacchia del Fascio triestino (nota 3: Sulla genesi, lo sviluppo e i peculiari caratteri del fascismo triestino rimandiamo a A. Vinci, Il fascismo al confine orientale, pp. 398 e ss., in Storia d’Italia. Le Regioni dall’unità a oggi. Il Friuli-Venezia Giulia, Einaudi, Torino, 2002, pp. 377-513), e altri – per coordinare le varie iniziative che da mesi ruotavano intorno alla costruzione di un corpo di volontari per Fiume e la Dalmazia (nota 4: Memoria di Giacomo Treves per Domizio Torrigiani, in Grande Oriente d’Italia (Goi), Fondo Treves, Sul ruolo della Massoneria nell’occupazione fiumana. F. Conti, Storia della massoneria italiana, cit., pp. 266 ss.).

I comitati segreti, che nel frattempo si erano sviluppati a Venezia e Milano, avevano assolto la funzione di convogliare a Fiume, oltre ad aiuti e denaro, molti altri futuri protagonisti come Mario Sani, il generale Sante Ceccherini, Luigi Rizzo, oltre ad altre figure di minore prestigio ma di uguale se non maggiore, determinazione. Soprattutto, com’è noto, aveva preso corpo, l’idea di una spedizione in Italia, a partire da uno sbarco su Trieste, per generare un movimento propizio alle rivendicazioni territoriali italiane e, insieme, per contrastare le masse bolscevizzate (nota 5: F. Guerra, L’impresa di Fiume. Volume Primo. Fiume d’Italia, Longanesi Pocket, Milano 1974, pp. 113-116; P. Pieri, Del disegno dannunziano di marciare su Roma, in “Il Popolo d’Italia”, 19 giugno 1938).

De Ambris era membro del direttorio segreto di Milano, assieme al maggiore Cristoforo Baseggio e al capitano mutilato Carrer, entrambi sansepolcristi (nota 6: Baseggio fece pure parte del primo comitato centrale dei Fasci di combattimento. G. Svanoni, Mussolini e gli Arditi, Milano 1938, p. 127. Per le posizioni critiche di Baseggio nei confronti di Mussolini e della deriva del movimento, sin dall’inverno 1920, F. Cordova, Arditi e legionari dannunziani..., cit. p. 562), una cellula cospirativa che si proponeva quale collegamento dei vari centri del mondo combattentistico e di quello massonico nella capitale lombarda (nota 7: Sulla partecipazione di De Ambris all’attività cospirativa, vedere la lettera intercettata da Carlo Baseggio a Umberto Pasella, il 17 novembre 1919 e il telegramma del questore di Milano, 23 novembre 1919 in Acs, Mininter. Ps. Agitazione Pro Fiume e Dalmazia. b. 1: R. De Felice, Mussolini il Rivoluzionario..., cit., p. 562).

Il Grande Oriente aveva, com’è noto, messo a disposizione il suo prestigio e il suo potere per accreditare operazioni di prestito e di approvvigionamento a Fiume, pur attenta a non compromettersi troppo sul piano politico e istituzionale, nella prospettiva di un rinnovamento morbido dell’esercito (nota 8: Anche per non spegnere le genuine aspirazioni della gioventù irredentista, Torrigiani aveva composto una tavola pro D’Annunzio che rendeva omaggio al “simbolo glorioso di quell’alta idealità, al genio audace che ci salvò Fiume”, Memorie di Giacomo Treves per Domizio Torrigiani, in Goi, Fondo Treves).

Quando si era prospettata concretamente la marcia all’interno del Regno, letta come possibile colpo di Stato militare, l’atteggiamento dell’Obbedienza di Palazzo Giustiniani si era fatto ancora più prudente: il Gran Maestro Domizio Torrigiani aveva invitato gli affiliati ad assumere, di fronte gli eventuali sviluppi insurrezionali, un atteggiamento riassunto in una singola significativa frase: “evitare la grande avventura della rivoluzione italiana pur valorizzando al massimo l’impresa fiumana” (nota 9: Intervento del G. M. Domizio Torrigiani, in verbale dei lavori alla R. L. Oberdan di Trieste del 27 ottobre 1919, in Goi, Fondo Treves)» (Serventi Longhi Enrico, Alceste De Ambris. L’utopia concreta di un rivoluzionario sindacalista, Storia della Società dell’Economia e delle Istituzioni, Franco Angeli, Milano 2011, pp. 129-130).

Che pensare, dunque, dell’origine di talune... “tradizioni”?

Gianluca Padovan


Alpini Italiani: dimenticare mai!

$
0
0

Italiani in Russia

Qualche anno fa ho pubblicato su Rinascita, quando ancora usciva anche in forma cartacea, l’articolo che ripropongo per EreticaMente, con un doveroso “cappello” introduttivo.

Il titolo di tale articolo era Alpini italiani condannati a morte. Ora, chi mandò i Soldati Italiani in Russia con equipaggiamento inadeguato, chi non fece giungere loro i materiali per sostenere l’inverno, chi ordinò che i rimpatriati non parlassero e non si facessero nemmeno vedere dal Popolo Italiano, va rintracciato in queste pieghe della Storia che ci fa fatica sollevare.

Bisogna rintracciare i nomi di quei vili traditori e scriverli a chiare lettere, in coda a tutti i nomi di coloro i quali diedero veramente la propria vita per la Patria.

Ma quella Patria era ammalorata da ignobili personaggi servi solo dei loro interessi e di coloro i quali trascinarono l’Europa e il Mondo in una guerra totale. Quella e questa Patria è ancora governata da incapaci, da incompetenti, da burattini nelle mani di chi vuole fermamente il controllo totale a discapito di ogni Popolo.

A conti fatti, rintracciati tutti quei nomi, ognuno potrà poi compiere le proprie ricerche personali e vedere con occhi propri chi di questi personaggi era iscritto in una loggia massonica, sia di derivazione inglese o scozzese, o francese, o quant’altro, oppure, o anche, scoprire che taluni erano semplicemente pagati dal governo avversario.

La massoneria, si sa, si è espansa nel mondo come “stato trasversale” senza avere la dignità e la capacità di essere Stato. Lotte tra logge, tra obbedienze, tra singoli massoni sono sempre state all’ordine del giorno. Questo lo chiamo in un solo modo: caos.

E nel caos e per il caos non si governa per il bene del Popolo, che sempre paga le conseguenze di un malgoverno.

Poi sul fatto che i nostri Cittadini-Soldati si siano battuti per una causa giusta o sbagliata se ne potrà discutere. Ciò che intendo ricordare è che un re ed un governo non hanno voluto o saputo avere cura dei propri Cittadini-Soldati. Ma quello che intendo rimarcare in queste righe è che a guerra finita coloro i quali governavano l’Italia non si sono occupati di quanti ancora rimanevano prigionieri nei campi di concentramento. Anzi, per costoro era meglio se i Cittadini-Soldati non tornavano nemmeno da morti!

Alpini italiani condannati a morte

A conti fatti svariati individui, il cui documento d’identità dichiara come “italiani”, hanno servito o tutt’oggi servono governi stranieri. Un eccezionale esempio ce lo ha donato Palmiro Togliatti. Amico e compagno dell’ebreo Antonio Gramsci, poi Segretario dell’Internazionale comunista nel 1937, Togliatti prende dimora in Russia per tornare in Italia nel 1944 come ministro nel governo Badoglio. Diviene poi ministro di Grazia e Giustizia tra il 1945 e il 1946, assumendo la dirigenza del Partito Comunista Italiano; nel 1964, data della sua morte, anche in ricordo del fidato servizio reso all’ebreo Iosif Vissarionovic Dzugasvili alias Stalin, il governo russo fa cambiare nome alla città di Stavropol in «Togliatti» (Toljatti). Come curiosità si può rammentare che in tale città, noto centro petrolifero, è impiantato dalla FIAT uno stabilimento automobilistico; ma non è questo il punto.

Nel corso della Seconda guerra mondiale l’Italia inviò sul fronte russo il CSIR (Corpo di Spedizione Italiano in Russia), a cui fece seguito, su pressione di Mussolini, l’8a Armata Italiana in Russia, meglio nota come ARMIR, costituita in buona parte da Alpini.

Quanti non tornarono? Le cifre sono tante, spesso discordanti. Riporto quella di Giulio Bedeschi: «Quando si parla dei 74.800 “non tornati”, si fa riferimento ai militari dell’ARMIR, schierati sul fronte al Don nell’inverno ’42-’43 fra 229.005 uomini che componevano l’Ottava Armata Italiana, impegnati quindi nelle disastrose battaglie di quell’inverno e nella ritirata che le concluse» (Ministero della Difesa – Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra e U.N.I.R.R. [Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia], Elenco Ufficiale dei prigionieri italiani deceduti nei lager russi, Supplemento de il Notiziario U.N.I.R.R., 4° fascicolo, n. 45, Milano, p. 12).

Ho indicativamente calcolato che dalla Russia tornò un Italiano su due e delle sole Divisioni Alpine tornò in Italia un Alpino su dieci.

Desidero poi ricordare un’altra fonte, la quale afferma che «su circa 70.000 soldati italiani catturati dall’Esercito Rosso dopo la disfatta dell’ARMIR, 10.087 furono rimpatriati, ovvero solamente il 14%. Tale percentuale risulta spaventosamente bassa soprattutto se confrontata con le percentuali di prigionieri di guerra italiani rimpatriati dalle altre potenze belligeranti: il 99% dagli Stati Uniti e dalla Francia ed il 98% dalla Germania e dall’Inghilterra» (Vaglica L., I prigionieri di guerra italiani in URSS. Tra propaganda e rieducazione politica “L’Alba” 1943-1946, Prospettiva Editrice, Civitavecchia 2010, p. 5).

Anche su questo punto le cifre discordano, ma, ad ogni buon conto, ha importanza sapere che la percentuale dei morti nei campi di concentramento sovietici fu del 70% o del 90%? Non sto facendo accademia, sto parlando di persone scomparse e le cifre restano sempre e comunque enormi. Rimane inalterata la colpa dell’eccidio, è immutato l’orrore di migliaia di persone private della vita. Perché? Leggetevi, ad esempio, il libro di Enrico Reginato “12 anni di prigionia in URSS” (Garzanti, Milano 1955). Ma di libri sull’argomento ne sono usciti a decine, quasi tutti validi; lasciano invece perplessi quelli che propugnano la bontà degli agenti italiani comunisti nonché l’umana utilità del giornale “L’Alba” (di cui vi parlo più avanti). Oltre alla conclamata brutalità con cui il governo sovietico trattava i prigionieri, e senza scendere nei dettagli riguardo la brutalità di molti suoi soldati, qualcuno non desiderava che italiani non pentiti e non indottrinati al pensiero comunista tornassero in patria. Soprattutto non dovevano tornare coloro i quali si erano ribellati all’indottrinamento, che erano la maggior parte.

Ecco che cosa pubblica Riccardo Baldi nel sito da lui curato “4a Divisione Alpina Cuneense. Campagna di Russia”: «Nel 1992, qualche anno dopo l’apertura degli Archivi di Mosca, lo storico Franco Andreucci, scopre una lettera scritta da Palmiro Togliatti (alias “Ercoli”) il 15 febbraio 1943 a Vincenzo Bianco (allora funzionario del Komintern). Nella lettera, suddivisa in vari capitoli, Togliatti risponde alle varie questioni politiche sollevate dal Bianco. Al terzo capitolo (vedi pagine 7, 8 e 9) della lettera, dove Bianco evidentemente chiedeva a Togliatti di fare qualcosa per i tanti prigionieri italiani nei Gulag russi, la risposta di Togliatti è agghiacciante: “...L’altra questione sulla quale sono in disaccordo con te, è quella del trattamento dei prigionieri. Non sono per niente feroce, come tu sai. Sono umanitario quanto te, o quanto può esserlo una dama della Croce Rossa. La nostra posizione di principio rispetto agli eserciti che hanno invaso la Unione Sovietica, è stata definita da Stalin, e non vi è più niente da dire. Nella pratica, però, se un buon numero dei prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire, anzi e ti spiego il perché. Non c’è dubbio che il popolo italiano è stato avvelenato dalla ideologia imperialista e brigantista del fascismo. Non nella stessa misura che il popolo tedesco, ma in misura considerevole. Il veleno è penetrato tra i contadini, tra gli operai, non parliamo della piccola borghesia e degli intellettuali, è penetrato nel popolo, insomma. Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, è il più efficace degli antidoti. Quanto più largamente penetrerà nel popola la convinzione che aggressione contro altri paesi significa rovina e morte per il proprio, significa rovina e morte per ogni cittadino individualmente preso, tanto meglio sarà per l’avvenire d’Italia...”». (tratto dal sito Internet: www.cuneense.it).

La lettera suona come una condanna a morte. Nei campi di concentramento i sovietici si premurarono di operare la rieducazione politica dei prigionieri, anche attraverso la pubblicazione di giornali. Coadiuvati da comunisti italiani pubblicarono “L’Alba. Per un’Italia libera e indipendente. Giornale dei prigionieri di guerra italiani in Unione Sovietica”: «Il giornale riusciva a raggiungere tutti i campi disseminati nell’intera Unione Sovietica e dal 1945 anche quelli che ospitavano gli italiani, già prigionieri dei nazisti in Germania, “liberati” dai russi nella loro avanzata e trasferiti nelle retrovie ucraine e bielorusse in lager sovietici istituiti dopo la liberazione di quei territori. Il comitato di redazione di quel giornale vantava nomi illustri di antifascisti comunisti italiani quali lo stesso Togliatti, che si firmava con gli pseudonimi di Ercole Ercoli o Mario Correnti, Vincenzo Bianco, Giovanni Germanetto, Ruggero Grieco, Giulio Cerreti, Anselmo e Andrea Marabini, Romolo Rovera, Luigi Longo, Edoardo D’Onofrio. Dopo i primi quattro numeri sotto la direzione di Rita Montagnana, compagna di Palmiro Togliatti, il giornale fu poi diretto fino all’agosto del 1944 da Edoardo D’Onofrio, infine da Luigi Amaldesi e Paolo Robotti» (Vaglica L., op. cit., pp. 177-178).

Edoardo D’Onofrio, nato a Roma nel 1901, nel 1921 passò dal Partito Socialista al Partito Comunista d’Italia e l’anno successivo si recò a Mosca al IV Congresso dell’Internazionale. Nel 1943 venne incaricato dal Partito Comunista Sovietico di dirigere il lavoro politico tra i prigionieri italiani. Nel 1948 fu oggetto di una campagna di stampa che lo indicava come aguzzino dei soldati italiani prigionieri di guerra in Russia. Questo perché si rimase indignati dal fatto che il personaggio, deputato alla costituente nei seggi del PCI, stesse per essere eletto senatore della Repubblica Italiana. D’Onofrio denunciò gli autori degli scritti, ma perse la causa e dovette pagare le spese processuali. Nel 1954 fu oggetto di un’ulteriore campagna di stampa, ma ugualmente fu eletto Vicepresidente della Camera. Limitiamoci alla prima denuncia e leggiamo cosa si scrisse nel numero unico “Russia”, edito a cura dell’UNIRR (Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia):

«D’Onofrio durante la sua permanenza nei campi di concentramento di Oranki e di Skit:

1. assistito dal Fiammenghi e alla presenza di un Ufficiale dell’N.K.V.D. ha sottoposto ad estenuanti interrogatori i prigionieri italiani detenuti in quei campi;

2. non si trattava di semplici conversazioni politiche, come ipocritamente il D’Onofrio vorrebbe far credere, ma di veri e propri interrogatori di carattere politico che spesso duravano delle ore e durante i quali veniva messo a verbale quanto il prigioniero rispondeva;

3. immediatamente dopo la visita di D’Onofrio in quei campi, alcuni dei prigionieri italiani che in quei giorni erano stati sottoposti ad interrogatorio furono allontanati e rinchiusi in campi di punizione e ancora oggi alcuni sono trattenuti nei campi di concentramento di Kiev;

4. simili procedimenti avevano il duplice scopo di far crollare prima con lusinghe e poi con esplicite minacce (“non ritornerete a casa”; “lei non conosce la Siberia?” allusioni alla famiglia, carcere e simili) la resistenza fisica e morale di questi uomini ridotti dalla fame, dalle malattie, dai maltrattamenti a cadaveri viventi e guadagnare l’adesione degli altri prigionieri intimoriti dall’esempio della sorte toccata a questi.

Firmato: Domenico Dal Toso, Luigi Avalli, Ivo Emett, etc.» (tratto da “Russia”, pag. 7. Consultabile su internet ai siti: www.cuneense.it, www.bibliotecapersicetana.it, etc.).

Dopo tali dichiarazioni D’Onofrio denunciò per diffamazione gli Autori e il processo ebbe inizio nel maggio 1949, durando tre mesi con 33 udienze, i cui atti sono consultabili anche nel sito www.controstoria.it. Ecco uno stralcio del verbale relativo alla prima giornata del processo:

«Dal Toso: — Lasciammo Krinovaia in 400 ufficiali. Giungemmo ad Oranki in 290. Gli altri erano morti durante il trasferimento compiuto nell’interno di carri bestiame e senza alcun cibo. Nel nuovo campo scoppiò una violenta epidemia di tifo petecchiale. Ma non fu dato altro medicamento che del permanganato. Quando fui trasferito al campo convalescenziario di Skit, pesavo soltanto 39 chili.Durante la permanenza ad Oranki venne per la prima volta il Fiammenghi il quale tenne numerose conferenze ai prigionieri.

Presidente: — Cosa vi disse in particolare il Fiammenghi?

Dal Toso: — Voleva conoscere la nostra opinione politica.

(...)

A domanda del presidente, Dal Toso precisa che il signor D’Onofrio, comunista, si qualificò di professione “cospiratore”.

Presidente: — Come, come?...

Dal Toso: — Sì, sì, professione “cospiratore”. Così ci disse. Egli era accompagnato da un ufficiale della polizia russa. Prima ci parlò a lungo della patria lontana, delle nostre case, delle famiglie, provocando la comprensibile commozione dei presenti. Poi ritornò per farci firmare il famoso appello al popolo. Il cap. Magnani, che era a capo della nostra comunità, rispose a nome di tutti che i soldati e gli ufficiali italiani erano legati da un giuramento al Re e che quindi mai avrebbero potuto firmare un appello del genere. D’Onofrio andò su tutte le furie e la sua reazione fu immediata. Il capitano Magnani fu chiamato dal D’Onofrio ed ebbe con lui, presente un capitano russo, un colloquio durato due ore Al termine di esso il Magnani aveva il viso stravolto. Il giorno successivo veniva trasferito in altro campo e da allora non s’è saputo più nulla di lui se non che fu rinchiuso in un campo di punizione. D’Onofrio aveva detto: “Al capitano Magnani ci penso io”.

(...)

Subito dopo viene introdotto il secondo reduce querelato. È il tenente di fanteria della divisione Sforzesca, Luigi Avalli, fatto prigioniero nell’agosto 1942 in Russia. È tutto un racconto di sofferenze senza nome che si riassumono nel desiderio più volte espresso dai prigionieri di essere fucilati piuttosto di continuare a vivere in quegli infernali campi di concentramento. Krinovaja - Minciurinsk - Tamboff: nessuno ne parla eppure erano simili e forse anche peggiori di Meidanek - Buchenwald - Mathausen che tutto il mondo conosce! L’imputato narra le pressioni politiche cui i prigionieri erano sottoposti, con le continue conferenze, le domande, gli interrogatori del Fiammenghi e del D’Onofrio, che richiamavano all’ordine chiunque osasse esprimere opinioni sfavorevoli sul regime sovietico. Con questa deposizione s’è chiusa la prima udienza. L’atmosfera nell’aula è grave, pesante. Il racconto dei reduci ha lasciato in tutti una penosa impressione» (tratto da: www.bibliotecapersicetana.it).

Certamente Togliatti, D’Onofrio, Fiammenghi & C. meriterebbero ulteriori, numerosi e circostanziati articoli riguardanti la loro signorile attività. Voglio augurarmi che qualcuno lo faccia. Intanto si può utilmente leggere il libro di Alessandro Frigerio “Reduci alla sbarra” (Mursia 2006) o vedere il documentario “1949. Reduci alla sbarra – Il caso D’Onofrio” della regista Emanuela Rizzotto (Produzione Fast Rewind, 2009). A questo punto, per rendere più chiaro e inequivocabile il quadro, riporto quanto scritto nel 1958 dall’Ufficio del Legato Italiano presso la Commissione Speciale dell’O.N.U.:

«Dall’ultimo rapporto della Commissione Speciale dell’ONU per i prigionieri di guerra fatto al Segretario Generale delle Nazioni Unite al termine della VII Sessione di Ginevra si sono tratti alcuni dati, che possono dare la sensazione dei risultati conseguiti e quanto ancora rimane da conoscere sui prigionieri e dispersi dei tre Paesi maggiormente interessati. I dati si riferiscono al periodo 1950-1957 e cioè dalla istituzione della Commissione fino alla VII Sessione della stessa – secondo le segnalazioni fatte dai Governi:

- Militari e civili della Germania Occidentale rimpatriati dall’URSS, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Romania e altri paesi. N. 30.000 (circa).

- Militari e civili del Giappone, rimpatriati dalla URSS, Cina, Australia, Filippine e altri paesi. N. 34.000 (circa).

- Militari e civili dell’Italia, rimpatriati dalla URSS, Polonia, Albania, Jugoslavia ed altri paesi. N. 101.

- I mancati della Germania, Giappone, Italia:

Prigionieri detenuti in URSS della Germania: 68.

Prigionieri detenuti in URSS del Giappone: 1.300.

Prigionieri detenuti in URSS dell’Italia: /.

- Prigionieri dei quali è stata provata la cattività in URSS, non rimpatriati e dei quali si ignora la sorte: Germania 100.000 (circa); Giappone 8.000; Italia 1396.

- Dispersi in URSS: Germania 1.200.000 (circa); Giappone 370.000; Italia 63.654.

Dopo la segnalazione di tali dati e a conclusione del suo rapporto, la Commissione fa rilevare ancora una volta il rifiuto del Governo dell’URSS di cooperare con la Commissione, la quale provvide a precisare sempre nei rapporti dell’Assemblea Generale dell’ONU i termini della questione dei prigionieri di guerra fatti durante la seconda guerra mondiale e cioè che essa fosse risolta d’accordo in uno spirito di pura umanità ed in termini accettabili da tutti i Governi interessati. Rinnova infine l’appello a questi Governi ed alle varie Organizzazioni di continuare i loro sforzi perché il problema dei prigionieri di guerra non era stato ancora completamente risolto» (Ufficio del Legato Italiano presso la Commissione Speciale dell’O.N.U. per i prigionieri di guerra, Note e documenti riguardanti i militari italiani prigionieri e dispersi in Russia, Milano 1958, pp. 44-45).

La gente è libera di “benpensare” quello che desidera, ma il dato di fatto dell’eccidio premeditato rimane: «Purtroppo la mortalità continuò ad infierire sia per le epidemie, portate e diffuse dai nuovi arrivati, sia per il persistere di trattamenti al di sotto della soglia di sopravvivenza» (Ministero della Difesa – Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra, CSIR – ARMIR. Campi di prigionia e fosse comuni, Stabilimento Grafico Militare, Gaeta 1966, p. 1).

E i nostri servi di regime, prima di profferire parola, si leggano i vari fascicoli del Ministero della Difesa – Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra e U.N.I.R.R. “Elenco Ufficiale dei prigionieri italiani deceduti nei lager russi”. Soprattutto la si smetta di ripetere a pappagallo che molti soldati italiani, e soprattutto Alpini, preferirono fermarsi spontaneamente in Russia mettendovi su famiglia. E per tal motivo non rientrarono in patria.

«È stato artificiosamente costruito un rifiuto psicologico nei confronti di tutto ciò che riguarda la partecipazione italiana in Russia. Non se ne parla. Non se ne deve parlare! Ci si scontra con l’incredulità, con la negazione teorica che ciò che è avvenuto in Russia non sia mai avvenuto. Non sono valsi i sublimi eroismi personali e collettivi, non sono serviti a nulla le sofferenze ed i sacrifici, né la morte sul campo o in prigionia a sollevare quella cappa di piombo che ha seppellito i morti ed i vivi. La sconfitta subìta e le circostanze che l’hanno provocata sono servite a sconfessare non solo i maggiori responsabili – il che sarebbe giustificabile – ma anche gli incolpevoli protagonisti che hanno soltanto compiuto sino in fondo il loro dovere. Intere generazioni di uomini ligi al proprio dovere sono state annientate senza che di loro sia rimasta traccia.» (Ministero della Difesa – Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra e U.N.I.R.R. op. cit., p. 9).

Ricordare è il primo sforzo che si deve compiere per sapere chi siamo e conoscere il vero volto di chi abbiamo davanti quando ci parla: soprattutto se si tratta di un cosiddetto politico. Se il Corpo degli Alpini ha suscitato sempre e ovunque stima e rispetto, dalla parte opposta abbiamo un individuo che la nostra storia patria non ha ancora condannato. Costui non si è battuto per gli interessi e il bene del proprio popolo, ma per le mire espansionistiche di uno straniero. Se Togliatti ha detto e fatto ciò che i documenti comprovano è anche e soprattutto perché in Italia una larga schiera di sostenitori e di fiancheggiatori lo hanno protetto: questi individui, a mio parere, sono ancora peggio. Conosciamoli tutti e non dimentichiamoceli. In un’Italia doppiogiochista e corrotta la figura del Soldato onesto e dell’Alpino disturbano le coscienze e per certi versi incutono timore: sono l’immagine del cittadino che fa il proprio dovere, che onestamente si batte. Il giorno che questo cittadino sarà stanco di vessazioni e condanne a morte, che cosa succederà? Se decine di migliaia di Soldati e di Alpini non sono tornati alle loro case al termine della guerra si devono ringraziare soprattutto i comunisti italiani e coloro i quali li hanno appoggiati e difesi. Almeno che questo venga scritto a chiare lettere sui libri di storia che i nostri figli leggeranno nei giorni a venire.

Gianluca Padovan

L’Italia e gli italiani nella vana ricerca di loro stessi

$
0
0

Nazione terza pagina

 

–   Premessa, antefatti, fatti e misfatti  –

 

Prima di introdurci nei meandri politico-militari della II^ G.M. (con relative conseguenze) è bene fare alcuni passi indietro e, con una breve premessa, dare un taglio chiaro al problema Italia.

  Premessa Caduto l’impero romano lo status della penisola passò agli Ostrogoti (vedi cartina seguente)   [caption id="attachment_5220" align="aligncenter" width="600"]Estensione del regno Goto in Italia (476-553) Estensione del regno Goto in Italia (476-553)[/caption]  

Regno effimero quello dei Goti in Italia, appena 77 anni ma carico di speranze per la penisola dato che man mano quel popolo “barbaro” si stava romanizzando. Purtroppo si scontrarono con il papa che, accampando e alternando l’eresia ariana alla fedeltà all’imperatore d’Oriente, mise gran mano alle guerre gotiche; guerre che devastarono l’Italia e ne inibirono, fino al 1870, l’unità.

Ben 1317 anni di stati e staterelli in continua lite fra loro e con soprammercato di un via vai di eserciti franchi, ungari, musulmani, francesi, svizzeri, spagnoli, austriaci ecc... ecc...

Ogni tentativo di creare le basi per un regno italico fu sistematicamente vanificato dalla Santa Sede, ricorrendo persino alla soppressione fisica (vedi Corradino di Svevia) dei suoi avversari. Questi passaggi portano i nomi di Arduino d’Ivrea, Federico I Barbarossa, Federico II, Manfredi di Napoli, Corradino di Svevia e per finire Arrigo VII di Lussemburgo; personaggi che a vario titolo tentarono di creare un regno italico o di mantenere il legame dell’Italia con il Sacro Romano Impero. Con Arrigo VII termina questa possibilità.

L’Italia fino al 1454 si barcamena in una serie infinita di guerre intestine poi, da questa data, promotore Lorenzo Il Magnifico, e per quaranta anni, ci sarà la pace e il massimo splendore: il Rinascimento. L’Italia ha le banche più ricche, la marina più potente, condottieri rinomati e…artisti insuperabili. Sembra che con la pace e la potenza, ci possano essere i numeri per creare, con il tempo, un regno italico partendo da una sorta di convivenza federale; non sarà così. Dal 1494 termina tutto; le pruderie francesi e, soprattutto i maneggi dei papi (Alessandro VI e Giulio II) che chiameranno in loro aiuto ora i francesi ora gli spagnoli, porteranno la nostra penisola sotto il tallone dei regni di mezza Europa. Tre possibilità, tre speranze svanite (un regno, un’unione imperiale, una federazione ante litteram).

  [caption id="attachment_5221" align="aligncenter" width="600"]L’Italia al tempo della pace di Lodi (1454-1494) L’Italia al tempo della pace di Lodi (1454-1494)[/caption]   Antefatti

Anno 1848, anno cruciale e foriero di future disgrazie, anno in cui termina il periodo della Restaurazione e tutta l’Europa è attraversata da rivolte a sfondo liberista.

Mentre gli imperi di Russia e Austria-Ungheria “sonnecchiano” raccogliendo i frutti della sconfitta napoleonica, l’Inghilterra, che aveva usato la restaurazione come mezzo per ampliare e consolidare i propri domini, inizia un’opera di destabilizzazione partendo proprio dall’Italia. Già perché le rivoluzioni che nel tempo cambieranno l’Europa sono iniziate nel gennaio del 1848 in Sicilia. Rivoluzione che nulla aveva a che vedere con la libertà bensì con il desiderio di rivalsa dell’Inghilterra, che re Ferdinando II aveva estromesso dall’isola perché minava con i suoi monopoli (Zolfo, vigneti di Marsala) e con la sua asfissiante presenza, la sovranità del regno. Approfittando che il regno si basava sull’unione di due corone (Sicilia e Napoli) l’Inghilterra coltivava questa distinzione per satellizzare l’isola se non farne addirittura una colonia ai fini di dominare incontrastata tutto il Mediterraneo (ricorda qualcosa?). Usando blandizie e bastone Ferdinando II prima li estromise dalla Sicilia poi portò il suo regno alla totale autonomia economica, inutile in questa sede elencarne le conquiste sociali e industriali.

Questa situazione non poteva essere tollerata dall’Inghilterra, ergo servendosi di baroni riottosi (che di li a pochi anni vedremo seduti sugli scranni del regno di Sardegna) e di idealizzatori di libertà, scatena la rivolta. Rivolta che pervaderà l’Italia e l’Europa. Erano anche gli anni di Cattaneo e Gioberti e del sogno di una  federazione italiana. Ultima possibilità per il nostro paese, tant’è che all’alba della prima guerra d’indipendenza alle prime vittorie parteciparono anche il Regno delle Due Sicilie, il Granducato di Toscana, lo Stato della Chiesa, il governo autonomo della Repubblica Veneta e il regno di Sardegna.

  1848   regno delle Due Sicilie     1860(1) 1848   regno delle Due Sicilie     1860(2)            

1848   regno delle Due Sicilie     1860

  1848 Granducato di Toscana Repubblica Veneta 1848-49              

1848 Granducato di Toscana                                  Repubblica Veneta 1848-49

  regno di Sardegna 1848-49

 regno di Sardegna 1848-49

Il sogno si infranse nel momento che Carlo Alberto di Savoia rifiutò l’alleanza de jure oltre che de facto con Ferdinando II. Con la presunzione e l’arroganza tipica del suo casato dichiarò che la guerra il regno di Savoia era in grado di condurla da solo, in conseguenza di ciò il regno borbonico si dissociò dalla guerra seguito dalla Toscana e dagli Stati della Chiesa. La conclusione è nota a tutti. I siciliani solleticati dagli inglesi proposero la corona di Sicilia  a Ferdinando Alberto Amedeo di Savoia, che rifiutò. Ferdinando riconquistò l’isola e gli inglesi dovettero ritirarsi con le pive nel sacco ma pronti per la rivincita.

Anni 1859-1861, seconda guerra d’indipendenza e sbarco dei Mille; definizioni retoriche che mascherano una realtà sottesa quanto inequivocabile. Ritengo essere cosa chiara e conosciuta, almeno spero, che la guerra si fece con le baionette francesi e le sterline inglesi; la partecipazione italiana ai fatti fu marginale anche se con valore. L’impero austro-ungarico, sconfitto a Solferino dai francesi, consegnò alla Francia la Lombardia e non al regno dei Savoia; riconoscendo di fatto di essere stata sconfitta dai francesi e non dagli italiani. Nessun senso di vergogna nel ricevere da un regno straniero le terre per le quali dici di combattere. I brogli conseguenti ai referendum sull’annessione, l’esilio volontario del piccolo esercito del ducato di Modena la dicono lungo sulle reali volontà della cittadinanza.

Lo sbarco dei Mille fu gestito dalla massoneria, sovvenzionato dalle sterline inglesi, protetto dalla marina di Sua Maestà Britannica che fece schermo con le sue navi a quelle borboniche che non si erano fatte corrompere. Un esercito che alza il tricolore e sovvenzionato da un paese straniero, combatte contro un esercito che alza il tricolore e non è sovvenzionato da nessuno.

I sintomi ci sono tutti. Comprati gli ammiragli e i generali borbonici, sbarcate a Marsala le giubbe rosse inglesi frammischiate alle camice rosse così da impedire alle truppe borboniche una pronta reazione. I famosi “picciotti” altri non erano che la manovalanza dei baroni siciliani, inviati da questi ad ingrossare le truppe di Garibaldi.

Anno 1866, terza guerra d’indipendenza. Si ripete l’opera, l’Italia sconfitta in pieno a Custoza e a Lissa, riceve dall’alleato prussiano, vincitore, il Veneto. Cause: liti fra Cialdini e La Marmora, arroganza e supponenza dell’ammiraglio Persano. E’ bene rimarcare che a Lissa la flotta austriaca era per la gran parte composta da veneti ed istriani, che la lingua ufficiale era il veneto e che la battaglia si concluse al grido “San Marco vince”.

Le conseguenze di tutti questi eventi non potevano essere che quelle conosciute.

Riepiloghiamo

1) Il Vaticano procura l’intervento di regni stranieri onde evitare la iattura di un regno italico,

2) La Gran Bretagna briga per la secessione della Sicilia dal Regno Borbonico al fine di una completa satellizzazione dell’isola,

3) La supponenza savoiarda e i maneggi massonici creano i presupposti per far naufragare un’indipendenza italiana su basi federalistiche e, soprattutto, con le sole baionette italiane,

4) Sterline inglesi, baionette francesi e brogli liberisti (massonici) creano sì l’Italia “unita” ma la rendono debitrice in tutto e per tutto,

5) L’unità della penisola viene fatta a scapito dell’indipendenza di altri stati italiani e non con l’unità di tutti, utilizzando la sola corruzione ed il tradimento,

6) I destinatari della corruzione sono gli alti gradi della marina borbonica, quadri cha saranno la base per la creanda marina italiana. In breve: corruzione, tradimento, brogli, pressappochismo militare e politico limitazione della sovranità e maneggi massonici furono le basi su cui fondare l’Italia; ovviamente premi e prebende per chi tradendo l’uno servì l’altro (es. Francesco Crispi, che fomenta la rivolta siciliana contro il suo re, per gli interessi baronali, organizza di poi la spedizione dei Mille, forte dei suoi contatti nell’isola, divenendo poi capo del governo. Vario il numero di deputati che pagati dall’Inghilterra divennero onorevoli del regno d’Italia).

Anno 1870. Con la fine del potere temporale dei papi si realizza l’unità d’Italia, almeno sulla carta, nella realtà le cose non andranno esattamente così. Estromessa dal potere terreno la Santa Sede inizia a scalzare l’unità dall’interno, prima osteggiando il rapporto tra popolo e sovrano usando la sua presa religiosa sugli animi – periodo 1870-1929; quindi sfruttando i Patti Lateranensi per minare dall’interno il governo. La tattica è la stessa, sul piano religioso ma con una marcia in più inserendo l’affarismo politico-bancario. Il Vaticano dismette la corona ed indossa il doppio petto. E il peggio deve ancora venire.

  Fatti

La seguente “filastrocca” può essere utile per ben comprendere la logica degli eventi che caratterizzarono la storia d’Italia dal 1870 ai giorni nostri.

Chi governa Roma,        governa l’Italia Chi governa l’Italia,        governa il Mediterraneo Chi governa il Mediterraneo,        governa il mondo  

1) A seguito della crisi italo-francese del 1881 per il possesso della Tunisia, l’Italia da un lato firma l’alleanza militare con l’impero germanico e con quello austro-ungarico (Triplice Alleanza), dall’altro indirizza le sue forze nell’area del Corno d’Africa (Eritrea, Etiopia e Somalia). All’Inghilterra non sfugge l’importanza strategica di quelle terre e, timorosa per lo stretto di Bab el Mandeb, occupa quella parte di Somalia conosciuta come Somaliland (la Francia era già entrata i possesso dell’area di Gibuti).

Questa situazione darà inizio alla crisi italo-inglese e avrà ripercussioni fondamentali per gli eventi bellici del 1939-’45.

2) 1914-’18 Maneggi franco-inglesi uguale accordi franco/serbi + alleanza russo/serba + colonnello Api e Mano Nera = Sarajevo e Prima Guerra Mondiale che forse è meglio definirla prima Guerra Civile Europea e che porterà, in 30 anni, il continente alla rovina. I governi italiani dell’epoca pur continuando a confermare l’alleanza con Germania e impero austriaco iniziano, more solito, ad intrattenere rapporti con Francia ed Inghilterra stimolati anche dalle pressioni che la massoneria, sia attraverso suoi alti esponenti (es. Nathan sindaco di Roma) ed il suo giornale L’idea Democratica, esercitano sull’opinione pubblica, sia sui legami di fratellanza che legano casa Savoia all’Inghilterra. L’Italia nel maggio 1915 salta il fosso e dichiara guerra all’Austria-Ungheria. A guerra finita e vittoriosa gli accordi di Londra, accordi con i quali i franco-anglo-russi si impegnavano a riconoscimenti territoriali in Dalmazia (soprattutto) a favore del nostro paese, furono completamente disattesi. L’Italia aveva rinunciato ai suoi interessi prioritari (Tunisia, Nizza, Malta, porzioni della provincia di Trento, territori in Africa) per una vuota enunciazione. Mai e poi mai l’Inghilterra avrebbe concesso che l’Adriatico diventasse un lago italiano. Al fine di non appesantire l’articolo e rendere più comprensibili quegli eventi consiglio l’ottimo testo di Michele Rallo Il coinvolgimento dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale e la “Vittoria Mutilata” ed Settimo Sigillo. Mi limito a riportare due stralci: uno dal testo citato a) e l’altro dal primo volume dell’opera La Grande Guerra 1914-1918 di Riccardo Posani ed. Sadea/Sansoni b).

a) <<…D’altro canto – come abbiamo già avuto modo di rilevare – era preciso intento dell’Inghilterra il tenere l’Italia lontana dal Mediterraneo orientale. Troppo dinamica, troppo ambiziosa, troppo intraprendente, ora più di prima Roma era considerata concorrente pericolosa e spregiudicata in un settore ove Londra voleva imporre le regole della propria assoluta egemonia>>

b) In un taccuino del ministro Daneo – grafia difficile e piena di abbreviazioni – (20 e 22 febbraio 1915) <<…colloquio con Giolitti. Paese preoccupato non vuole guerra; nessuna fiducia generali italiani, non uno che valga un soldo. …>>

I fermenti per quello che di lì a 25 anni sarebbe accaduto ci sono tutti.

Misfatti

In altri articoli (armi e armamenti…) mi sono soffermato su alcuni esempi del come l’equipaggiamento dell’esercito italiano fosse stato volutamente trascurato. Purtroppo era solo un aspetto, volto a farlo sentire “povero” ed abbandonato agli eventi, occorreva anche demotivarlo negandogli quelle azioni belliche che avrebbero potuto gratificarlo. Qui di seguito riporto per punti alcuni eventi che possono rendere più trasparente la superficie opaca che li ricopre.

Anni 1922-1943.

Il fascismo, assunto il potere nel 1922, dimostra fin da subito una vivacità politica a 360 gradi, incidendo velocemente nella vita sociale e politica dell’Italia. Se in venti anni fonda lo stato sociale con una massa di leggi e interventi (42 i più significativi), non è da meno in politica estera. Azioni che nel loro insieme determineranno interventi esterni, attraverso il collaudato metodo della corruzione e del tradimento.

- Delitto Matteotti. Lasciamo da parte le accuse di brogli elettorali che lasciano il tempo che trovano, soffermiamoci su ciò che un poco alla volta sta venendo a galla: il petrolio, i maneggi della Standard Oil americana e la massoneria inglese (Matteotti era massone).

 Nazione terza pagina Parentesi personale

Diversi anni or sono ero in nord Italia per aggiornamento di lavoro, durante quel periodo fui in contatto con una persona, che identificherò, per ovvie ragioni, come W.S. Costui, nel periodo 1944-’45, svolse mansioni di portaordini per il Comitato di Liberazione per l’Alta Italia e, come spesso accade, dal lavoro si passò a parlare fra le altre cose di quel periodo. Parlando del caso Matteotti, W.S., glissò adducendo che di quei fatti erano in molti a parlarne e non poteva esprimere alcun parere; chiuse però il discorso dicendo che Vittorio Emanuele III era azionista della compagnia del canale. Tempo dopo, leggendo l’articolo su Matteotti apparso sulla Nazione del 1 novembre 1985 e venendomi in mente quel colloquio, non fu certo difficile fare due più due; il testo di F. Scalzo (Il caso Matteotti), i ricchi giacimenti di petrolio in Italia, chiusero il cerchio.

petrolio desio               ...a scoprire i giacimenti di petrolio, nei pressi di Tripoli, nel lontano 1938  

- Accordi per basi navali nelle Canarie. Sotto la dittatura del generale Primo De Rivera, padre del più famoso José Antonio, la Spagna e l’Italia aprono un tavolo di trattative per la concessione, da parte spagnola, di una base navale all’Italia nelle isole Canarie.

La trattativa si interrompe per la caduta del governo spagnolo – 1930 – e l’esilio del generale De Rivera che morirà a Parigi di lì a pochi giorni in maniera mai chiarita.

- 1935-’36. L’Italia, dopo le amare vicissitudini del fine secolo precedente, sottoposta a provocazione (con sotterfugi dall’Inghilterra) vince e occupa l’Etiopia.  I rapporti con l’ex alleata raggiungono il calor rosso. Il 9 maggio del 1936 proclama l’impero.

  [caption id="attachment_5227" align="aligncenter" width="349"]Africa Orientale Italiana 1936-1941 Africa Orientale Italiana 1936-1941[/caption]

Dalla cartina si può ben vedere la forte ipoteca che l’Italia aveva messo sullo stretto di Bab el Mandeb, sulla sua colonia del Somaliland e, soprattutto, sui collegamenti con le sue colonie orientali con prevedibili conseguenze disastrose (più avanti se ne riparlerà). L’Inghilterra, l’alta finanza e, per altri versi, il Vaticano non possono tollerare oltre.

- Rodi 1939 – Attacco all’Italia. Se gli ambienti “occulti” a mala pena tolleravano l’Italia dinamica e spregiudicata del 1911-’18; quella della marcia su Roma e della conquista dell’Etiopia era un nemico da debellare. Se nel 1935, nel pieno della crisi con l’Italia, la Gran Bretagna aveva studiato un piani per uno sbarco sulle coste italiane e l’annientamento della flotta navale italiana (progetto rimasto alla fase di studio); nell’autunno del 1938 fu ripreso con la variante dell’obiettivo: il Dodecanneso. Il governo di Sua Maestà Britannica riponeva in una sconfitta militare la caduta del fascismo e la colonia del Dodecanneso si prestava bene alla bisogna: attacco breve e devastante accompagnato da una campagna navale  di poche settimane. Il 29 gennaio del 1939. L’operazione sarebbe stata condotta insieme alla Turchia, per quanto concerne le operazioni terrestri, mentre le flotte anglo-francesi si sarebbero accollate l’onere delle operazioni navali. Occorreva però che la Germania rimanesse neutrale e il tutto si potesse risolvere in un breve scontro solo contro l’Italia. Il servizio segreto italiano, molto attivo in medio oriente, venne a conoscenza del tutto, Mussolini anticipò le mosse avversarie stipulando il 7 febbraio un accordo commerciale con l’URSS, la Germania non diede risposta alla richiesta di neutralità e il 22 maggio 1939 veniva firmato il patto d’Acciaio. L’operazione avversaria che doveva prendere il via a partire dal 6 maggio andò in fumo. Era solo questione di mesi e sarebbe scoppiata la Seconda Guerra Civile Europea, detta anche II^ Guerra Mondiale.

- II^ GM - campagna in AOI.

Il Mediterraneo ha due ingressi, uno è lo stretto di Gibilterra, l’altro non è il canale di Suez bensì lo stretto di Ba bel Mandeb, stretto che separa il Corno d’Africa dalla penisola arabica; al centro dello stretto c’è l’isolotto di Perim. Chiudere lo stretto significa bloccare la flotta inglese d’Alessandria e impedirgli qualsiasi via di fuga che non contempli uno scontro aeronavale o nel canale di Sicilia o nello stretto menzionato. Occupare Perim, minare lo stretto (di conseguenza ipotecare la base inglese di Aden), pattugliare in forze il canale di Sicilia; significava eliminare la flotta inglese nel Mediterraneo: significava vincere la guerra in breve tempo e con poca spesa.

Forze nell’area del Corno d’Africa: Italia -     Aviazione,         354 velivoli -     Esercito.            260.000 fra nazionali ed ascari -     Marina,              8 smg., 8 cacciatorpediniere, 1 inc. aus. Regno Unito (forze distribuite fra Sudan, Kenia, Aden e Somaliland) -     Aviazione,         127 velivoli -     Esercito,            19.475 fra nazionali e coloniali -     Marina,               non quantizzabile

Con un rapporto di forze di 13 a 1 per l’esercito e di 2,8 a 1 per l’aviazione. Adeguate le forze navali italiane se ben condotte.

Per quanto il rapporto di forze fosse a nostro favore, per quanto già nel periodo 1935-’36 il Quartier Generale delle forze armate avesse previsto l’occupazione di Perim con una forza di circa 800 uomini, seguita da uno sbarco veloce sulla costa araba e minaccia conseguente su Aden: niente fu messo in opera per chiudere rapidamente la partita. Non solo non venne attuato lo sbarco, non solo non fu minato lo stretto ma le nostre forze furono impiegate in maniera errata e clamorosamente sconfitte nella battaglia del Giuba. Battaglia gestita dal generale Pesenti (vedi Capitolo finale) e che capovolse la situazione a favore del nemico. Nonostante la gravità della situazione a Cheren dal 31 gennaio al 27 marzo del 1941 fu condotta una battaglia che corremmo il rischio di vincere. Battaglia misconosciuta, in Italia, ma ben valutata in tutta la sua importanza dal nemico, così la stampa inglese:

La cattura di Cheren è stata certamente l’episodio vitale di tutta la campagna in Africa orientale se non la più importante di tutta la guerra…

Chi combatté su altri fronti sa che nulla, nulla è stato peggio di Cheren: combattimenti sanguinosi, sgomentanti e paurosi”.

Sul ciglione di Cheren caddero alpini, granatieri, camice nere e si concluse l’epopea del IV battaglione ascari eritrei “Toselli”. Tremila inglesi, indiani, francesi e dodicimila italiani e coloniali chiusero 56 giorni di combattimenti. Il generale Carnimeo, nel momento cruciale della battaglia, compresa la crisi del nemico, chiese i rinforzi che sostavano a Gondar: rinforzi che furono rifiutati dal generale Frusci. Uolchefit, Qulquaber, le scorribande della cavalleria del maggiore Guillet e i guerriglieri che combatterono fino al 1943 (per gli ascari fino al 1947) sono solo conseguenze del tradimento e dell’insipienza. Dallo stretto transitarono petrolio, derrate, armi, navi e uomini che gli USA profusero agli inglesi fino all’entrata in guerra dell’impero giapponese.

- II^ GM – campagna di Grecia. Poche righe che definiscono da sole quella campagna. Il 16 agosto 1940 su richiesta dello Stato Maggiore, il generale Guzzoni prepara un piano di attacco alla Grecia con obiettivi Salonicco e Atene. L’attacco prevede l’utilizzo di 18 divisioni rafforzate, suddivise in 6 corpi d’armata. Il sottosegretario alla guerra, generale Pariani, prudenzialmente ne consiglia 20. Alla vigilia dell’attacco lo Stato Maggiore, a capo del quale è bene ricordare c’è il maresciallo Badoglio, approva il piano con una variante: le divisione da 18÷20 passavano a 8. Come è andata lo sanno tutti.

Capitolo finale

Quanto di seguito riportato è tratto, per stralci, dall’opera di Pietro Sella “El Alamein e la guerra sbagliata” - L’Uomo Libero n°55. Tutte le fonti d’origine sono il processo Trizzino, i processi post bellici intentati dalla neonata Repubblica Italiana contro i vertici militari (sic) ed i capitolati di resa del 1945 e seguenti (esempio per tutti il caso Maugeri).

Per l’onore e la grandezza dell’Italia… nella realtà

…Sembrava che, con le incessanti perdite di navi mercantili, la sfortuna si accanisse contro la nostra bandiera; ma non si trattava di sfortuna. La colpa era del tradimento che si annidava nei massimi gradi della marina. Da sempre filo monarchica e filo britannica (casa Savoia è adepta della massoneria dai tempi di Vittorio Emmanule II), questa forza armata aveva nei suoi quadri un gran numero d’ufficiali ostili al regime. A molti di loro, poi, un regolamento cervellotico e una dirigenza politica troppo accomodante avevano consentito di restare in servizio pur avendo sposato donne straniere.

Gli ufficiali in queste condizioni erano, tra esercito e marina, qualche centinaio.

  • Capitano di vascello Alberto Lais, addetto navale italiano a Washington sposato con un’americana, vende agli americani il cifrario della marina.
  • Il generale Carboni, responsabile del servizio spionaggio dell’esercito, figlio di un’americana dell’Alabama, è un esperto nella disinformazione. Oltre a gonfiare sistematicamente le forze del nemico, ha l’opportunità d’inserire elementi a lui graditi nelle varie strutture militari.
  • L’ammiraglio Vittorio Tur, di padre francese e sposato ad una inglese. Presente a Tolone in qualità di membro della delegazione della Commissione Armistiziale con la Francia; attraverso la resistenza francese, passa informazioni a Londra. In questo nido di traditori faceva da cerniera Enrico Paolo Tur, fratello dell’ammiraglio, già compagno d’accademia a Livorno, dell’ammiraglio De Feo che capeggia la Commissione d’Armistizio. Non può essere un caso che, quando viene programmato l’attacco a Malta, il comando dell’operazione sia affidato proprio all’ammiraglio Tur. Alle sue dipendenze, alla guida di una delle divisioni che dovranno sbarcare, la Friuli, c’è il generale Carboni, il quale semina pessimismo e si muove per sabotare l’azione. Dopo il rinvio sine die dello sbarco e l’occupazione della Francia “libera” seguita dall’invasione alleata del Nord Africa, – novembre 1942 – troviamo Tur al comando della piazzaforte di Tolone. In questa stessa città, nel giugno del ’43, il fratello dell’ammiraglio viene finalmente colto con le mani nel sacco dal nostro controspionaggio. Il responsabile dei servizi, generale Amè, si presenta con Senise, capo della polizia, al cospetto di Mussolini e gli mostra i documenti sequestrati al contatto francese di Enrico Paolo Tur. Visto che i traditori sono marinai, il Duce passa i documenti al controspionaggio della marina, senza sapere che lì c’è il capo banda delle spie l’ammiraglio Maugeri. L’ammiraglio Tur, invece di essere prudenzialmente messo in fortezza, viene trasferito al comando marittimo del basso Tirreno, con giurisdizione sulla Sicilia, proprio dove gli alleati sbarcheranno il mese successivo. Hanno saputo, guerda caso, che la flotta italiana, per l’occasione, non si sarebbe mossa per ostacolarli. per le benemerenze che abbiamo ora ricordato, la spia Enrico Paolo Tur fu riammesso in servizio e gli fu concessa, nel dopo guerra, la pensione della marina militare (libretto n. 397016).
  • L’ammiraglio Bruno Brivonesi anche lui con moglie inglese. Il 10 novembre 1941 è di scorta, con la III^ divisione navale (2 incrociatori pesanti, il Trento ed il Trieste e 10 cacciatorpediniere), a 4 piroscafi e tre petroliere che portano in Libia 389 carri armati, 17.281 tonnellate di benzina, 1.579 tonnellate di munizioni oltre a 15.000 di materiali vari. I mercantili che viaggiano ciascuno, in pratica, protetto da due navi da guerra e per i quali Supermarina ha tracciato una rotta molto particolare, sono sorpresi da 2 incrociatori leggeri e 2 cacciatorpediniere. Mentre i trasporti del convoglio italiano sono colpiti e affondano tutti, il Brivonesi, che durante lo scontro si era tenuto a distanza di sicurezza, si rintana con le sue 12 navi a Taranto. la sua condotta gli costa la destituzione dal comando e il deferimento alla corte marziale, ma gli ammiragli che lo giudicano sono evidentemente della stessa pastae lo assolve perché <<il fatto non costituisce reato>>. Nel dopo guerra, il Brivonesi qurelò per diffamazione e vilipendio Antonino Trizzino, il quale nel suo libro Navi e poltrone, l’aveva accusato di codardia di fronte al nemico. Ebbene, nel 1954, la corte d’assise di Milano assolse il Trizzino con formula piena. A volte il risultato desiderato da Supermarina lo si può cogliere con la fuga.
  • Ammiragli Iachino e Parona. Un altro caso emblematico è quello della seconda battaglia della Sirte. Anno 1942; gli inglesi nel Mediterraneo sono privi di portaerei dal maggio 1941 e, dal dicembre dello stesso anno, di corazzate (perdita della Valiant e Queen Elisabeth). Per la scorta di un convoglio diretto a Malta, l’MW10, che esce da Alessandria il 20 marzo 1942, dispongono solo di pochi incrociatori leggeri e qualche cacciatorpediniere. Per intercettare il convoglio esce da Taranto, al comando dell’ammiraglio Iachino, la corazzata Littorio scortata dai cacciatorpediniere Aviere, Ascari, Oriani e Grecale. Da Messina al comando dell’ammiraglio Parona, muovono gli incrociatori pesanti Gorizia e Trento, nonché il leggero Bande Nere con i cacciatorpediniere Alpino, Bersagliere, Fuciliere e Lanciere. Affrontato dai caccia inglesi, il Parona comunica a Iachino di avere assunto rotta nord e di “essere inseguito dal nemico!” Iachino si avvicina e, a questo punto, le due squadre italiane sono affrontate a più riprese, con salve di artiglieria e lancio di siluri, dai quattro caccia inglesi che difendono il convoglio. per dare un’idea della sproporzione di forze, il peso della bordata italiana era di 11.000 kg., quella inglese di 2.500; ma nessuna delle piccole unità inglesi è colpita. Dopo aver incassato sulla lIttorio un colpo sparato da uno dei caccia che si era, con grande coraggio, avvicinato fino a 5.000 metri, Iachino decide di rientrare a Taranto. Il convoglio nemico è salvo. <<Indescrivibile fu il nostro sollievo quando ci confermarono che gli italiani si stavano ritirando>>. Così, ancora incredulo, l’ammiraglio Cunningham ad Alessandria.

Questa del marzo 1942 fu l’ultima ingloriosa uscita della flotta   italiana prima dell’8 settembre.

  • Contrammiraglio Massimo Girosi. Una parte negli eventi, che in questa data vivrà la marina tocca al contrammiraglio Massimo Girosi. Già uomo del SIM di carboni, il Girosi è assegnato all’Ufficio Operazioni di Supermarina; qui lo raggiunge una comunicazione da parte del fratello Mario che, a New York, stava collaborando con il naval Intelligence, lo spionaggio navale americano, al quale aveva fornito documenti definiti dlla marina USA “di valore inestimabile”. Questa attività gli varrà, dal nemico, la Silver Star. Il messaggio del fratello, che Massimo Girosi riporta orgoglioso all’ammiraglio Raffaele De Courten, divenuto ministro della marina con il 25 luglio 1943, contiene la proposta per la flotta italiana di ritirarsi, di fatto, dalla lotta e di prepararsi a passare dalla parte degli alleati. Il De Courten mostra di apprezzare l’invito e ne parla, compiaciuto, a Badoglio. La marina, prima ed unica tra le forze armate, scavalca il proprio governo e si dichiara pronta alla resa (logica conclusione di tre anni di connivenza con il nemico n.d.c.).
  • Ammiraglio Gino Pavesi, comandante dell’isola, nonché piazzaforte, di Pantelleria, presidiata da 12.000 uomini; è l’unica isola in tutta la storia militare che si arrende solo per un’azione aerea. Quando è il momento dello sbarco, 10 luglio 1943, la flotta non modifica la sua strategia; non va incontro al nemico, non si muove dai porti. Era già scritto che le grandi navi da battaglia dovessero restare intatte per il <<dopo>>. Con la sua rete di ammiragli traditori, la Regia marina aveva concluso con il nemico un armistizio privato, sulla falsariga della proposta dei fratelli Girosi. Le regole dell’intesa, dettate a Lisbona dagli anglo-americani agli uomini di Maugeri, i capitani di vascello Cippico e Cugio, quest’ultimo già addetta navale a Washington, erano queste: la marina italiana non doveva intervenire nelle operazioni militari, gli anglo-americani non avrebbero bombardato i suoi porti. Un simile gentlemen’s agreement sarebbe certamente stato un’ottima base per una cordiale collaborazione, da instaurarsi non appena le navi si fossero trasferite a Malta.
  • Ammiraglio Leonardi. Il <<contratto>> concluso da Supermarina era disciplinatamente applicato a livello locale. Come a Pantelleria c’era stato pavesi, così in Sicilia, ad Augusta, al comando di una delle basi navali più munite al mondo, si trovava un altro uomo d’onore, l’ammiraglio Leonardi. La sera del 12 luglio, due cacciatorpediniere nemiche e altri mezzi da sbarco entrano nel porto di Augusta e attraccano alle banchine. Le cisterne di carburante, le prese d’acqua, i magazzini, sono intatti. I cannoni della piazzaforte, tra cui 16 pezzi da 305 e 29 batterie di grosso calibro, oltre ad un treno blindato, non sparano un colpo.uando è il momento dello sbarco, 19 luglio 1943,

Se gli alti gradi della marina hanno dato il meglio di loro per “trascurare” la guerra, i generali del Regio Esercito non sono da meno, significativamente e soprattutto quelli preposti alla difesa del Corno d’Africa (Eritrea, Somalia ed Etiopia).

  • Generali Frusci e Trezzani rispettivamente comandante del settore Nord (regione Eritrea) e capo di Stato Maggiore del duca dì’Aosta. Dopo la resa dell’A.O.I. sono trasferiti negli USA ancora neutrali e sono ricevuti alla Casa Bianca. Frusci è lo stesso che negò al generale Carnimeo i rinforzi, durante la battaglia di Cheren (battaglia che corremmo il rischio di vincere e che vide l’olocausto del IV battaglione ascari Toselli n.d.c). Trezzani, dopo la “liberazione” sarà il primo Capo di Stato Maggiore Generale. Come collega, in qualità di Capo di Stato Maggiore della marina, avrà l’ammiraglio Maugeri, ex capo del SIS, lo spionaggio navale decorato dagli alleati per i servizi loro prestati durante la guerra (1).
  • Il generale Gustavo Pesenti, comandante in capo delle truppe della Somalia, è degno di essere ricordato. Quando gli inglesi, provenienti dal Kenia, attaccano, ai primi di gennaio del ’41, El Uach, nell’Oltregiuba, il presidio si dissolve in un attimo senza combattere, lasciando in mano al nemico armi, munizioni e persino le pentole delle cucine. Informato da radio Londra della vicenda, il Viceré raggiunge per una spiegazione (?) il Pesenti, il quale gli propone di firmare una pace separata con il nemico: <<La guerra è perduta (ad appena sei mesi!) – dice il generale – e noi affetteremo la fine del conflitto, che gli italiani non sentono, salvando l’impero che ci è costato tanti sacrifici (sic). Se, come è prevedibile – continua il Pesenti – Roma sconfesserà Vostra Altezza, noi faremo la guerra al fascismo>>. Sfuggito alla cattura (2) in Africa e riparato in Italia nel ’42, il Pesenti si propone a Badoglio come comandante di un reparto da formarsi in Africa con i prigionieri italiani contrari al regime fascista. L’idea di servirsi dei vertici militari dell’AOI era già balenata al nemico. Il generale Platt, il vincitore di Cheren, alla resa del Viceré così si era espresso: <<Ho sempre avuto la premonizione che verrà il giorno in cui l’Italia cambierà schieramento (more solito). Quel giorno avremo bisogno di un intermediario, e nessuno potrà essere più indicato del duca d’Aosta>>.

L’onore dal punto di vista del maresciallo Badoglio e di casa Savoia

- Roma 3 settembre 1943 (data effettiva della resa). Badoglio riceve l’incaricato d’affari tedesco Rudolf Rahn, che ha sostituito l’ambasciatore Manchensen, e lo rassicura: <<…Sono uno dei tre più vecchi Marescialli d’Europa, Manchensen, Petain ed io; e ci consideriamo rappresentanti e depositari dell’onore militare europeo. E’ inconcepibile che il governo del Reich dubiti della mia parola. L’ho data e la manterremo. Dovete fidarvi di noi.>> Nello stesso giorno a Cassibile veniva firmata la resa (In tale situazione non c’è da meravigliarsi se il Re ed il governo temessero per la propria vita. Avevano dato la parola d’onore sapendo che stavano mentendo – n.d.c.)

… dal punto di vista del generale Eisenhower.

The crooked deal” - un affare disonesto. Così il comandante in capo degli eserciti alleati, rifiutandosi di sottoscriverlo personalmente e delegando il suo capo di Stato Maggiore generale Bedell Smith.

e sarcasmo tedesco

- Novembre 1943 <<1.255.660 fucili, 33.333 mitragliatrice, 9.986 pezzi d’artiglieria, 970 carri armati, e cannoni semoventi, 4.553 aeroplani, 15.000 automezzi, 28.600 tonnellate di munizioni, 123.114 metri cubi di carburante per veicoli… militarmente, il maggior servizio reso dall’Italia al suo alleato>>; così il generale Jodl Capo di Stato Maggiore della Wehrmacht

Questa carrellata di eventi può sembrare un affastellamento di notizie a caso; così non è. Per quanto in maniera sintetica indica da quanto tempo all’Italia e agli italiani è impedito di riconoscersi in una storica comunità nazionale ed europea. Interessi di parte da un lato (Vaticano), timori politici dall’altro (Inghilterra, Stati Uniti) e una incancrenita inaffidabilità tutta italiana, non consentiranno, se non via miracolistica, una vera unità d’Italia.

Gli italiani vivono in modo masochistico la politica e la società e la vivono ciclicamente; con Alleati contro fascisti, con i democristiani e missini contro i comunisti, con i comunisti contro i capitalisti, con i capitalisti contro i nazionalisti e con i nazionalisti contro tutti; mai che l’italiano abbia guardato all’Italia senza mettere in ballo giustificazioni. Giustificazioni che hanno portato allo sfacelo attuale e che entro un pugno di decadi cancelleranno l’Italia e gli italiani.

Oggi viviamo in pieno le conseguenze di quei fatti, oggi chi ha occhi per vedere ed intelletto per ragionare può valutare compiutamente quegli eventi. Una nazione impoverita, allo sbando senza riferimenti, una classe politica corrotta, superficiale, un esercito al servizio dello straniero, una immigrazione mirata a dissociare completamente italiani e Italia. Farne un elenco ulteriore è inutile, questi tempi li stiamo vivendo e soffrendo.

Il periodo 1922-1942 è stato l’unico che dalla caduta di Roma ha dato a questa nostra terra onore, orgoglio, potenza, forza e giustizia sociale.

Chi ha nel cuore tutto ciò deve sentirsi orgoglioso di quel periodo, di quell’Italia ed elevare a leggenda gli eventi e le gesta di chi quegli eventi creò e di chi li difese con la propria vita.

  Gianfranco Bilancini   In onore IV Btg. ascari “Toselli” Rgt. cavalleria coloniale “Penne di falco” 136a div. “Giovani Fascisti” Div. paracadutisti “Folgore” 7.000 guerriglieri in A.O.I. Inc. di marina Xa MAS Div. Cor. “Ariete” e “Littorio” 63a Lg. CC.NN. “Tagliamento” 1° Gruppo Caccia Smg. “Da Vinci” e “Tazzoli”   In ricordo di:

- Adamo Profico che con il suo carro, durante la battaglia della piana di Catania distrusse 25 automezzi di una colonna anglo-americana

- Vito Procida e Francesco Cargnel che unici superstiti di un reparto ADRA, penetrati dietro le linee nemiche distrussero al suolo 25 quadrimotori nemici.

e di tutti coloro che dal Corno d’Africa ai cieli d’Inghilterra, dall’Atlantico alle steppe russe hanno versato il loro sangue per un sogno e per una nazione che oramai non esistono più.

    Fonti bibliografiche a) Cambridge University Press – Storia del mondo antico, vol.        VIII e IX. b) La Storia Manipolata - Luciano Salera, ed. Controcorrente c) L’Inghilterra contro il Regno delle Due Sicilie - Erminio De        Biase, ed. Controcorrente d) L’Era di Re Ferdinando - F. M. Di Giovine, ed. Controcorrente e) El Alamein e la guerra sbagliata, Piero Sella, ed. L’Uomo        Libero n°55 f) Il delitto Matteotti (che il mandante fosse il re…) - art. su La        Nazione 1 novembre 1985. Il caso Matteotti - Franco Scalzo, ed. Settimo Sigillo g) Rodi 1939: Londra voleva la guerra con l’Italia - Storia        Illustrata art. di M. Valle h) Cheren - Renato Loffredo, ed. Longanesi.        

Le verità celate di Sant’Anna di Stazzema (onore e gloria ai partigiani)

$
0
0

stazzema_ossario_di_sant_anna_di_stazzema_21-620x270

Articolo a cura di Nicole Ledda dell’Associazione culturale Zenit

Sant’Anna è una frazione di Stazzema, sita sull’Appennino toscano, ad oltre 600 metri sul livello del mare, un altro mondo praticamente. Questi monti sono a ridosso del mare, una bellezza da togliere il fiato e Sant’Anna pare una sorta di anfiteatro che abbraccia con la vista tutta la zona che va da Pisa a La Spezia. Queste terre sono belle e maledette, in quanto hanno particolarmente sofferto lo sbarco alleato in Italia. I tedeschi per proteggere l’Italia settentrionale da bombe, hot dog e democrazia innalzarono la Linea Gotica, Gotenstellung, nome altisonante voluto dallo stesso Hitler. Tale fortificazione si estendeva da Apuania (le attuali Massa e Carrara ) fino a Pesaro ed è stato l’ultimo baluardo tedesco e della Repubblica Sociale, rappresentando in questo lasso di tempo, fino alla resa, il miglior esempio di quella che in gergo si chiama “vittoria difensiva”. Le nostre terre recano ancora oggi innumerevoli resti delle trincee. Chi vive qui, ha un forte senso di appartenenza e anche chi non ha fede politica, si schiera dinanzi alle 60.000 vittime civili; non a caso Toscana ed Emilia sono note per essere “rosse”.

Essere nato in questi luoghi, esser fiero di aver questo sangue e amare follemente questi monti e questo mare, per chi scrive queste righe e spero per chi legge, questi non sembrano motivi validi per schierarsi con la massa che mistifica i partigiani, che proprio di queste terre hanno fatto il teatro principale delle proprie angherie. Oggi 12 agosto si celebrano i martiri dell’eccidio di Sant’Anna, una delle pagine più buie e poco conosciute della nostra storia più recente. Questo borgo viene sfruttato in nome dell’antifascismo, ma noi vogliamo raccontarvi la storia che si basa sulle testimonianze dei pochissimi reduci, senza allinearci alle fantasiose ricostruzioni che purtroppo hanno invece preso piede.

Un eccidio questo, non solo evitabile, ma beffa delle beffe, passato alla storia come fascista. Questo borghetto è nascosto tra le alture e per raggiungerlo è necessaria una camminata in salita di almeno due ore, per questo motivo la popolazione contava quattrocentocinquanta abitanti, fino all’otto di settembre, da quel momento cominciarono ad arrivare gli sfollati e con essi anche i partigiani. Inizialmente gli sbandati erano soltanto dieci e non abitarono mai la città, ma la presidiavano dall’alto, preferendo scendere solo per imporre la propria presenza. In nemmeno un anno superarono le duecento unità, dando vita alla brigata 10bis Garibaldi. Se fino a quel momento i partigiani vivevano nascosti, nel giugno cominciarono con gli attacchi a valle e in pianura: agguati, scontri, provocazioni, assassinii degli iscritti al PNF o in casa davanti ai familiari o sui monti dove venivano tenuti prigionieri. Le reazioni delle camicie nere furono rare e i tedeschi finché non furono oggetto dello stesso trattamento, non si intromisero.

Toccate le truppe tedesche, la reazione non si fece attendere e data l’impossibilità di espugnare quei nascondigli naturali ed impervi che le nostre terre offrono, affissero sul portone del sagrato di sant’ Anna, l’intimazione ad abbandonare il paese durante il rastrellamento, tutti coloro che fossero rimasti sarebbero stati considerati partigiani o protettori degli stessi. Allontanatesi le truppe, gli sbandati strapparono il manifesto, affiggendone un altro che ordinava di non abbandonare le case per nessuno motivo. La trappola era dunque pronta e la macchina ben oliata. Gli stazzemesi non lasciarono il borgo, non sapevano d’esser le vittime sacrificali dell’odio cieco, rosso e vigliacco. I partigiani fuggirono e gli innocenti furono sterminati al posto loro. Una sorta di via Rasella dell’Alta Versilia ma ben più infame, perché i partigiani tornarono a rastrellamento finito per derubare i corpi senza vita e razziare le abitazioni ormai fantasma. Nessuno si cura di dar voce alle pochissime testimonianze dei reduci, se così fosse si smonterebbe il falso mito dei collaboratori neri, in quanto l’unica spia delle S.S. fu un ex compagno di origine polacca che conosceva perfettamente i luoghi dei nascondigli degli sbandati. “Onore e gloria ai partigiani” e sono riusciti ad inculcarlo per bene nell’immaginario comune, contro ogni logica soprattutto in chi abita queste zone. Quegli stessi partigiani che abusarono dell’onestà della popolazione, provocarono in ogni modo le rappresaglie tedesche senza pietà alcuna per i civili, usati come pedine. Gli stessi partigiani che la storia ci ha consegnato come eroi “ora e sempre resistenza” ti ripetono giovani ed anziani, quasi automaticamente, qui è un infamia provare a raccontare la verità. Il subdolo gioco della resistenza ci ha consegnato questa italietta serva, che da oltre settant’anni fa dell’antifascismo un vanto e non una piaga.

Questi non sono i nostri padri, siamo figli di altri giorni. Il primo passo verso la rivoluzione è quello di diffondere la realtà storica dei fatti, quello di difendere ciò che siamo stati malgrado tutto, e ciò che vogliamo orgogliosamente essere, malgrado tutti, senza aver mai paura d’esser soli, senza vergogna. Andare controcorrente, in questo senso, è una missione alla portata di tutti, affinché le nostre non siano solo belle parole, è una missione che non ammette resa. È una questione di dignità, è una questione d’amore.

La verità su S’Anna di Stazzema

$
0
0

marcia

La storia della Resistenza comunista italiana è costellata da episodi talmente orrendi che sembrano, visti con gli occhi di oggi, assurdi e incredibili. In realtà tali episodi non furono né casuali né sporadici; i partigiani seguivano una linea ideologica e strategica ben precisa e già collaudata alla nascita dell’Unione Sovietica. Per potere perseguire la logica della resistenza comunista, rappresentata dalla strategia del terrore, servivano uomini che sapevano essere cinici e sanguinari, perché solo chi é permeato da tanta disumanitá puó apprezzare l’ideologia comunista.

La presenza permanente ed attiva dei criminali comuni all’interno della resistenza non deve per nulla stupire. Tra delinquenti della peggior specie e partigiani non c’era nessuna differenza e nessuna divergenza, sia di vedute che di comportamento anzi, la posizione dei partigiani è più grave perché, sia la pianificazione che l’esecuzione dei delitti erano la risultante della più sanguinaria freddezza e del più cinico odio ideologico. Ecco perché i crimini della resistenza sono particolarmente efferati. Che fossero dei criminali comuni o criminali guidati dall’ideologia (questo erano i partigiani), tutti gli autori di delitti furono coperti con ogni mezzo e in modo sistematico, sia dall’apparato del partito comunista italiano che da quello sovietico, sino ad organizzarne, qualora non ci fossero altri mezzi per proteggerli, la loro fuga ed il mantenimento nell’Unione Sovietica di Stalin.Tra gli innumerevoli esempi che consentono di comprendere perfettamente quale era la costante che contraddistinse sempre la strategia delle bande armate comuniste, si puó citare la tragica vicenda che il 12 agosto 1944 coinvolse Sant’Anna di Stazzema, un paesino dell’entroterra Lucchese, localitá nota come paese “vittima di stragi” da parte tedesca e fascista.

In realtá anche in questo caso, nulla togliendo alla crudezza germanica, furono i partigiani a fare inferocire i tedeschi, con il preciso scopo di indurli a compiere una rappresaglia, (che porterà alla fucilazione di quasi tutti gli abitanti del piccolo borgo).

Prima di addentrarci nella lettura che segue, vorrei fare una premessa! è ormai risaputo che il mesto operato dei partigiani non fu mai di nessuna importanza per le sorti del conflitto, come se ciò non bastasse, gli alleati, che pure si servirono di questi mascalzoni, non li ebbero mai in alcuna considerazione, tanto che essi per primi li considerarono sempre dei viscidi criminali.

Dell’amara vicenda di questo piccolo borgo ci sono chiare testimonianze di alcuni sopravvissuti. Tra di essi il signor Duilio Pieri, che nella strage perdette il padre, la moglie, due fratelli, le cognate e quattro nipotini, e che dal 1945 è presidente del locale “Comitato vittime civili di guerra”. I partigiani in questione erano i criminali della brigata 10/bis Garibaldi, i quali seguivano l’ormai collaudata tecnica: per prima cosa effettuarono alcuni agguati contro i tedeschi, che a loro volta risposero con una serrata ricerca dei ribelli nelle campagne circostanti al paesino. In quell’occasione i partigiani si introdussero a forza dentro le case e da lì spararono contro i tedeschi (questa operazione mirava a indurre i tedeschi a pensare che tra la gente del posto vi erano partigiani, o che la gente del posto desse loro protezione, azione che faceva scattare il diritto di rappresaglia).

A loro volta i tedeschi effettuarono una prima rappresaglia nella quale si limitarono a dare alle fiamme le case da dove erano partiti i colpi. Ma i partigiani continueranno nei loro agguati, sempre col medesimo scopo, indurre i tedeschi (in quel caso si trattava di un battaglione della 16° Divisione SS Reichsführer) a compiere altre rappresaglie. Con l’intento di non fare sfollare i civili, per farli uccidere, i partigiani tranquillizzarono la gente del posto assicurando loro che in caso di una nuova rappresaglia li avrebbero difesi. Infatti ben presto i tedeschi, decisi a “bonificare” la zona, affissero l’avviso di sgombero della popolazione per via dell’imminente rappresaglia (con tanto di avviso che avvertiva che chiunque fosse stato trovato nell’abitato sarebbe stato passato per le armi perché considerato fiancheggiatore dei partigiani).

Racconta Amos Moriconi, un ex minatore che in quel periodo faceva il fornaio, che nella strage perdette la moglie, la figlioletta di due anni, la madre, due sorelle, un fratello e il suocero.<<(...) I comunisti però intervennero subito, strappando il manifesto tedesco e affiggendone un altro nel quale facevano obbligo ai civili di non muoversi. Che cosa dovevamo fare? Eravamo presi tra due fuochi. La presenza minacciosa dei partigiani comunisti era molto più concreta di qualsiasi ordinanza tedesca. Così restammo tutti. Gli abitanti di Sant'Anna, gli sfollati che avevano cercato salvezza nel borgo appenninico non potevano certo sospettare, in quei momenti, che i comandi comunisti avevano freddamente deciso di sacrificarli. I partigiani calcolarono infatti cinicamente che le SS avrebbero scambiato gli uomini di Sant'Anna per partigiani comunisti e li avrebbero massacrati, tornando quindi alle loro basi con la certezza di aver "ripulito" la zona.>> Amos Moriconi continua il racconto:<<(...)Ricordo che affrontai uno degli ultimi partigiani che si accingevano a lasciare il paese e gli dissi: "Perché ci abbandonate? Voi sapete bene di averci infilato in una rete e sapete anche che i tedeschi non ci risparmieranno. Avevate promesso di difenderci. Dove ve ne andate adesso?". Ma quello mi guardò ghignando e si allontanò senza rispondermi>>.

Ben si comprende quindi che la strategia delle bande comuniste era quella di condurre a morte certa i civili.

Racconta ancora, Amos Moriconi. <<La strage incominciò poco dopo le sei del mattino. I tedeschi, circondata la vasta conca dell'anfiteatro dove sorge Sant'Anna, si divisero in squadre, penetrando simultaneamente nelle diverse frazioni che compongono il paese: Argentiera, Le Case, Franchi, Vaccareccia, Coletti, Bambini, Colle, Sennari e Molini.

La popolazione venne colta di sorpresa. L'allarme però corse fulmineo di casa in casa e furono numerosi coloro che riuscirono a mettersi in salvo gettandosi nei boschi che circondano Sant'Anna. Ma, come già era accaduto in occasione di precedenti allarmi del genere, solo gli uomini tra i 18 e i 60 anni cercarono scampo. Fino a quel momento, infatti, l'incubo della rappresaglia aveva sempre risparmiato, almeno nello Stazzemese, i vecchi, le donne e i bambini.

Nessuno in paese, quella mattina, poteva sospettare che i tedeschi fossero decisi a uccidere senza pietà, quali "fiancheggiatori" dei partigiani, tutti gli abitanti di Sant'Anna. Nessuno poteva immaginarlo, ad eccezione però di alcune persone: i capi partigiani comunisti della zona. Questi, infatti, sapevano benissimo che i tedeschi, quando ritenevano di dover eliminare qualsiasi presenza partigiana in un determinato settore, non esitavano a massacrare anche i civili che abitavano nella zona. Lo sapevano anche perché proprio in quelle ultime settimane, e specie nel territorio della provincia di Arezzo, centinaia di innocenti erano stati trucidati nel corso di alcune feroci ritorsioni scatenate dalla attività criminose di formazioni partigiane rosse. Ma i capi comunisti, fedeli alle direttive della "guerra privata" condotta dall’organizzazione rossa, si guardarono bene dal mettere sull'avviso gli abitanti di Sant'Anna: a loro, quegli uomini, quelle donne, quei bambini, facevano più comodo da morti che da vivi, visto e considerato, tra l'altro, che nessuno degli abitanti del paese aveva voluto entrare nelle formazioni partigiane comuniste.>>

Un altro sopravvissuto, Mario Bertelli, in un primo momento pensò che comunisti alla fine sarebbero intervenuti in difesa del paese e della popolazione ma si trattò di una illusione che durò poco. Bertelli racconta <<(...) Dal mio nascondiglio potevo sentire l'eco degli spari e delle raffiche. La distanza mi impediva di udire le grida e le invocazioni d'aiuto. Per un po’ di tempo ritenni così che i tedeschi sparassero più che altro per intimidire la popolazione come era già accaduto altre volte. Poi cominciai a vedere il fumo degli incendi. Bruciavano case un po’ dovunque. Mi resi conto che la situazione si stava facendo tragica. Ero solo, senza armi. Tornare in paese in quelle condizioni non sarebbe servito a nulla: non avrei potuto aiutare i miei familiari e sarei caduto subito nelle mani dei tedeschi. Trascorsi così ore di agonia. Alla fine gli spari diminuirono di intensità e poi cessarono del tutto. Mi avviai allora verso l'abitato. Avrei voluto correre ma ero troppo debole a causa della malattia: il terrore di quanto avrei potuto vedere in paese mi piegava le gambe. Quando giunsi, molte case stavano bruciando. Mi avvicinai alla prima: vidi alcuni cadaveri tra le fiamme. Allora corsi urlando come un pazzo verso la mia casa. Era stata distrutta dalle fiamme, ma tra le macerie infuocate non trovai alcun cadavere. Mi spinsi allora fino alla piazza della chiesa, da dove vedevo levarsi un fumo denso. Ma quando vi arrivai, una scena spaventosa mi inchiodò al suolo senza che avessi più la forza di avanzare di un passo: un mucchio enorme di cadaveri stava bruciando lentamente. Ad un tratto mi sentii afferrare convulsamente e una voce, quella di mio padre, singhiozzò: "Sono là dentro... tutti". Seppi cosi che nell'orribile cumulo e erano anche mia moglie, mia madre, le mie sorelle Pierina e Aurora e mio nipote. La rappresaglia però non si accanì contro tutte le frazioni che compongono Sant'Anna. Nella frazione Sennari, per esempio, le SS diedero fuoco ad alcune case e radunarono tutta la popolazione in una piazzetta. Sistemarono quindi le mitragliatrici per falciare quei poveretti: giunse però all'ultimo momento un ufficiale che impedì il massacro.

Nella frazione Bambini, i tedeschi non bruciarono case e non uccisero alcuno. Le altre frazioni, invece, furono quasi tutte distrutte e gli abitanti massacrati. Non si è mai capito il perché di questa terribile selezione. Una risposta può essere data dal fatto che le SS conoscevano o perlomeno, credevano di conoscere l'ubicazione delle case nelle quali erano stati ospitati i partigiani o, peggio, dalle quali i partigiani avevano fatto fuoco contro i loro camerati. Infatti durante il rastrellamento, accanto ai tedeschi c’era un ex partigiano comunista di nazionalità polacca, diventato spia delle SS (di norma i partigiani presi prigionieri, per evitare di essere fucilati, tradivano sistematicamente i loro compagni, mandandoli a morte certa, oppure si mettevano al servizio dei tedeschi indicando loro le frazioni da distruggere e le famiglie da massacrare perché nascondevano partigiani).

I tedeschi compirono la loro rappresaglia e se ne andarono, dopodiché i partigiani, che erano rimasti a godersi lo spettacolo nascosti poco distante dal centro abitato, rientrarono in paese per compiere ció che fu sempre la prerogativa di questi sciacalli , il saccheggio delle case e l’espoliazione dei cadaveri, non mancando mai di strappare persino eventuali protesi dentarie in oro.

Racconta Amos Monconi:<<(...) Fu allora che qualcuno mi disse che era necessario seppellire subito i morti. Raccolsi un pò di attrezzi e scavai una grande buca. Poi vi trasportai le salme dei miei congiunti e cercai di comporle prima di seppellirle. Mentre mi stavo dedicando a questa terribile incombenza, vidi i partigiani. Erano due. Uno lo conoscevo bene da tempo: era un milanese che si faceva chiamare "Timoscenko". Si avvicinarono a me. Notai subito che avevano le tasche piene di portafogli, oggetti d'oro e d'argento. Se ne erano infilati anche dentro la camicia. Li guardai senza parlare. "Timoscenko" allora mi disse: "Devi consegnarci tutti i soldi e gli oggetti di valore che trovi sui morti. Siamo noi che dobbiamo prenderli in consegna". Mi sentii salire il sangue alla testa; impugnai la piccozza e la alzai di scatto; "Vattene" gli dissi... "Vai via se non vuoi che ti spacchi il cranio". "Timoscenko" esitò un momento poi, senza replicare, si allontanò". Sul conto di questo "Timoscenko" e altri partigiani comunisti ne abbiamo sentite raccontare di tutti i colori. Furono visti entrare nelle case dove non era rimasto vivo più nessuno e uscirne dopo aver fatto man bassa. Furono anche visti spartirsi il bottino.

Il racconto di Amos Monconi fu confermato da Teresa Pieri, una delle superstiti la quale, raccontando ciò che vide qualche giorno dopo la strage affermò <<(...)scesi a Valdicastello, in una strada riconobbi due partigiani comunisti che avevo visto tante volte a Sant'Anna. Mi avvicinai e mi accorsi che si stavano dividendo soldi, braccialetti, catenine d'oro. Tutta roba rapinata sui cadaveri dei nostri cari>>.

Vincenzo Ballerino

3 settembre 1939: iniziava così la seconda guerra mondiale

$
0
0

corridoio-di-danzica-campagna-di-polonia-guerra-di-annientamento-carta

Francia e Gran Bretagna responsabili della morte dell’Europa

Con le dichiarazioni di guerra degli Imperi francesi e britannico alla Germania del 3 settembre 1939, il Vecchio Continente sprofondava in quello che passò alla storia come il Secondo conflitto mondiale.

Tuttavia, questa data è stata rimossa dai manuali di storia, intenti ad attribuire al Reich la deliberata volontà di scatenare una guerra planetaria dagli esiti apocalittici. E, infatti, oggi nessuno mette in discussione la data del 1° settembre 1939 come data di inizio di quel conflitto.

Ma cosa accadde veramente questo giorno?

Prima ci tolleri il lettore una breve “retrospettiva”. Dopo la conclusione della Prima Guerra Mondiale, la Germania – come gli altri Stati sconfitti – venne duramente punita. La Pace di Versaglia, che provocherà un’instabilità tale da condurre a un secondo conflitto, venne studiata appositamente per garantire l’egemonia dei due Imperi-guida che avevano trionfato, anche a scapito dell’Italia che della coalizione vincente faceva parte. Francia e Gran Bretagna decisero di punire la Germania e, tra le varie vessazioni imposte al Reich sconfitto, vi fu quella della costituzione della Libera Città di Danzig (Danzica) che de iure spezzava in due la continuità geografica della Germania e de facto permetteva l’incunearsi della Polonia in territorio tedesco, fino al Mar Baltico (all’epoca la Polonia era uno Stato continentale e non aveva accessi al mare).

Il ritorno alla Madre Patria di Danzig fu sempre nell’agenda di tutti i Governi germanici, ma la debolezza dello Stato tedesco e l’incapacità degli “amministratori” della Repubblica di Weimar frustrarono ogni ipotesi di “ritorno”. Le cose cambiarono con l’avvento al potere del Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi, i cui sostenitori si diffusero massicciamente in tutti i territori irredenti del Reich.

Anche a Danzig (95% di popolazione di origine germanica) i nazionalsocialisti ottennero la maggioranza e si schierarono compattamente per il ritorno alla Madre Patria. Nel 1938, un referendum condotto sotto controllo di osservatori neutrali della Confederazione Elvetica confermò in maniera schiacciante – se ce ne fosse stato il bisogno – il desidero della città tedesca di riunirsi al Reich.

Danzig irredenta per i Germanici divenne un simbolo, come Trieste irredenta lo era stata per gli Italiani.

Ma Francia e Gran Bretagna, che ostacolavano il sorgere della potenza “concorrente”, fecero blocco e si schierarono nettamente contro ogni mutamento dei confini imposti alla Germania dal Trattato di Versaglia.

download

Nell’ottobre 1938, Hitler chiese palesemente alla Polonia la restituzione di Danzig, ma il Governo polacco, nel timore di perdere il suo unico accesso al mare e forte dell’appoggio internazionale, rifiutò sdegnosamente tutte le offerte germaniche. Le reiterate proposte tedesche e i continui rifiuti del Governo polacco fecero comprendere che per salvaguardare i diritti del popolo di Danzig l’unica soluzione doveva essere affidata alle armi.

Nell’agosto 1939, il Reich concluse un patto di non aggressione con l’Unione Sovietica, il cui obiettivo era quello di neutralizzare il forte esercito della Polonia con un duplice attacco: da oriente e da occidente. L’URSS, come pegno per il suo intervento, si assicurava addirittura i 2/3 dell’intero territorio polacco!

Il Governo della Polonia, consapevole della situazione, ma ancora sicuro di poter giocare le sue carte, proclamò la mobilitazione generale, respingendo anche l’ultima “ragionevole proposta” – come venne definita dalla Gran Bretagna – della Germania. Stanche di pazientare e provocate dall’atteggiamento intransigente dei Polacchi, il 1° settembre, le Divisioni tedesche e un contingente della Repubblica Slovacca attaccarono.

343097460-corridoio-di-danzica-campagna-di-polonia-guerra-di-annientamento-carta

Il 3 settembre 1939, Francia e Gran Bretagna utilizzarono questo conflitto “locale” per dichiarare guerra alla Germania, sapendo benissimo di scatenare una guerra mondiale.

Le alte probabilità che nel conflitto potesse essere coinvolta anche l’Italia – legata al Reich dal Patto di Acciaio – fanno ipotizzare che i due Imperi francesi e britannico volessero liquidare non solo la potenza continentale tedesca, ma anche quella italiana, la cui espansione marittima nel Mediterraneo e coloniale in Africa turbavano e irritavano le diplomazie dei due Governi democratici. Del resto, Francia e Gran Bretagna decisero di attaccare solo la Germania e non l’URSS le cui Armate, dal 17 settembre, “scorazzavano allegramente” in territorio polacco.

Che la “difesa” della Polonia fosse stata solo un pretesto per scatenare una guerra mondiale in funzione anti-germanica e anti-italiana è dimostrato dal fatto che, quando l’URSS richiese formalmente di inghiottire nella sua zona di influenza tutta l’Europa orientale – compresa la Polonia – le “candide vestali” della democrazia britannica e francese accondiscesero al progetto, tradendo altresì i soldati dell’Armata polacca che combattevano valorosamente al loro fianco in Italia nella speranza di tornare un giorno nella loro Polonia, libera da ogni straniero.

La Seconda Guerra Mondiale arriverà ben presto a coinvolgere il Giappone, che nella sua espansione stava travolgendo gli interessi franco-britannici in Asia. Si ricordi che l’Impero del Sol Levante era in guerra “locale” con la Cina fin dal 7 luglio 1937. Strano che anche questa data non venga utilizzata come data di inizio del Secondo conflitto…

Francia e Gran Bretagna fecero molto male i loro conti. L’esercito francese – il più forte del mondo nel 1940 – venne travolto dalle Divisioni corazzate del Reich con una rapidità impressionante, mentre quello inglese – che vantava la Marina da guerra più forte del mondo – dovette ben presto chiedere aiuto ai “cugini” statunitensi. L’entrata in guerra degli USA – che da tempo aspiravano a un conflitto mondiale per far rientrare la crisi decennale, per eliminare la minaccia giapponese e imporsi come Stato-guida – determinò la svolta. A essere travolte dallo schiacciante strapotere statunitense, però, non furono solo le Armate dell’Asse, ma anche i sogni di gloria britannici (quelli francesi, orami, erano sepolti da un pezzo).

L’Inghilterra si troverà così a vincere una guerra sapendo di averla persa politicamente. Questo declinò porterà con sé il crollo dell’intera Europa, oggetto della duplice occupazione sovietico-americana. Quell’occupazione a cui ancor oggi è costretta e che ha la sua chiara espressione nelle centinaia di basi militari statunitensi sparse in tutto il Vecchio Continente e nella farsa delle guerre “umanitarie” per l’“esportazione della democrazia”.

Pietro Cappellari

FONTE CAMPOMARZIO19

Disinformazione putrida – Fabrizio Belloni

$
0
0

dittatura_del_pensiero_unico

I MEDIA SONO IL BRACCIO ARMATO DELLA CASTA. Non tutti, ma quasi. Quei pochi che tentano di reagire agli ordini subiscono attacchi subdoli: ad esempio con riduzione della pubblicità, linfa vitale in un sistema materialista e consumista. E minaccia di riduzione del numero delle “frequenze”, per gradire.

Ad altri viene concessa una parvenza di indipendenza contestatrice, che funziona come la valvola di sicurezza di una pentola a pressione: evita lo scoppio. Pochi, e quasi sempre a titolo personale, si addentrano nella stupenda, affascinante foresta della verità, sempre scomoda e dirompente.

Nei giorni scorsi tutti i media hanno campato con la foto di quel piccolo, povero bambino con i pantaloncini rossi, affogato. Solo una zucca piena di liquame di fogna non ha provato una umana afflizione e commozione.

Allora cosa non quadra?

Non quadra la motivazione che ha spinto i media, sciacalli e iene servili, a bombardare quotidianamente la gente con l’immagine macabra. Dare la notizia è doveroso, in un sistema che si autodefinisce libero. Ripeterla oltre il limite nasconde l’obbiettivo di intenerire la gente per far passare in modo subliminale il concetto che clandestino-invasore è cosa bella, da accettare e sostenere. La foto è stata un inaspettato aiuto ai poteri forti. Ci torneremo. Mi sarebbe piaciuto assistere ad una stessa campagna anche per i bambini palestinesi bruciati vivi da coloni ebrei. Oppure a bambini di Gaza colpiti dai proiettili al fosforo bianco sparati dall’esercito israeliano, fosforo che ha il vizio di continuare a bruciare dentro il corpo colpito.

Invece niente.

Altra notizia che è stata passata velocemente, troppo velocemente: Putin ha detto una verità assai scomoda. Ha affermato a chiare lettere che tutto il problema, la tragedia dell’invasione è cominciato ed è cresciuto dopo lo scoppio della guerra civile in Siria.

E parliamone un po’. In Siria è al potere Assad, figio ed erede carismatico del fondatore del partito Baath. Tale partito è chiaramente un partito Nazional Socialista (come lo era Saddam Hussein, del resto). Insopportabile da Israele e dai loro “servi-padroni” americani. La cosiddetta guerra civile in Siria è una bufala. In Siria contro Assad combattono per lo più mercenari di almeno venti (20) Paesi diversi, armati e foraggiati da USA, Inghilterra, Francia, Israele. Il problema è che la Russia ha in Siria una base navale ed un’altra la sta aprendo, per la propria Marina Militare. Ed Assad sta vincendo,alla faccia dei mercenari. Quindi dalla Siria il marasma è stato spostato anche in Iraq, altro Paese distrutto e smembrato per le stesse identiche ragioni. Nasce l’isis, se dicente califfato, armato dagli yankee, rifornito di miliardi di dollari dal contrabbando di petrolio con le sette sorelle, di forza militare trascurabile ed irrilevante, con ferocia sanguinaria come unica arma. Ha ragione Putin, ma i media sorvolano, con bavosa sottomissione.

La Turchia gioca sporco. Vorrebbe entrare in Europa ma la Germania si oppone. Allora tiene i confini aperti e favorisce l’invasione che poi dirotta sulla Grecia e sull’Italia, le viscere molli dell’Europa (il bimbo morto affogato era su una costa turca, per la precisione). Ubbidisce al padrone militare Nato-Usa. Lo scopo è come sempre la destabilizzazione dell’Europa.

La Germania dice che accetta profughi. Altri Paesi la seguono. I media ciurlano nel manico. Parlano di “profughi” non di clandestini. Ed i profughi riconosciuti come tali sono il 10% dell’invasione. E per lo più sono siriani, acculturati, medio ceto. Non clandestini-invasori dell’Africa sub sahariana. L’esatta chiarificazione non appare sui media, oppure in modo trascurabile.

Nessun media analizza con le proprie teste d’uovo, con i radical chic tra una sniffata ed un ovetto di quaglia, la Storia, che è sempre stata fatta dalla forza, dalla conquista, dalla sopraffazione. Mai, mai è stata fatta dalla sottomissione, dal buonismo, dalla solidarietà. Sono anti realtà scientifiche, buone solo per i giochetti verbali “democratici” di piccoli uomini che hanno barattato le palle con la possibilità di rubacchiare qua e là. Esattamente come un servo strisciante.

Gli schermi sono pieni di calcio e di donnine sempre più nude. Mi piace il calcio e amo le donne, vestite o no. Ma i media usano i due mezzi di cui sopra per riempire di fumo la testa della gente. E purtroppo non c’è più un Guareschi che si inventò la terza narice per far defluire i fumi dalla testa. Informazione? Ma dove? Ma quando? Ma fatta da chi? Il mondo ci colloca al 74° posto, dopo il Burundi.

Tentano di farci addormentare coscienza e comprensione di sé. Vorrebbero ridurci ad amebe grigi, solo tubi consumanti e digerenti. E se qualcuno chiede anche solo perché, immediata scatta la accusa: Fascista! Nazista! Attenzione: proprio con questo comportamento stanno facendo riaffiorare un’Idea, un’Ideale mai morto, solo sepolto nell’intimo. Fascista? Nazista? Aumenteranno in modo inarrestabile.

L’Europa si sta svegliando.

Domenica 6 settembre 2015.

Il passaggio del testimone – Fabio Calabrese

$
0
0

Valli-Gozzoli

Nessuna cosa umana e nessuna vita d'uomo è destinata a durare per sempre. Purtroppo non ci stupisce di certo il fatto che il trascorrere del tempo lasci nelle nostre file vuoti difficili da colmare; quello che è sorprendente, è forse piuttosto il fatto che a settant'anni dalla VITTORIA DEL MALE nella seconda guerra mondiale, nonostante l'ininterrotto lavaggio del cervello mediatico, le continue discriminazioni, ghettizzazioni, demonizzazioni, esistano ancora oppositori al dominio cui sono stati sottoposti i popoli europei, e oppositori che costituiscono forse una pattuglia più coriacea, più agguerrita, più consapevole di quel che si potrebbe pensare. Tuttavia, ogni passaggio del testimone fra coloro che sono andati oltre e coloro che continuano la loro strada, rende più gravoso e impegnativo il compito di chi resta, ma noi sappiamo che esiste davvero un solo modo per onorare quelli che ci hanno preceduti: continuare la loro lotta e il loro impegno. Negli ultimi tempi abbiamo dovuto registrare la scomparsa di due intellettuali importanti della nostra area a breve distanza l'uno dall'altro: Gianantonio Valli e Sergio Gozzoli. Proprio in occasione della scomparsa di Gianantonio Valli, è circolato in internet un suo bellissimo brano che vorrei ora riprendere e invitarvi a meditare su di esso: “Oggi ci troviamo in un deserto. Siamo ai bordi di un deserto che va attraversato. Non ha senso negare il deserto, credersi in terra grata, fantasticare di poterlo aggirare o sperare che il tempo lo muti in eden. E' un deserto. Sappiamo però che il deserto, del quale non vediamo oggi i confini, prima o poi finirà. E se non finisse, avremo almeno dato senso alla vita. Sappiamo che, non ora, ci saranno tempo e modo per ricostruire una città, rifondare una civiltà. Non ora. Nel deserto non si costruisce. Mancano le condizioni elementari. Mancano i materiali, l'acqua, i rifornimenti. Il vento ti sferza la faccia, la sabbia ti acceca, i miraggi t'ingannano, imperversano predoni, operano assassini, i tuoi compagni, e tu stesso, sono soggetti ad umani cedimenti. Nel deserto si può solo andare avanti, senza sperare di costruire. Si può solo cercare un riparo quale che sia, perché cala la notte e nell'incerto mattino riprende la marcia. Sempre vigili, in guardia, ringraziando gli Dei per quelle poche oasi, per quella poca acqua. E magari anche il Sistema, che nella sua infinita bontà non ti ha ancora tolto l'aria per respirare. Nello zaino c'è quanto hai potuto salvare. C'è quello in cui credi, la tua vita. Che va portata al di là del deserto. Altri uomini, generazioni, individui sconosciuti, gente che mai vedrai, neppure i tuoi figli, verranno. La storia lo insegna, anime simili alla tua, segmenti su una stessa retta, fedeli agli stessi Dei. Ne nasceranno ancora. Ne sono sempre nati. Ciò che è certo, è che l'Estremo Conflitto fu disfatta totale. Totale per la generazione che lo ha combattuto, per i milioni di morti, i milioni di sopravvissuti e avviliti, per la nostra generazione, per quella dopo di noi. Catastrofi seguiranno fra qualche decennio, anarchia e rovine per altri decenni, crollo di ogni istituto civile. Ma qualcuno ci sarà. A raccogliere, ad aprire lo zaino...”. Forse non è una circostanza casuale che Gianantonio Valli e Sergio Gozzoli fossero entrambi dei medici, così come un medico è il francese N. C. Doyto, definito dal nostro Gianfranco Drioli “lo sconosciuto Gobineau del XX secolo”. Il fatto è che la medicina porta a contatto con la realtà fisica e biologica dell'essere umano, e questo ci porta, a mio parere, a delle considerazioni estremamente importanti: per un lunghissimo tempo si è preteso che la “concezione scientifica” fosse a sinistra, e questo metteva gli avversari di democrazia e marxismo in una condizione di inferiorità, a reagire issando la bandiera di spiritualismi poco credibili, a giocare con le regole del nemico, cosa che portava inevitabilmente alla sconfitta. Bene, ora siamo in grado di capire che le credenziali “scientifiche” di illuminismo, democrazia e marxismo sono false, sono delle patacche: la favola rousseauiana del “buon selvaggio”, una mal compresa dialettica hegeliana applicata ai fenomeni sociali, le ciarlatanerie pseudo-scientifiche del tutto fasulle della psicanalisi di Sigmund Freud e dell'antropologia culturale di Claude Levi-Strauss, l'altra favola anch'essa non suffragata da uno straccio di prova, dell'Out of Africa. La vera scienza, la reale conoscenza dell'essere umano come realtà fisica e biologica, punta in tutt'altre direzioni. Gianantonio Valli era un medico condotto o, come si dice oggi, “di base”, molto stimato dai suoi pazienti per la dedizione che metteva nel suo lavoro, una stima e una considerazione che più di una volta gli hanno offerto una certa protezione dalle ire del sistema democratico antifascista, dove la libertà di opinione è solo una bugiarda astrazione, o meglio, esiste solo per le opinioni consentite dal sistema stesso. Era anche un uomo dotato di una cultura vastissima, e che si era dedicato soprattutto a due aree tematiche: lo sbugiardamento della mitologia olocaustica, vera religione dei nostri tempi IMPOSTA per giustificare l'oppressione che i vincitori del secondo conflitto mondiale esercitano da settant'anni sull'Europa. Holocaustica religio, non a caso, è il titolo dell'opera più vasta di Valli, dove non soltanto si dimostra l'inconsistenza della leggenda olocaustica, ma si evidenzia come essa sia diventata il mito fondante, il principale articolo di fede di una vera e propria religione intesa a imporre i dogmi della democrazia, dell'antirazzismo, dell'intoccabilità degli ebrei qualunque cosa facciano, del presunto dovere degli Europei di accettare a titolo espiatorio la permanente dominazione israelo-americana. L'altra tematica importante è la critica del monoteismo. Da questo punto di vista, vorrei ricordare l'eccellente saggio Origine del monoteismo e sue conseguenze in Europa, scritto in collaborazione con Silvano Lorenzoni di cui era amico. Il monoteismo, o meglio i monoteismi (ebraismo, cristianesimo, islam) rappresenta/rappresentano la patologia del fenomeno religioso. Il fatto di credere in un unico Dio è in sé patologico perché porta all'intolleranza verso tutti gli altri credo, e verso le istituzioni umane e civili e le manifestazioni culturali non assimilabili ai portatori della “vera fede”, ma è ancor più patologico il fatto che questo Dio “unico e universale” sia stato identificato con la divinità totemica-tribale di una barbara tribù del Medio Oriente. Questo non ha portato solo alla contaminazione, all'inquinamento della cultura europea con un elemento ad essa estraneo, ma a un'ondata di rozzezza e di regresso culturale di cui la civiltà antica ha fatto le spese, aprendo la porta ai “secoli bui”. Probabilmente, lo scritto più conosciuto di Sergio Gozzoli è L'incolmabile fossato, un ampio saggio pubblicato ormai una trentina di anni or sono su “L'uomo libero”, rivista di cui è stato tra i fondatori. L'incolmabile fossato è quello che separa l'Europa dagli Stati Uniti. Da una parte il nostro continente, terra della tradizione, dall'altra l'America interamente plagiata dall'ingannevole utopia del progresso. Un uomo europeo NORMALE, anche quando si dichiara, è convinto di essere progressista, in realtà ha una percezione viva della continuità con i propri antenati, ha attorno a sé nella sua vita quotidiana le testimonianze viventi del passato rappresentate dallo scenario della sua vita quotidiana: i monumenti, le piazze, le strade, lo stesso paesaggio naturale modellato dall'intervento secolare della mano dell'uomo. Tutto questo per uno yankee cresciuto in un ambiente artificiale fatto di plastica, cemento, luci al neon E NIENTE ALTRO, semplicemente non esiste. L'altra radicale differenza fra Europa e America riguarda, più che il dominio della politica, gli elementi della concezione di base della politica stessa. Nella visione NATURALE della politica dell'uomo europeo, la nazione come dato biologico, come comunità e continuità di sangue, precede lo stato come fatto giuridico e amministrativo; lo stato stesso dovrebbe essere la forma della sostanza-nazione: “natio” viene da “nasco” e l'appartenenza al medesimo sangue, la continuità con gli stessi antenati, è l'elemento essenziale. La società yankee è per definizione una società ibrida, multietnica, ed è una società di sradicati privi di memoria storica dove è già tanto se qualcuno si ricorda dei propri genitori, tanto meno degli antenati di generazioni precedenti. D'altra parte, a conoscerla bene, ci rivela Gozzoli, costituisce la più chiara dimostrazione dell'indesiderabilità di un mondo cosmopolita, perché i rapporti fra i diversi gruppi etnici sono improntati a un clima di latente ma costante, irrespirabile violenza. E' vero che la cultura americana deriva da quella europea, ma si tratta di una derivazione-contrapposizione, come l'ombra dalla luce. “E' proprio ciò che apparentemente unisce i due mondi, quel che in realtà più a fondo li divide: poiché ciò che l'America ricevette dall'Europa negli ultimi tre secoli, facendolo proprio e fondandovi sopra la sua filosofia di vita, è esattamente tutto quello che, pur nato in Europa, l'Europa rifiutava e rigettava. Quello che doveva costituire l'anima stessa del «mondo americano», era proprio tutto ciò che la vecchia Europa «scartava», per una radicale inconciliabilità con la essenza profonda della sua anima civile e storica. Dal settarismo puritano e quacchero allo spirito capitalistico e mercantilistico, dal «mondo dei Lumi» alla massoneria, dall'ottimismo razionalistico all'odio per il Trono e per l'Altare, dall'individualismo al cosmopolitismo, dalle prime banche internazionali ai fermenti rivoluzionari borghesi, si trattava di idee, tensioni e movimenti che erano sì nati in Europa, ma ai quali l'Europa poteva opporre — allora e ancora per secoli — forze ben più consistenti: i valori di una civiltà legata al sangue e alla terra, il vigore delle varie culture popolari, l'autorità morale delle Chiese, il tradizionalismo gerarchico, lo spirito ghibellino e la residua vitalità della nobiltà militare, l'istinto di conservazione del mondo contadino, il senso nazionale, gli antichi miti eroici, l'epopea cavalleresca, i monumenti letterari e artistici della Classicità, del Medioevo, del Rinascimento. Non si può comprendere appieno la storia europea e mondiale del nostro secolo — con la apparizione dei movimenti fascisti e con gli interventi americani nei due grandi conflitti — se non ci si rende ben conto di questo: calvinismo, capitalismo bancario e industriale, razionalismo filosofico e illuminismo politico, Massoneria, Rivoluzione borghese, pur dopo grossi successi iniziali, furono sostanzialmente sconfitti — nel loro sogno di conquista totale dell'Europa — nel corso dei secoli XVII, XVIII e XIX. E se poterono continuare a coltivare questo loro sogno di vittoria finale, fu soltanto trasmigrando oltre Oceano”. Occorre anche considerare che queste cose Gozzoli le diceva in un'epoca di perdurante Guerra Fredda, quando in ragione – o con il pretesto – dell'anticomunismo, in ambienti “nostri” o sedicenti tali, un atteggiamento filo-americano era perlopiù visto come una scelta praticamente obbligata. C'è qualcuno che persiste ancora adesso; ebbene, se ne renda conto: “yankee” è precisamente il contrario di ciò che noi siamo, ancor più di “bolscevico”. Un altro importante contributo di Sergio Gozzoli, a mio parere, è l'articolo La rivincita della scienza, pubblicato sempre su “L'uomo libero”, in cui egli affronta una questione fondamentale: tutta la visione del mondo democratica, marxista, antirazzista, femminista e via dicendo, si basa su di una presunzione di scientificità che è smentita dai fatti. Per lungo tempo l'ideologia democratica e i suoi santoni sono riusciti a mettere il bavaglio e il guinzaglio alla ricerca scientifica, ma oggi la cosa risulta sempre più difficile. Gli sviluppi dell'etologia e della sociobiologia, soprattutto prendendo le mosse da quel grande che è stato Konrad Lorenz, hanno aperto una breccia sempre più difficile da chiudere nel muro delle falsificazioni democratiche. Essi dimostrano ad esempio che la guerra, il favorire il gruppo razziale a cui si è biologicamente legati, le differenze comportamentali tra uomo e donna, il patriottismo, la difesa dei confini e via dicendo, non sono, come la sinistra vorrebbe persuaderci, un'invenzione delle società storiche, a cui il “buon selvaggio” rousseauiano sarebbe stato beatamente estraneo, costituendo la prefigurazione di una società edenica a cui l'utopismo di sinistra, incontrandosi in questo con quello cristiano, vorrebbe farci tornare. No, sono radicati in noi a partire dall'istinto territoriale dei primati non umani. Purtroppo, la rivincita della scienza rimane parziale e potenziale perché alla democrazia rimane sempre “un argomento”. Dai commando delle femministe che aggrediscono i sociobiologi riuniti a convegno, alla censura delle pubblicazioni, alla distruzione delle carriere, al limite al carcere per i ricercatori troppo “spericolati”, la violenza e la repressione restano gli argomenti principali della democrazia, che però è costretta in tal modo a svelare il suo volto tirannico ordinariamente celato sotto la maschera buonista. Gli scritti di Sergio Gozzoli sono raccolti in un volume intitolato Le radici e il seme. Due uomini intelligenti e coraggiosi che sono andati oltre, passandoci un testimone particolarmente gravoso perché intelligenze così limpide e ardite non spuntano fuori a comando. Ci lasciano un vuoto non facile da riempire. Tuttavia noi sappiamo che continuare la loro battaglia intellettuale, cercando di mantenersi a un livello d'intelligenza non dissimile o quanto meno dissimile possibile dal loro, è il modo migliore per rendere loro onore. Riprendendo le parole di Gianantonio Valli, noi continuiamo la nostra marcia nel deserto, portando il nostro zaino sulle spalle.  

8 Settembre, l’Italia badogliana e l’Italia che non si arrese

$
0
0

La-firma-a-Cassibile-1000x600-1000x500

Articolo a cura di Nicole Ledda dell’Associazione culturale Zenit

«Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.» Sono le ore 19 e 42 dell’otto settembre 1943, quando con queste parole, pietro badoglio (il minuscolo è voluto) è costretto ad annunciare ai microfoni dell’EIAR, la resa alle truppe angloamericane, rendendo noto l’armistizio di Cassibile, datato tre settembre. L’Italia è ancora alleata della Germania e il coraggioso maresciallo, vogliate perdonarci l’ironia, è ben cosciente di ciò, motivo per cui cerca di tergiversare. Gli alleati vogliono però che l’armistizio venga immediatamente reso pubblico e per mettere alle strette badoglio, utilizzano l’unico metodo che conoscono alla perfezione: le bombe. “ai serva Italia di dolore ostello”, bersaglio del piombo dei centotrenta B-17, sono dapprima le città di Viterbo e Civitavecchia, a seguire Napoli. Si dice “vedi Napoli e poi muori” ma pretendere dagli americani questa sensibilità è a dir poco utopico. Dal governo italiano non arrivano risposte ma il tempo messoci a disposizione è finito. E’ la voce del Generale Eisenhower ad annunciare la resa dai canali di Radio Algeri. Per tutta la Penisola è il delirio. Al sud Italia sbarcano i “conquistatori”, mentre i vertici militari, la famiglia reale e il capo del governo, fuggono da Roma, dapprima verso Pescara e poi verso Brindisi, lasciando l’esercito allo sbando e senza direttive. Al nord le truppe tedesche danno luogo all’operazione ACHSE (asse) con l’intento di occupare tutto il suolo Italiano: è una corsa contro il tempo. Qui si fa la storia è il caso di dirlo, è il punto di non ritorno e ambo gli schieramenti ne sono consapevoli. La sempre eterna battaglia del Sangue contro l’oro, la civiltà che sfida il nulla imperante che avanza, lo spirito che si scaglia contro gli interessi, il sogno imperiale che assalta il colonialismo più bieco e mondialista.

Barricate contro l’invasore da subito padrone in casa nostra, barricate contro chi è entrato massacrando i nostri uomini e violentando le nostre donne, perlopiù le nostre bambine. Come non ricordare le rappresaglie che vedevano il rapporto di uno a cinquanta uomini, in caso venisse toccato un soldato alleato? Vergogniamoci! Abbiamo permesso che queste bestie vengano considerate eroi, i valorosi liberatori. Ci vuole coraggio per non salire sul carro dei vincitori ormai in marcia da settant’anni. Incazziamoci! Affinché la storia si ricordi che i nostri eroi son ben altri. Per non cedere ai colpi in pieno volto e sotto la cinta del pensiero unico dominante, scaviamo idealmente le nostre trincee in cui asserragliarsi quando ci sembrerà inutile credere, quando ci sentiremo più soli e persi, poiché questo è il nostro appuntamento con la storia, è la nostra battaglia e non è ancora persa.

Un dovere. Per le generazioni future e per chi ci ha preceduto; per le oltre diecimila vittime civili di bombe e rappresaglie; per chi è stato mutilato, vessato, stuprato; per chi è stato costretto ad avere paura e per chi ha avuto coraggio e ardore. Per tutti quegli uomini e quelle donne, non solo dimenticati dalla storia, ma la cui memoria è stata addirittura infangata. Per i seicento giorni d’onore d’Italia, parafrasando il motto della Repubblica Sociale; per l’ambizioso e rivoluzionario progetto voluto con i Diciotto Punti di Verona; per Alessandro Pavolini che pur potendo non fugge e va a cercare la bella morte; per le brigate nere; per quei patrioti che si arruolano volontariamente, con il sorriso, spavaldi come solo gli adolescenti quali erano, sanno essere. Per Renato Ricci e la Milizia Volontaria della Sicurezza Nazionale; per Borghese ma soprattutto per la Decima MAS, che si distinse più di ogni altro reparto. E ancora per le guerriere della SAF (servizio ausiliario femminile) esempio di ferrea volontà, sconvolgente amor di Patria, dedizione ed abnegazione, guidate da Piera Gatteschi Fondelli un nome sconosciuto ai più e ricordiamole, belle da togliere il fiato, soprattutto per il loro operato lungo la linea Gotica e ad Anzio e Nettuno. Troppo poche queste righe per poter rendere onore alla grandezza di quel sogno Italiano, distrutto quel giorno di settembre; troppo poche queste parole per rendere omaggio tutti coloro che per provare a consegnarci un futuro dignitoso hanno lottato e sacrificato la propria vita. Molta è invece l’amarezza, molto il senso di disonore, ma finché saremmo disposti a raccontare la nostra storia, la battaglia del sangue contro l’oro e contro loro, non vedrà il suo epilogo.

Lasciamo la conclusione di questo pezzo che non ha pretese, alle parole di Giuseppe Solaro, l’ultimo federale, raccolte in un bigliettino per la moglie, scritto prima di essere impiccato e gettato nel Po: “Cara Tina, prima di morire ti esprimo tutto il mio amore e la mia devozione. Sono stato onesto tutta la vita e onesto muoio per un’Idea. Che essa aiuti l’Italia sulla via della redenzione e della ricostruzione. Ricordami ed amami, come io ho sempre amato l’Italia. Cara Tina, Viva l’ Italia libera! Viva il Duce! “

Il 18 Settembre 1943 nasceva la Repubblica Sociale Italiana. Le Brigate Nere di Alessandro Pavolini ne saranno l’anima popolare, idealistica e rivoluzionaria – Maurizio Rossi

$
0
0

duce e pavolini

La rilettura storica dell’esperienza della Repubblica Sociale Italiana – la cui nascita venne annunciata da Benito Mussolini il 18 Settembre 1943 dai microfoni di Radio Monaco – si è, spesso e volentieri, intersecata con le vicende umane, politiche e combattentistiche delle sue formazioni militari o paramilitari. La cui esistenza permise alla giovane Repubblica di sopravvivere, resistere e anche di potersi affermare, nei limiti del possibile, sul terreno militare.

Purtroppo, non sempre le vicissitudini individuali hanno potuto rappresentare con efficacia una esauriente chiave di lettura, tantomeno le motivazioni di ordine interiore, per quanto logiche e anche sinceramente animate da un generoso entusiasmo giovanile, sono riuscite ad evidenziare la complessa e drammatica vicenda storica e politica dell’ultima “creazione” di Mussolini.

Emerse negli anni del dopoguerra una lettura fortemente “spoliticizzata”, a tutt’oggi imperante, tendente a porre soprattutto in evidenza, in maniera del tutto esclusivistica, la scelta di natura patriottica dettata dalla, certamente più che nobile, motivazione dell’esigenza di salvaguardare, a qualsiasi costo, l’Onore nazionale tradito e lo schieramento di campo a fianco dell’alleato germanico dall’umiliazione e dalla vergogna del tradimento consumato dai Savoia e dalle alte gerarchie militari.

Una apologetica lettura apolitica che celebrava l’eroismo e il sacrificio dei volontari, ma quasi del tutto disinteressata – forse anche imbarazzata – nei confronti delle motivazioni politico-culturali che costituirono la sostanza della RSI e la radice del Fascismo repubblicano. Quasi si volesse arrivare ad una sostanziale de-fascistizzazione del fenomeno del volontariato, affinché i giovani soldati “repubblichini” potessero essere considerati – ovviamente dai vincitori – unicamente come dei soldati qualunque, privi di una etichettatura politica infamante, seppure vestiti con una diversa uniforme e appartenenti al campo avverso.

Purtroppo, ciò avvenne spesso a detrimento di coloro – che furono tanti – che della scelta di adesione alla Repubblica fascista privilegiarono la battaglia politica, lo sforzo decisivo per dare un senso compiuto al processo rivoluzionario fascista, la volontà di chiudere i conti con i “guasti” e gli orpelli del Ventennio e aprire un nuovo e vittorioso capitolo per l’Italia e per l’Europa. Necessariamente a fianco della Germania e della sua rivoluzione, che proprio in quegli anni manifestava apertamente il suo più autentico volto europeista e socialista e la comprensibile volontà di porsi come guida ordinatrice della realtà continentale europea.

Lo stesso Drieu La Rochelle, interpretando le aspettative e le ansie degli ambienti collaborazionisti francesi, riterrà opportuno premere sull’acceleratore della chiarificazione politica nei rapporti con la Germania: “Vi sarà un’egemonia come sempre vi è stata, ma più rigorosa. In quanto sarà chiaramente impossibile tornare alle piccole autonomie nazionali ed alle frontiere economiche. Ci vorrà una grande autorità, per nutrire trecento milioni di uomini affamati e stanchi, per organizzare l’autarchia africana, per organizzare il Socialismo continentale.” Parole nette, lucide e chiare che volevano cancellare qualsiasi eventuale dubbio sull’inevitabile ruolo di baricentro e di guida politica che sarebbe stato svolto dalla Germania nazionalsocialista nell’organizzazione della nuova Europa.

Pertanto, la memorialistica reducistica degli ex combattenti – per sua intima valenza consapevolmente impolitica – si fermerà ad un guado controverso, oltre il quale si poneva la consistenza squisitamente politica della RSI, la figura di Benito Mussolini, probabilmente la più autentica fra quelle consegnateci dalla storia e il consequenziale fenomeno delle Brigate Nere, corpo politico-militare per eccellenza e dichiaratamente fascista.

Fin dalla proclamazione della RSI, e ancor da prima, alla notizia della liberazione di Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso, si costituirono spontaneamente, in varie località del centro-nord, formazioni politiche armate denominatesi, guarda caso, proprio “Squadre d’Azione”; esse costituirono i primi fermenti organizzativi dei fascisti che non avevano mai cessato di essere tali, decisi a fronteggiare con decisione – che potremmo definire quadristica – la drammaticità degli eventi in corso.

Sembrava giunto il momento tanto atteso del riscatto e forse anche dei tanti conti in sospeso da saldare, una volta per tutte.

Ovviamente rappresentarono l’incubazione embrionale naturale e funzionale per il successivo radicamento territoriale del Partito Fascista Repubblicano, prontamente organizzato da Alessandro Pavolini con instancabile dedizione. L’ex ministro del Minculpop del Ventennio, uomo di rara intelligenza e di ancor più vasta cultura, fu uno dei pochi “gerarchi” famosi che si schierò prontamente al fianco del Duce nell’avventura repubblicana in cui sinceramente credette e nella quale riponeva le migliori speranze per una radicale rigenerazione del Fascismo.

Nella persona di Alessandro Pavolini si giunse così all’identificazione totale tra radicalismo politico-sociale ed intransigenza etica, tra un assoluto rigore morale e una bruciante passione idealistica. La stessa tenuta retta e dignitosa manifestata di fronte al plotone di esecuzione partigiano ce ne lascia ampia testimonianza.

Fu proprio Pavolini, in qualità di segretario del PFR, a volere la nascita del Corpo Ausiliario delle Squadre d’Azione delle CC.NN. come effetto della militarizzazione dei compiti politici del Partito, le federazioni del partito si trasformeranno in Brigate e si fregeranno del nome di un caduto per la causa fascista, non si useranno gradi ma si evidenzieranno unicamente le funzioni di comando, la stessa strutturazione interna sarà innovativa e funzionale alle circostanze e ricorderà molto quella dei Freikorps dell’epopea del Baltikum e non casualmente il capolavoro di Ernst Von Salomon I Proscritti accompagnerà, nel tascapane, molti squadristi delle Brigate Nere.

Il partito-combattente, il partito-armato del Fascismo repubblicano era nato. Gli intransigenti porta-spada dei 18 punti del Manifesto di Verona avrebbero fatto sentire la loro voce e tutti l’avrebbero sentita.

L’ufficializzazione avverrà con il Decreto Legislativo del Duce del 30/6/1944 e scatenerà numerose polemiche fra gli organismi politico-amministrativi della RSI.

In maniera particolare prevarranno le animosità contrariate del maresciallo Graziani, comandante dello Stato Maggiore dell’Esercito repubblicano, del principe Junio Valerio Borghese, il carismatico comandante della X MAS e di Renato Ricci comandante della GNR.

Il primo, assertore di una presunta indispensabilità apolitica delle forze armate e di un necessario ammorbidimento del tono fascistizzante della Repubblica, non poteva che avversare chi rimarcava invece la natura squisitamente fascista dello Stato repubblicano e la conseguente supremazia del principio politico anche in campo militare; il secondo ponendosi sulla falsa riga di Graziani vi aggiungeva inoltre la propria natura di “battitore libero”, una “vocazione guerriera” di stampo rinascimentale di cavaliere di ventura, una personalità avulsa da qualsiasi tipo di pressione o di condizionamento, anche se proveniente da Mussolini in persona, tanto meno da parte delle gerarchie politiche di un partito di cui non aveva nemmeno la tessera e della cui esistenza avrebbe fatto volentieri a meno; infine il terzo, Renato Ricci, che vedeva nelle Brigate Nere uno scomodo concorrente per la sua GNR., che fino ad allora si premurava di presentare come l’unico corpo “fascista” della RSI, in virtù del fatto che era sorta dalla fusione di ciò che rimaneva della Milizia con i Carabinieri e con la PAI – la Polizia Africa Italiana – in realtà un connubio poco proficuo e ancor meno felice, visto che il grosso dei Carabinieri gradualmente diserterà o verrà deportato in Germania, riducendo di fatto l’organico e l’efficacia dei presidi territoriali gestiti dalla Guardia Nazionale Repubblicana.

Nonostante tutto questo e con l’incondizionato favore di Mussolini, le Brigate Nere incominceranno speditamente la loro marcia, quella che Alessandro Pavolini definirà la marcia della Repubblica Sociale contro la Vandea monarchica, reazionaria e bolscevica, riprendendo quanto aveva detto Mussolini nel corso di un suo discorso del 27/10/1930: “Odio controrivoluzionario; odio di reazionari; odio di conservatori, che ci onora e ci esalta; è la Vandea universale, liberale, democratica, massonica che teme per i suoi feticci, che vede crollare i suoi altari, che sente smascherare le sue mistificazioni. Noi lottiamo contro un mondo al declino, ma ancora potente perché rappresenta una enorme cristallizzazione di interessi”.

Il segretario del Partito aveva in mente un modello da utilizzare come metro di paragone e come analogia: il soldato politico delle Waffen SS, il combattente politico della guerra di Weltanschauung continentale; e ancor di più aveva ben chiaro le finalità che dovevano animare i suoi squadristi: combattere tenacemente il nemico interno, fronteggiare l’invasione anglo-americana, legarsi politicamente ancor più saldamente al popolo e conseguire i frutti rivoluzionari di una guerra fascista portata fino in fondo, fino alle estreme conseguenze.

In linea con quanto disse il Duce a Milano nel 1944 agli squadristi della Brigata Nera Aldo Resega: “A chi ci domanda: che cosa volete? Rispondiamo con tre parole nelle quali si riassume il nostro programma. Eccole: Italia, Repubblica, Socializzazione. Italia, per noi nemici del patriottismo generico, concordatario e in fondo alibista, quindi inclinante al compromesso e forse alla defezione, Italia significa onore e onore significa fede alla parola data. La nostra Italia è repubblicana. Esiste al nord dell’Appennino la Repubblica Sociale Italiana. E questa repubblica sarà difesa palmo a palmo, sino all’ultima provincia, sino all’ultimo villaggio, sino all’ultimo casolare. Quali siano le vicende della guerra sul nostro territorio, l’idea della Repubblica, fondata dal Fascismo è entrata nello spirito e nel costume del popolo. La terza parola del programma, Socializzazione, non può essere considerata che la conseguenza delle prime due: Italia e Repubblica. La Socializzazione altro non è che la realizzazione italiana, umana, nostra effettuabile del Socialismo. Con questo noi vogliamo evocare sulla scena politica gli elementi migliori del popolo lavoratore. Poiché il più grande massacro di tutti i tempi ha un nome – Democrazia – sotto la quale parola si nasconde la voracità del Capitalismo giudaico che vuole realizzare attraverso la strage degli uomini e la catastrofe della Civiltà lo scientifico sfruttamento del Mondo”.

Quando furono ufficialmente costituite le Brigate Nere, nella loro qualità di organo militarizzato del PFR, si produsse un evento politico concreto, espressione di una politica rivoluzionaria applicata dove quella vocazione popolare e idealistica che erano state alla base del Fascismo delle origini e dell’epopea quadristica tornavano prepotentemente in auge, ma ancor di più motivate e decise nei toni, innalzando all’ennesima potenza il suo carattere di élite rivoluzionaria che nata dal popolo andava verso il popolo.

Non erano stati francamente numerosi i casi in cui il Fascismo, durante il regime, aveva prodotto misure di rottura netta ed inequivocabile con le istituzioni precedenti.

Di prove in senso contrario, piuttosto, se ne ebbero in abbondanza. Basterebbe solamente pensare al caso della MVSN, la milizia fascista, che venne costretta ad essere inquadrata nei ranghi dell’esercito regio e con tanto di giuramento di fedeltà alla monarchia, cosa che creò non poche inquietudini a numerosi fascisti, consapevoli che quella operazione di vertice andava a neutralizzare il potenziale politico della stessa, abolendone l’autonomia e minandone di fatto la fedeltà al regime fascista.

Non a caso dopo i fatti del 25 Luglio, il crollo del regime e l’arresto del Duce, la MVSN non costituì alcun problema per il nuovo governo di Badoglio.

La creazione delle Brigate Nere, cioè la militarizzazione del PFR, rappresentò invece uno dei segnali più visibili di un nuovo determinismo politico in corso d’opera.

Fu la risultante di una volontà comune che, partita dai luoghi dell’azione e dalle località dove la realtà della guerra civile era concreta esposizione quotidiana allo stillicidio, rimise in moto spontaneamente l’antica prassi squadristica del tonificare gli uomini, del fare fronte comune, del rispondere colpo su colpo al nemico.

Niente sarebbe rimasto più impunito.

Alessandro Pavolini, nella sua esemplare coerenza spinta fino al sacrificio ultimo, incarnerà la realizzazione di una volontà più che politica, pienamente ideologica, profondamente compenetrata spiritualmente con il Fascismo: una virile mistica della lotta e della rivoluzione. Una possente volontà che integralmente trasmetterà agli uomini delle Brigate Nere, perché la guerra contro il ribellismo delle bande partigiane era vera guerra rivoluzionaria, era esaltazione nietzschiana del superamento di ciò che ancora era troppo umano.

Storie di guerra, di sangue versato per nutrire la sacra terra della Repubblica. Storie di passione ideologica che non arretrava di fronte a niente, fino al consumarsi del sacrificio, perché non tutti avevano tradito. Quindi, Storia, Sangue e Onore di una Stirpe, quella fascista, che nella militanza nei ranghi delle Brigate Nere inquadrò il significato più intenso del Fascismo e della RSI.

Maurizio Rossi

Corsica e Italia 1^ parte – Luca Cancelliere

$
0
0

corsicaterraitaliana

 “CORSICA E ITALIA” – Parte I - Corsica e Italia fino al 1729.

Sin dai tempi proto-storici la Corsica, quarta isola del Mediterraneo dopo Sicilia, Sardegna e Cipro con i suoi 8.680 kmq, fu legata da una parte alla penisola italiana, dall’altra alla vicina isola di Sardegna. La prima grande civiltà corsa fu quella megalitica, apparsa nel IV millennio a.C. e legata, secondo Giovanni Lilliu, alla coeva sarda “Cultura di Ozieri”. Durante l’Età del Bronzo si diffuse la c.d. “Civiltà Torreana”, dal nome delle costruzioni tronco-coniche (“Torri”) simili ai Nuraghi sardi. Anche in questo caso, il legame con la coeva civiltà sardo-nuragica è palese.  Abitata da popolazioni liguri sin dal II millennio a.C., la Corsica entrò nella sfera d’influenza etrusca dopo la battaglia di Aleria del 535 a.C. e fu poi occupata dai Romani durante la Prima Guerra Punica (264-241 a.C.). Da allora e per due millenni, fatta salva la breve parentesi dell’occupazione vandalica (65 anni)a cavallo tra V e VI secolo d.C., la Corsica fu ininterrottamente legata alla penisola italiana.Essa fece parte del Regno d’Italia medievale, governato dai Re longobardi fino al 774 e parte del Sacro Romano Impero poi. In quest fase, vi fu una forte presenza in Corsica delle famiglie nobiliari italiane degli Obertenghi, dei Pallavicino e dei Malaspina. Dopo l’anno Mille si impose in Corsica la potenza marinara della Repubblica di Pisa (1073-1284). Infine, dopo la famosa Battaglia della Meloria (1284), iniziò il lunghissimo dominio della Repubblica di Genova (1284-1768). Genova instaurò un’occupazione permanente solo a partire dal 1374, a seguito del venir meno delle pretese aragonesi originate dalla bolla d’investitura di Bonifacio VIII. Già in epoca romana, l’isola aveva subito una profonda romanizzazione, in ragione soprattutto della distribuzione di terre a favore di legionari romani provenienti dalle attuali Sicilia e Calabria e della deduzione delle due colonie di Mariana e Aleria. Ma soprattutto il periodo pisano fu determinante nella costruzione dell’identità corsa come la conosciamo oggi. Il volgare toscano si impose incontrastato nella toponomastica, nell’onomastica (ancora oggi i cognomi corsi sono prevalentemente di origine toscana), nel canto popolare e nell’uso ufficiale dell’italiano come lingua dell’amministrazione e della Chiesa. L’idioma corso formatosi nel Medio Evo fu definito da Niccolò Tommaseo “Lingua possente, e de' più italiani dialetti d'Italia” e “Dialetto italiano più schietto e meno corrotto”. L’influsso pisano fu determinante anche in campo artistico e architettonico: il romanico pisano divenne lo stile architettonico tipico dell’isola. Dal XIII al XIX secolo, l’Ateneo di riferimento per i giovani Corsi che intendevano proseguire gli studi – anche dopo la conquista francese – fu l’Università di Pisa. Dal XIV secolo in poi, ebbe notevole importanza la “Guardia Corsa Papale”, un corpo militare pontificale composto da Corsi, poi sciolto nel 1662. Il governo dell’isola, a partire dalla fine del XV secolo, fu appaltato dalla Repubblica di Genova al “Banco di San Giorgio”, che sottomise la riottosa aristocrazia isolana e diede alla Corsica un assetto amministrativo definitivo con gli “Statuti civili e militari” del 1571, che affidavano l’isola al “Magistrato di Corsica” con sede a Genova e da un governatore residente coadiuvato dal “Consiglio dei dodici nobili”. I territori erano governati da luogotenenti e i villaggi da assemblee locali che nominavano i “padri del Comune”. Un ulteriore elemento che contribuì ad accentuare i legami tra Corsica e “terraferma” italiana fu il costante afflusso, durato per secoli fino all’inizio del Novecento, di immigrati dalla Toscana e soprattutto dalla Lunigiana e dalla Lucchesia. Ancora fino a pochi decenni fa, con il termine “Lucchesi” i Corsi erano soliti indicare nel loro complesso gli Italiani continentali. La costituzione, ad opera dei Genovesi, di nuove colonie di popolamento di immigrati liguri, come Bonifacio e Calvi, non pregiudicò la supremazia dell’influsso toscano sull’idioma corso. Di origine corsa è invece buona parte della popolazione della Sardegna settentrionale. La città di Sassari nel Medio Evo fu destinataria di flussi demografici corsi e toscani e l’idioma sassarese riflette la base corso-toscana (con apporti sardo-logudoresi e, in misura minore, liguri). Per quanto concerne la Gallura, è noto che dopo le guerre sardo-aragonesi del XIV e del XV secolo, quel territorio fu in buona parte ripopolato da Corsi, che vi impiantarono l’attuale idioma gallurese che può essere considerato una parlata a base corso-toscana affine al corso ultramontano. Molti Galluresi hanno poi compiuto in senso inverso il percorso dei loro antenati, emigrando in Corsica dalla Sardegna. Questo era il quadro linguistico, culturale e politico dell’isola alla vigilia della Rivoluzione Corsa del 1729.

  “CORSICA E ITALIA” – Parte II - La Rivoluzione Corsa (1729-1769).

Il notabilato rurale corso, che aveva maturato nelle assemblee locali del periodo genovese una non trascurabile esperienza politica e che costituiva un ceto dotato di una propria orgogliosa autocoscienza,fu il protagonista della lunga Rivoluzione Corsa, scoppiata nel 1729. La storiografia non è solita ricordare questo importante evento storico, che pure costituisce la prima delle “rivoluzioni borghesi” settecentesche e che è direttamente debitrice, se non addirittura anticipatrice, della cultura illuminista e riformatrice dell’epoca. L’insurrezione armata contro i Genovesi scaturì nel 1735 nella dichiarazione costituzionale di Corte, con la quale si proclamò l’indipendenza del “Regno di Corsica”. In questofoto lapide Corsica per libro su Nizza frangente la Corsica si dotò del suo attuale inno “Dio ti salvi Regina” scritto in lingua italiana dal pugliese Francesco De Geronimo. Successivamente all’intervento francese, richiesto dalla Repubblica di Genova che non era in grado di sedare la rivolta, e all’assassinio del capo insurrezionale Gian Piero Gaffori (1753), la Rivoluzione Corsa trovò un nuovo capo, Pasquale Paoli (1725-1807), nobile corso formatosi nell’ambiente illuminista napoletano di Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri, che nel 1755 fu proclamato “Generale della Nazione Corsa” e promulgò la “Costituzione di Corsica”, scritta in lingua italiana. Il carattere italiano della Corsica era per Pasquale Paoli fuori discussione: “Siamo Italiani per nascita e sentimenti, ma prima di tutto ci sentiamo italiani per lingua, costumi e tradizioni (…). E tutti gli italiani sono fratelli e solidali davanti alla Storia e davanti a Dio (…). Come Còrsi non vogliamo essere né servi e né "ribelli" e come italiani abbiamo il diritto di essere trattati uguale agli altri italiani (….). O non saremo nulla (…) O vinceremo con l'onore o moriremo con le armi in mano (…). La nostra guerra di liberazione è santa e giusta, come santo e giusto è il nome di Dio, e qui, nei nostri monti, spunterà per l'Italia il sole della libertà”.L’importanza che Pasquale Paoli annetteva al legame tra Italia e Corsica è rimarcata anche dal suo testamento del 1804: “Lascio cinquante lire sterline annue per il mantenimento di un abile maestro, che nel paese di Morosaglia, luogo di mezzo della pieve del Rostino, insegni a ben leggere e scrivere l'italiano, secondo il più approvato stile normale, e l’aritmetica alli giovinetti di detta pieve, ed agli altri che vorranno profittare di tale stabilimento (...). Avendo desiderato che fosse dal governo riaperta una scuola pubblica in Corte, luogo di mezzo per la maggior parte della popolazione dell'isola, lascio ducento lire sterline annue per il salario di quattro professori, il primo perché insegni la teologia naturale e i principj di evidenza naturale della divinità della religione cristiana; il secondo la etica e ii dritto delle genti; il terzo i principj della filosofia naturale, ed il quarto, gli elementi della matematica. E desidero che agli alunni l’insegnamento dovrà farsi in italiano, lingua materna de’ miei nazionali. (...) In caso poi che questa scuola in Corte non potesse aver luogo, fermo nel proposito di contribuire all'istruzione de' miei nazionali, lascio ducentocinquante lire sterline annue per il mantenimento di cinque alunni in alcuna delle migliori università del continente italiano. Due dovranno essere scelti nel dipartimento del Golo, due in quello del Liamone (...), il quinto sarà della pieve di Rostino”.Pasquale Paoli, dopo varie vicissitudini che lo videro anche protagonista delle vicende rivoluzionarie del 1789, morì in  esilio a Londra nel 1807 e fu sepolto nell’Abbazia di Westminster. Quando nel 1889 i suoi resti furono portati nella tomba di famiglia a Stretta di Morosaglia, la lapide fu scritta in italiano. Ma torniamo alle vicende della Rivoluzione Corsa anteriori al 1769. In un primo momento, la fortuna delle armi e la volontà di indipendenza del popolo corso riuscirono ad avere la meglio sulla potenza militare francese. I Francesi ebbero in quella guerra più caduti che nella guerra d’Algeria. Tuttavia, dopo alcuni anni durante i quali Pasquale Paoli si era dedicato con successo e sagacia a gettare le fondamenta amministrative e militari della Corsica indipendente, la cessione dell’isola da Genova alla Francia avvenuta con il Trattato di Versailles del 1768 mise in difficoltà i Corsi, che furono definitivamente sconfitti dai Francesi nella celebre e sfortunata battaglia di Ponte Nuovo del 7 maggio 1769.

  “CORSICA E ITALIA” – Parte III - La Corsica sotto l’occupazione francese (1769-1918).

Dopo la brevissima esperienza del c.d. “Regno anglo-corso” del 1794-1796, che darà un’altra Costituzione della Corsica, anche questa volta scritta in lingua italiana, l’Ottocento vide la definitiva scomparsa delle tradizionali istituzioni assembleari dei villaggi corsi e un sempre maggiore accentramento in capo al governo di Parigi delle funzioni amministrative, esercitate tramite i due Prefetti dipartimentali dell’isola. La “guerra del Fiumorbo” del 1815-1816 fu l’ultima grande fiammata insurrezionale corsa. Durante l’Ottocento, in virtù di un decreto del 10 marzo 1805 che derogava per l'isola all'uso obbligatorio del francese, l’Italiano era ancora la lingua ufficiale dell’amministrazione, della Chiesa e della cultura. L’uso puro della lingua italiana era tipico degli esponenti del notabilato corso che “parlanu in crusca”, mentre il popolo parlava il vernacolo corso. Il primo significativo brano in idioma corso apparve all’interno dell’opera in lingua italiana “Dionomachia” del 1817, scritta dal magistrato Salvatore Viale: “O Spechiu d’e zitelle di la pieve/O La miò chiara stella matuttina/Più bianca di lubrocciu e di la neve/Più rossa d’una rosa damaschina/Più aspra d’a cipolla, e d’u stuppone/Più dura d’una teppa, e d’un pentone...”. L’autore così rivendicò l’appartenenza Corsica_ponte_genovese_tavignano_Altianidell’idioma corso alla lingua italiana: “Dalla lettura di queste canzoni si vedrà che i Corsi non hanno, né certo finora aver possono, altra poesia o letteratura, fuorché l'italiana. La fonte e la materia della poesia in un popolo sta nella sua storia, nelle sue tradizioni, nei suoi costumi, nel suo modo d'essere e di sentire: cose tutte nelle quali l'uomo corso essenzialmente differisce da quello del continente francese e soprattutto dal prototipo dell'uomo francese che è quel di Parigi. Non parlerò della lingua la quale è più sostanzialmente informata da questi stessi principi; e la lingua corsa è pure italiana; ed anzi è stata finora uno dei meno impuri dialetti d'Italia”. Mazzini, che nel '31 vi giungeva da Marsiglia, così descrisse il suo arrivo in Corsica:"là mi sentii nuovamente, con la gioia di chi rimpatria, in terra italiana... Da Bastia ed Ajaccio in fuori, dove l'impiegatume era di chi lo pagava, ogni uomo si diceva d'Italia, seguiva con palpito i moti del centro e anelava a ricongiungersi alla Gran Madre". Il 18 febbraio 1831, a testimonianza della concorde reputazione della Corsica come terra italiana, nell’ambiente rivoluzionario parigino il generale La Fayette e il comitato rivoluzionario italiano di Parigi inserirono nell’accordo tra rivoluzionari italiani e francesi lo scambio tra Corsica e Savoia. Molti Corsi parteciparono al Risorgimento Italiano, come Leonetto Cipriani, che partecipò alla Prima Guerra d’Indipendenza del 1848-1849 e alla Spedizione dei Mille del 1860. La lingua italiana cominciò a essere vietata a partire dalla sentenza della Corte di Cassazione di Parigi del 4 agosto 1859 che ribadì – dopo che già dal 1852 era stato stabilito che si dovessero redigere esclusivamente in lingua francese tutti gli atti dello stato civile - che la sola lingua ufficiale in Corsica era la lingua francese. Si temeva infatti, all’indomani della Seconda guerra d’Indipendenza italiana, che il neonato Regno d’Italia potesse avanzare rivendicazioni sulla Corsica. Nel 1870, peraltro, diversi esponenti politici italiani suggerirono a Vittorio Emanuele II, che non accolse il suggerimento, di approfittare della sconfitta francese a Sedan, oltre che per annettere Roma, anche per recuperare la Corsica. Nel marzo 1871, il giovane deputato radicale Georges Clemenceau propose all'Assemblea nazionale di prendere in considerazione la cessione dell'isola di Corsica all'Italia. Questa proposta si giustificava alla luce del sostegno che la Corsica, e particolarmente Ajaccio, avevano dato alla persona dell’Imperatore, e al conseguente ondata discriminatoria contro i Corsi che seguì alla proclamazione della Terza Repubblica Francese. Il 19 maggio 1882, pochi giorni prima della sua morte, Garibaldi affermò che"La Corsica e Nizza non debbono appartenere alla Francia; e verrà un giorno in cui l'Italia, conscia del suo valore, reclamerà a ponente e a levante le sue province, che vergognosamente languono sotto la dominazione straniera." In quegli anni Emmanuel Aréne di Ajaccio, repubblicano moderato, impose i metodi clientelari e corruttivi della sua “consorteria” nella vita politica e sociale della Corsica. La Francia, con la sua politica doganale isolazionistica e discriminatoria per l’isola (cui vennero applicati, fino al 1912, un dazio del 15% per le merci esportate verso la Francia, ma del 2% per quelle importate dalla Francia), recise gli storici legami economici tra la Corsica e la “terraferma” italiana, con grave danno per l’economia dell’isola. L’istituzione di numerose scuole elementari nell’isola e l’arruolamento di tanti giovani Corsi nelle Forze Armate Francesi durante la Prima Guerra Mondiale (con quasi 20.000 caduti), intanto, acceleravano la diffusione della francofonia nell’isola.

Luca Cancelliere  

Corsica e Italia 2^ parte – Luca Cancelliere

$
0
0

corsica-terraferma-ita

“CORSICA E ITALIA” – Parte IV - Risveglio corso e irredentismo filo-italiano (1918-1945).

Tra la fine del secolo XIX e il primo dopoguerra si assistette alla riscoperta culturale dell’identità corsa, con riviste la prima delle quali fu“A Tramuntana” (1896) fondata da Santu Casanova. La rivendicazione della lingua e dell’identità corsa si univa al riconoscimento dell’appartenenza della Corsica alla sfera culturale e linguistica italiana, secondo l’antico adagio corso: “Da Capi Corsu à Bonifaziu, aria di Roma è mare di u Laziu”. Lo stesso Santu Casanova, iniziatore del risveglio corso nel 1896, quarant’anni dopo avrebbe aderito all’irredentismo filo-italiano con un telegramma inviato a Mussolini il 29 ottobre 1936: “In questo giorno, 29 ottobre dell'anno XV, nel quale lascio per sempre la mia Corsica natìa, e proprio quando sbarco a Livorno, patria amata di Costanzo e Galeazzo Ciano e di tanti eroi, mi pare di rinascere e di riprendere forze come Anteo al contatto con la Terra che fu la culla dei nostri antenati e rimane per noi còrsi la vera patria; io, dunque, in questo giorno di luce e di bellezza, Vi porgo con amore e rispetto, o Duce immortale, il mio saluto fraterno. Vogliate gradirlo come l'omaggio della nostra Corsica, sorella italiana purissima. A noi!”. Nel 1919 vide la luce il giornale “A Muvra”, fondato da Petru Rocca. Dal gruppo animatore della rivista prenderà corpo il “Partitu Corsu d'Azione”, fondato nel 1922 sull’esempio del coevo Partito Sardo D’Azione. In questo periodo ci fu una fioritura di opere poetiche e letterarie in corso, tra cui il primo romanzo in corso, “Terra Corsa”, scritto nel 1924 da marco Angeli. Nel 1927 il partito si trasformò in “Partitu Autonomista Corsu” e sciolto nel 1939 in ragione della sua collaborazione con il regime fascista italiano. Contemporaneamente l’ascesa del Fascismo in Italia, infatti, aveva sviluppato una corrente filo-italiana esplicitamente irredentista. Nel 1933 nacquero a Pavia i “Gruppi di Cultura Corsa”(GCC), fondati dallo studente corso Petru Giovacchini, già fondatore nel 1927 della rivista corsa filo-italiana “Primavera”. I GCC successivamente furono trasformati in “Gruppi di Azione Irredentista Corsa” (GAIC). Molti patrioti e intellettuali corsi (Petru Giovacchini, Marco Angeli, Bertino Poli, Domenico Carlotti, Petru Rocca, Pier Luigi Marchetti) scelsero di emigrare nell’Italia fascista, nella quale videro la luce riviste e pubblicazioni dedicate alla Corsica: “Atlante Linguistico Etnografico Italiano della Corsica”, “Archivio Storico di Corsica”, “Corsica Antica e Moderna”. Gioacchino Volpe, uno dei massimi storici italiani del Novecento e fondatore del sopra citato“Archivio storico di Corsica”, pubblicò nel 1939 a Milano la “Storia della Corsica italiana”, che ancora oggi è una delle più importanti opere storiografiche dedicate all’isola. Del resto già dal 1923 il quotidiano livornese “Il Telegrafo” pubblicava un’edizione per la Corsica. L'occupazione militare italiana durante la Seconda Guerra Mondiale, avvenuta nel novembre 1942 nell’ambito della c.d. “Operazione Anton” di occupazione italo-tedesca dei territori soggetti al governo di Vichy, fu pacificamente accettata dai Corsi che accolsero gli Italiani come liberatori. I“Gruppi di azione irredentista corsa” l'appoggiarono apertamente, chiedendo l'unione della Corsica al Regno d'Italia. Dopo l’8 settembre 1943, molti militari italiani appoggiarono in modo determinante la resistenza corsa, riportando 700 caduti nelle loro fila e contribuendo alla cacciata delle truppe germaniche dall’isola. Dopo la guerra, la Francia condannò a morte sette irredentisti filo-italiani, tra cui Petru Giovacchini, che sfuggì all’esecuzione della pena trovandosi in Italia. Petru Rocca fu condannato a 15 di lavori forzati. Simon Cristofini fu fucilato ad Algeri nel 1944 e sua moglie Marta Renucci, prima giornalista donna corsa, fu condannata a 15 anni di detenzione.

  “CORSICA E ITALIA” – Parte V - Il nazionalismo corso dopo il 1945.

Nel secondo dopoguerra le autorità francesi in Corsica dispiegarono una forte propaganda contro ogni forma di irredentismo filo-italiano, di autonomismo corso, di rivendicazione del legame culturale e linguistico tra Italia e Corsica e dell’uso dell’italiano e del corso nell’isola. La derubricazione strumentale e intellettualmente disonesta dell’identitarismo corso tra le due guerre a una forma di collaborazionismo filo-fascista ebbe l’effetto di porre fine a ogni forma di irredentismo filo-italiano e di rivendicazione dell’uso della lingua italiana in Corsica, ma le vicende accadute degli anni ’60 in poi fecero fallire completamente il progetto di integrale francesizzazione dell’isola. Nel 1957 due società a capitale misto statale e privato, la SOMIVAC (“Société d'économie mixte pour la mise en valeur de la Corse”) e la SETCO (“Société pour l'équipement touristique de la Corse”). Quest’ultima fu un sostanziale insuccesso. La SOMIVAC, invece, destinò il 90% dei propri terreni agricoli destinati alla viticoltura ai c.d. “Pieds-Noirs”, originariamente promessi ai Corsi, ai profughi francesi rimpatriati dall’Algeria indipendente. L’arrivo di circa 15.000 “Pieds-Noirs” – spesso con braccianti maghrebini al seguito – nell’isola fu visto dai Corsi come una misura coloniale della Francia e unitamente alle discriminazioni perpetrate a sfavore dei Corsi da parte della SOMIVAC, generarono una forte reazione da parte della popolazione autoctona. Nel 1968 videro così la luce, come reazione ai fatti sopra riportati,  il FRC (“Fronte regionalista corso”) e l’ARC (“Azione Regionalista Corsa”, poi “Azione per la rinascita della Corsica”). Il 18 agosto 1975 Edmondu Simeoni(ARC) occupò con 21 persone l’impresa agricola di un “Pied-Noir”, provocando l’intervento delle forze speciali francesi, lo scioglimento dell’ARC (29 agosto 1975) e gravi incidenti di piazza a Bastia, con un gendarme ucciso e carri armati per strada. Nel 1976 nacque, dalla fusione tra “Fronte PaesanuCorsu d i Liberazione” e “Ghjustizia Paolina”, il FNLC (“Fronte di Liberazione Naziunale Corsu”, dedito ad atti di resistenza armata contro il governo francese per molti anni e dotato di un proprio braccio politico legale (“Cuncolta Nazionalista”) dal 1987. Nel 1977 Edmondu Simeoni fondò la “Unione di u Populu Corsu”. I nazionalisti corsi avevano intanto presentato una serie di rivendicazioni tra cui il riconoscimento della lingua corsa e l’introduzione del bilinguismo, la riapertura dell’Università di Corte, fondata da Pasquale Paoli e chiusa con la conquista francese della Corsica, la tutela dell’ambiente e la lotta alla cementificazione selvaggia. Il governo francese, in risposta alle rivendicazioni corse, dispose già dal 1972 la creazione del Parco Naturale Regionale della Corsica (che copre il 40% circa della superficie dell’isola) e riaprì nel 1981 l’Università di Corte. Nel 1975 la Corsica, fino ad allora appartenente alla Regione “Provence-Alpes-Côte d’Azur”, fu elevata a 22° Regione della Repubblica Francese. Sempre nel 1975 l’unico Dipartimento corso fu diviso nei due attuali Dipartimenti di Ajaccio e Bastia, corrispondenti alle regioni storiche del “Pumonte” e del “Cismonte”, come nel periodo 1793-1811.  Nel 1982 fu concesso il nuovo Statuto Regionale. Dagli anni ’90, nonostante sporadici eventi di lotta armata (come l’assassinio del prefetto Claude Erignac il 6 febbraio 1998 ad Ajaccio), i nazionalisti corsi cominciarono a mietere successi elettorali di notevole portata. “Corsica nazione”, sorta nel 1992 dalla fusione di vari movimenti nazionalisti corsi e guidata da Jen-Guy Talamoni, ottenne nello stesso anno il 20% dei consensi alle elezioni per l’Assemblea regionale Corsa.“Corsica Libera”, sorta il 1° febbraio 2009 dalla confluenza di “Corsica Nazione” con “Accolta naziunale corsa” dell’ex consigliere regionale Pierre Poggioli, sotto la guida di Jen-Guy Talamoni e portatrice di un programma nazionalista radicale (cioè indipendentista), ottenne nel 2010 il 9,85% dei consensi e 4 seggi al secondo turno delle elezioni per l’Assemblea Regionale Corsa. “Femu a Corsica”, coalizione “nazionalista moderata” (cioè autonomista) guidata da Gilles Simeoni (figlio di Edmondu, avvocato e sindaco di Bastia dal 2014) et Jean-Christophe Angelini (segretario del “Partitu di a Nazione Corsa”, fondato nel 2002 dalla fusione della “Unione di u Populu Corsu” con altri due movimenti) ottenne nel 2010 il 25,89 % dei consensi e 11 seggi al secondo turno delle elezioni per l’Assemblea Regionale Corsa. Maggiore autonomia fu concessa alla Regione con la sua elevazione nel 1991 a “Collectivité territoriale de la Republique”, dotata di un Consiglio Esecutivo con il proprio Presidente e di un’Assemblea, entrambe con sede ad Ajaccio, e con la Legge sulla Corsica del 2002. Il referendum per l’ampliamento dell’autonomia regionale con la soppressione dei due Dipartimenti e il trasferimento delle loro funzioni alla “Collectivité territoriale” di Corsica fu respinto nel 2003, a causa dell’opposizione dei gollisti fedeli al tradizionale centralismo francese e di una parte dei nazionalisti corsi, timorosi che tale parziale e insoddisfacente concessione avrebbe indebolito le istanze di autogoverno dell’isola.

  “CORSICA E ITALIA” – Parte VI - La Corsica nel XXI secolo.

La Corsica di oggi è scarsamente popolata (poco più di 300.000 abitanti totali, 35 per kmq), di cui 26.000 cittadini stranieri (8% della popolazione, più della metà dei quali maghrebini). L’isola sconta una spiccata marginalità economica, territoriale e culturale rispetto al resto dello Stato Francese, cui appartiene da quasi 250 anni.  Dal punto di vista economico, la Corsica è ultima in Francia sia per PIL totale che per PIL medio per abitante (inferiore di oltre un quinto -  20.000 Euro contro quasi 26.000 Euro - rispetto alla media francese). Il tasso di disoccupazione è ben più elevato della media nazionale (16% contro 12%). I settori economici prevalenti sono l’agricoltura, l’allevamento e il turismo, mentre le uniche industrie di esportazione sono la birra e la componentistica aeronautica. I collegamenti stradali e ferroviari interni sono pessimi (la ferrovia Porto Vecchio-Bastia è stata addirittura soppressa, per cui gli unici collegamenti su rotaia sono quelli tra Ajaccio, Bastia e Calvi), mentre i collegamenti aerei (sei aeroporti civili) e navali (principalmente da Ajaccio, Bastia, Isola Rossa e Bonifacio verso i porti francesi di Marsiglia, Nizza e Tolone e i porti italiani di Savona, Porto Torres, Livorno e Santa Teresa di Gallura) sono più frequenti nella stagione turistica. In Corsica esiste anche l’aeroporto militare di Solenzara, base strategicamente molto importante per la presenza dei cacciabombardieri dell’aviazione militare francese, oltre che numerosi poligoni di esercitazione nel resto dell’isola. La principale differenza tra Corsica e Francia rimane però la profonda alterità linguistica e culturale della prima rispetto alla seconda, solo in parte colmata da quasi 250 anni di francesizzazione forzata. L’autonomia regionale, che pur tra tante difficoltà è stata faticosamente e progressivamente ampliata con le riforme del 1975, del 1982, del 1991 e del 2002, è la cornice indispensabile per il recupero dell’identità corsa, che passa necessariamente attraverso l’ufficializzazione della lingua autoctona dell’isola. Il nazionalismo corso dispiega ormai una forza politica ragguardevole. I nazionalisti corsi dal 2010 controllano ormai ben 15 seggi (di cui 4 i radicali di “Corsica Libera” e 11 i moderati di “Femu a Corsica”) sui 51 dell’Assemblea Regionale Corsa, la cui maggioranza di centro-sinistra esprime il Consiglio Esecutivo della Corsica, presieduto da Paul Giacobbi del “Parti radical de gauche”. E’ un nazionalista corso anche il sindaco della città di Bastia, Gilles Simeoni. Laurent Marcangeli, sindaco dell’altra grande città, Ajaccio, è invece espressione del partito “Union pour la Majorité Presidentielle” (UMR) di centro-destra. Il  17 maggio 2013 l’Assemblea regionale della Corsica ha votato la co-ufficialità della lingua corsa con quella francese, anche se il Ministro Manuel Valls si è affrettato a dichiarare che il Consiglio Costituzionale dichiarerà incostituzionale questa delibera. Negli ultimi 25 anni, comunque, dalla Corsica si sono levate diverse voci in favore di una rivalutazione della lingua italiana come lingua colta dell’isola e di una ripresa dello storico legame culturale e linguistico intercorrente tra la Corsica e la “terraferma” italiana. Tra queste iniziative si segnala la rivista “A Viva Voce” (http://www.wmaker.net/avivavoce/), “La sola rivista in italiano scritta da Còrsi”: “Alcuni uomini e alcune donne di Corsica, premurosi del rinverdimento della lingua dotta dei nostri antenati hanno deciso di pubblicare questa rivista in lingua italiana. Essa è un nostro retaggio e un puntello per mantenere viva la lingua còrsa” animata da un gruppo di studiosi isolani che si propone di utilizzare, al posto del corso o in supporto ad esso, la lingua italiana come lingua colta. E’ stata inoltre avviata una collaborazione tra l’Università di Corte e l’Università di Pisa, che organizzano insieme convegni e attività culturale tese a riallacciare l’antico legame tra le due sponde del Tirreno. Ancor più recentemente è apparso “Corsica Oggi” (http://corsicaoggi.altervista.org/) sito di “notizie e attualità còrsa” interamente in lingua italiana, che “vuole essere un’occasione per riprendere il filo che da sempre lega la cultura italiana e la Corsica”. Come si può leggere sul sito, “Il còrso non ha che da perdere allontanandosi dall’italiano. Rischierà di francesizzarsi e snaturarsi sempre di più. Già oggi parole come “u tuvagliolu” (il tovagliolo) sono spesso sostituite da una parola mutuata dal francese, in questo caso “a servietta”. Crediamo invece che lo studio e l’uso della lingua italiana accanto al còrso e al francese possa essere uno dei sostegni per permettere alla lingua nustrale di sopravvivere e rifiorire. E allora proviamo ad usarlo, e vedremo quante somiglianze ha con la lingua corsa. Può aiutarci a preservare la nostra identità, e può essere occasione di arricchimento culturale e di opportunità economiche, vista la vicinanza geografica dell’Italia e all’importanza del suo turismo verso l’isola”. E’ auspicabile che il popolo corso, che attraverso le sue rappresentanze politiche sta svolgendo una meritoria battaglia per la difesa e la promozione della lingua autoctona, possa presto riabbracciare anche la lingua italiana che appartiene indissolubilmente alla sua storia e recuperarla come lingua colta tradizionale dell’isola, da utilizzare a fianco del Còrso nelle scuole, nella televisione, nella stampa, nel teatro e nella letteratura,quale strumento indispensabile per la conservazione della stessa identità della Corsica.

Luca Cancelliere

Figlia d’Italia – Nicole Ledda

$
0
0

031_Gatteschi-e1442908357629-1000x500

Articolo a cura di Nicole Ledda dell’Associazione culturale Zenit

Traffico. La radio è accesa e ascolto distrattamente, finché qualcosa mi colpisce sul serio: la presentazione di un libro il cui titolo dovrebbe essere “la femmina alfa”, dal chiaro riferimento al maschio dominante, allora non posso proprio fare a meno di chiedermi “perché”. Quale potrebbe essere il problema, quale potrebbe essere il fastidio in questa società, nel riconoscere il proprio ruolo. In cosa consiste il disagio che da un lato ci spinge ad atteggiarci come uomini e dall’altro a svenderci come merce in saldo? A scrivere queste righe non è sicuramente una femminista né tantomeno una repressa succube, solo una persona che fortemente crede nella complementarietà di uomo e donna e che non si vergogna di stare al proprio posto. In questo mondo alla deriva, di maschi effeminati e di donne che soffrono il complesso di inferiorità e ritengono che “avere le palle” voglia dire essere aggressive e spregiudicate, voglio provare a raccontare la storia di una donna vera, una donna ovviamente dimenticata scientemente dalla storia.

Elegante, fiera, indomita, disciplinata, ottima organizzatrice, femminile, integerrima, moglie fedele. Una patriota! È Piera Gatteschi Fondelli, pluridecorata sostenitrice del fascismo che una volta fondata la Repubblica Sociale, collaborando con Alessandro Pavolini, diede vita alla SAF. Piera Gatteschi Fondelli, unico generale di brigata donna che le nostre forze armate abbiano mai avuto in tutta la loro storia. Represse, disagiate e femministe, figlie legittime di Laura Boldrini e Daniela Santanchè, volete un esempio di donna forte che non perde mai la sua essenza? Eccolo, ve lo stiamo offrendo. Ed è poesia, è esaltazione, è dolore. Le nostre ragazze più belle provengono da ogni ceto sociale e ogni regione d’Italia, portano anche esse la camicia o la divisa in panno grigioverde. Pur sottoponendole ad un addestramento militare, il generale Gatteschi le volle sempre femminili, così come testimonia la stessa divisa: banditi i pantaloni! Donne, madri e mogli. Le ausiliarie di Piera erano sorelle dei combattenti in prima linea. Da donne quali erano e quali dovremmo tornare ad essere, condividevano la stessa barricata e soprattutto accudivano questi uomini che sapevano di dover morire, li ascoltavano, li confortavano, li rassicuravano. Oltre a partecipare alle azioni, queste leonesse in gonnella, per essere precisi una gonna lunga quattro dita sotto al ginocchio; avevano l’arduo compito di sostenere coloro che si donarono per l’onore d’Italia, per riscattare tutta una nazione affinché si sapesse che non siamo mai stati e mai saremo tutti figli del tradimento.

In una lettera, è la stessa Piera a scrivere che non vi era posto tra le file della SAF, per coloro che volevano atteggiarsi a uomini né per coloro che si lasciavano andare a facili costumi. Sempre in una di queste lettere, troviamo il paragone tra le sue donne ardenti di sentimento ed entusiasmo, con gli occhi brillanti di speranza e le altre, le donne normali, belle per carità, nelle loro pellicce e dalle labbra scarlatte o color vinaccia, secondo la moda del tempo, ma dagli occhi vuoti, dal tipico sguardo di chi non crede in niente, di chi non sa (parafrasando il Morsello de” la tua gente migliore) quanto deve essere bello morir per un’idea. Difatti i sogni di rivoluzione non sono una prerogativa dell’uomo, ma la strada da percorrere spalla a spalla, ognuno secondo le proprie possibilità, per chi ha una fiamma che brucia dentro. Le ausiliare vennero uccise, massacrate, fatte prigioniere, torturate come dei veri e propri soldati e violentate nei modi più barbari e sconvolgenti, ad esempio con delle spille, in quanto donne. Nei giorni dell’odio, i giorni della guerra civile, in proporzione alle aderenti, parliamo di diecimila volontarie, fu proprio la SAF il reparto che pagò il maggior pegno di sangue. Il peso della responsabilità di queste donne in quei giorni fu fondamentale, difatti diedero conforto anche a tutte quelle donne disperate, sole e spaventate che per la prima volta si trovavano a dover lavorare e badare alla casa in assenza dei loro uomini. È coraggio puro signori, perché non prendiamoci in giro, per una donna, oggi come ieri, è più rischioso credere e donarsi. Fanno paura le donne di questo tipo molto più delle folkloristiche boss da salotto e delle mangia uomini di professione. Fa paura condividere un sogno, ma certe donne non hanno paura. Alla contessa Gatteschi, alle donne vere, a chi crede, agli uomini che non si sentono minacciati da chi condivide la loro visione del mondo “La mia vita non è stata facile, ma comunque dedicata tutta idealmente alla patria, al Fascismo nel quale ho creduto fermamente per la sua alta concezione di vita, fatta di giustizia sociale e di onestà. Andare verso il popolo. Ho vissuto il periodo più bello della Nostra Patria, il Ventennio di Mussolini. Ebbi l’onore della Sua fiducia e credo di aver fatto fino in fondo il mio dovere nel ricoprire gli alti incarichi che mi furono affidati, servendo l’Italia con onestà e fervore”. Forse queste saranno righe pregne di retorica e provincialismi, ma io non conosco altro modo per parlar d’amore, che di questo si tratta.

Viewing all 293 articles
Browse latest View live